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Il 'poeta' Gianfranco Contini "interpretato" dal prof. Enrico Margaroli (con una preziosa e inedita iconografia del grande filologo ossolano)

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Proseguendo nel proposito di commemorare il venticinquesimo anniversario della scomparsa - avvenuta a Domodossola nel 1990 - del nostro illustre conterraneo Prof. Gianfranco Contini, abbiamo deciso di riproporre un interessante giudizio critico espresso a suo tempo dal Prof. Enrico Margaroli (già insegnante di lettere anche al Collegio Rosmini dove fu studente il medesimo Contini) e incentrato sull'analisi - 'tentativo di interpretazione' viene definito - di alcune poesie dell'insigne filologo, peraltro amico o studioso dei più grandi poeti della storia non solo nazionale

Inoltre, novità davvero notevole e speciale offerta ai lettori di "pqlascintilla", il servizio è stato corredato da straordinarie e inedite fotografie (con legenda in calce alla pagina), messe con generosità a disposizione dai figli Riccardo e Roberto, che ritraggono il Prof. Contini colto in momenti di intimità famigliare non solo qui nella sua terra natale e dove ha vissuto gli ultimi anni di vita.

                                                                   La Red azione



Tentativo di interpretazione delle poesie "Trasfigurazione di un liceo", "Testa sul fiume", "Elegia del moto perpetuo" e "Frammento" scritte dal Prof. Gianfranco Contini (1)

Gianfranco Contini, come è noto, è l’insigne filologo ossolano, che dal 1990 riposa nel cimitero di Domodossola, dove nel 2005 lo ha raggiunto la moglie Margaret Piller. Egli ha scritto alcune poesie di difficile interpretazione per il linguaggio ermetico, consistente in un procedere per enigmi, in un giocare con i traslati e in uno stabilire equivalenze al limite dell’arbitrarietà, per cui testa sul fiume vale per “capo di bucato sulla corrente del fiume”; ombra di vetro per l’ombra che cadendo nell’acqua diventa trasparente come il vetro, mentre il Pendolo che oscilla fra due patrie è lo stesso Contini che fa la spola fra Friburgo e Domodossola; il vagone ferroviario diventa mobilia, in latino “cose mobili”; e, con un gusto più scopertamente barocco e scherzoso, leva le serrande delle chiuse, la valanga comincia significa: “solleva le palpebre sulle chiuse pupille, è l’ora in cui comincia ad irrompere nell’anima la massa rude e impetuosa degli eventi.”

Anche nella prosa il Contini non dimostrò talvolta maggiore compassione per le nostre scarsamente spremibili meningi, scrivendo per esempio: L’imitazione nel senso rinascimentale è infatti programmaticamente postuma, si muove nell’àmbito del già accaduto, inserendovi una serie di variazioni, dove si ammira la perizia retrospettiva nella riproduzione dei rapporti formali e si vedono elaborati paralipomeni collocativi.

Ma con questo non vogliamo avanzare una valutazione negativa: lo scrittore traccia un proprio cammino per virtù di stile, e, se il lettore non riesce a percorrerlo, mal per lui (o per entrambi?).

TRASFIGURAZIONE DI UN LICEO (2)

Quando il satiro bonario

era entrato, e i viticci del suo capo

uncinavano il ricordo dei fauni,

e fulvi erano gli antichi bronzetti

e la bella vendemmia che chiamavano,

i loschi occhietti in qua e in là ammiccavano

a bacche amiche, un odore di selva

e d’uomo rosso era nell’aria: subito

un galoppar di zoccoli per le aule

si sfrenava, celere sulle pergole

era l’arrampicata, la sterpaglia

s’impiantava, e oramai di fronda in fronda

un sembiante di code era nel cielo.

Squittiva Kant: indarno. La foresta

liberata era in succhio. Dal soffitto,

a rosicare noci e sugger drupe

intenta mandra per il bosco chiaro,

tutto un liceo trasportato nel ferro

battuto sogguardava: un riso. Sotto,

rara erba sopra tenera creta

distendevo io, qual tra mezzo gli ulivi:

il tuo tappeto, Italia.     (1936)

Quando il satiro bonario

era entrato, e i viticci del suo capo

uncinavano il ricordo dei fauni,

e fulvi erano gli antichi bronzetti

e la bella vendemmia che chiamavano,

 i loschi occhietti in qua e in là ammiccavano

a bacche amiche, un odore di selva

e d’uomo rosso era nell’aria:

Non appena il professore, che assomigliava a un satiro, era entrato nell’aula, e i suoi capelli riccioluti o arruffati che sembravano viticci, con la loro forma ricurva “uncinavano”, cioè risvegliavano il ricordo mitico dei fauni, i cui piccoli bronzi che li raffiguravano erano rossi come la bella vendemmia che richiamavano alla mente, e i loro occhi “loschi”, cioè resi torbidi dalle loro inclinazioni viziose al sesso ed al vino, ammiccavano inquieti e bramosi alle gradevoli bacche, allora nelle aule si diffondeva l’odore della selva e dell’uomo rosso. Insomma l’aula del Liceo in seguito ad una suggestione iniziale provocata da qualche particolare satiresco dell’incolpevole insegnante, si popola, nella fantasia scatenata degli studenti, delle licenziose divinità dei campi, simbolo delle forze generatrici della natura, le quali risvegliano l’eccitamento sessuale fra i giovani liceali.

i fauni: i satiri e i fauni erano i seguaci di Bacco ed erano immaginati procaci e non atti, al pari dei manzoniani lanzichenecchi, ad insegnare la modestia alle fanciulle.

odore di selva e di uomo rosso: il saevus odor Iacchi, cioè l’eccitante odore di Bacco, possiamo trovarlo nella Tebaide di Stazio ( II, 86).  L’uomo rosso potrebbe evocare il Bacco minio suffusus di Tibullo, o Priapo il ruber custos degli orti, o anche il semplice contadino che durante le feste  della vendemmia si colorava la faccia col minio o col mosto.

 subito

un galoppar di zoccoli per le aule

si sfrenava, celere sulle pergole

era l’arrampicata, la sterpaglia

s’impiantava, e oramai di fronda in fronda

un sembiante di code era nel cielo.

E subito la scolaresca eccitata dalle fantasie erotiche si trasfigurava in una torma di fauni o di satiri dagli zoccoli caprini, che galoppavano (forse con un’allusione erotica) e si arrampicavano sulle pergole, (<<impalcature per sostegno di viti>> che in Ossola chiamano <<topie>>) e, gli studenti che poco prima erano una sterpaglia di dorsi curvi sui banchi, si trasformava (“s’impiantava”) nella visionarietà del poeta in piante slanciate, tra le cui fronde sullo sfondo del cielo si intravedevano forme che sembrano code. Infatti i fauni, come i satiri, avevano la coda, e forse il giovane e un po’ scapestrato liceale (se la poesia fu abbozzata durante il liceo) gioca sugli equivoci e i doppi sensi, nel qual caso il cielo alluderebbe ad uno stato di piacere.

S’impiantava: il senso da me dato al verbo non pare testimoniato, ma nella letteratura esistono molti esempi affini che lo autorizzano: l’imbestiarsi dei compagni di Ulisse, l’intorarsi di Giove, l’indonnarsi di Tiresia, etc.

Squittiva Kant; indarno.

E il docente di filosofia insisteva, con voce che giungeva sgradevole alle orecchie dei suoi allievi, nell’esporre la lezione del giorno su Kant. Ma invano: come riportare alla severità degli studi quei giovani che stavano gustando con la fantasia la dolcezza della libertà e della voluttà? Ed infatti

 La foresta

liberata era in succhio.

Quella che prima era una sterpaglia di studenti annoiati e sottomessi, ora è diventata “una foresta in succhio”, come si dice, in senso proprio, per gli alberi, e, in senso figurato, <<in concupiscenza>> per gli umani, come spiega con circospezione un vecchio vocabolario.

Ma a questo punto la scena e lo stato d’animo sembrano cambiare radicalmente, e l’interpretazione si fa ancora più ardua e dubbia. Il liceo, anzi, “tutto il liceo” subisce una nuova trasfigurazione connessa, azzardiamo, ai miti del fascismo che sostituiscono quelli pagani, e che, soffocando le pulsioni di sfrenata e gioiosa sensualità degli adolescenti, sembrano esprimere una condizione di avvilimento e di repressione.

 Dal soffitto,

a rosicare noci e sugger drupe

intenta mandra per il bosco chiaro,

tutto un liceo trasportato nel ferro

battuto sogguardava: un riso.

Al galoppare sfrenato di un’orda di satiri e fauni si contrappone in una parte del bosco meno folta e selvaggia il rosicchiare di una “mandra intenta”, cioè concentrata e non più agitata dalla frenesia sessuale. Infatti l“intenta mandra”ci suggerisce degli animali tranquilli, che hanno bisogno di un guardiano che li guidi e li governi. Potrebbe quindi trattarsi del corpo docente, di cui un indizio è <<il bosco chiaro>>, poiché l’aggettivo <<chiaro, chiarissimo>>si usa nel mondo accademico per sottolineare il valore del professore. Ma il bosco è anche <<chiaro>>, perché le persone mature sono meno soggette all’eccitamento sessuale ed agli impulsi incontrollati dell’istinto.

“Dal soffitto”, (il termine per la sua vicinanza fonetica con “soffitta” potrebbe contenere una sfumatura di disprezzo, ribadita dal “mandra” che segue), ossia dal piano di sopra, “tutto un liceo”, cioè studenti e docenti, non più distribuiti nelle “aule”, ma radunati forse in un luminoso salone per le celebrazioni ufficiali di regime, è diventato una docile mandria, “trasportata nel ferro battuto”, ossia richiusa ed irrigidita nella disciplina fascista che voleva forgiare per la guerra l’itala gioventù, e “sogguarda”, cioè guarda di sottecchi con un senso di umiliazione, di rancore e sospetto. E questa rapida trasfigurazione da giovani satiri o da docenti in malinconici roditori intenti a godersi i miseri vantaggi e riconoscimenti del Regime, appare al Contini una situazione degna di disprezzo e di derisione (ricordiamo che il Contini nel 1932 era stato allontanato dall’Università di Pisa per essersi rifiutato di iscriversi al Partito Fascista).

trasportato: come già detto, può darsi che i liceali siano stati trasferiti in un’aula al piano superiore per una adunata di carattere politico.

 nel ferro battuto: nella poesia dello stesso anno “Testa sul fiume” troviamo l’espressione “l’acqua battuta, serva” e l’aggettivo qualificativo l’abbiamo mentalmente riferito anche al “ferro battuto”. Le finestre del Palazzo Municipale di Domodossola erano chiuse da inferriate in ferro battuto con al centro il fascio, simbolo romano di unità e disciplina. Di costrizioni imposte alla gioventù si parla nella “Canzone ritardata”: i giovani di leva filarono costretti.

“Dal soffitto”:è da intendere <<sopra di me>>, cioè al piano di sopra, contrapposto al “sotto” in cui si trova il Contini, il quale si era volontariamente isolato, ma in una posizione moralmente superiore rispetto alla mandria dei liceali e dei colleghi piegati o sedotti dai miti del fascismo e gonfi di una vacua retorica militarista

La seconda parte della poesia dunque, a parer mio, esprime la reale condizione, dopo l’eccitazione libertaria e il ritorno illusorio alla libertà orgiastica della selva, si trova ora rappresentato nella sua reale situazione politica e sociale. La <<mandra>> degli studenti e dei docenti, vive una penosa situazione di sudditanza, e può soltanto rosicchiare rassegnatamente il suo cibo, cioè le misere prebende e i contentini concessi in cambio della perdita della libertà e della dignità. E questa situazione appare al Contini <<un riso>>, cioè degna di derisione.

 Sotto,

rara erba sopra tenera creta

distendevo io, qual tra mezzo agli ulivi:

il tuo tappeto, Italia,

Nella terza parte della poesia, in una posizione, come si è detto, socialmente inferiore, ma moralmente superiore, il Contini, in mezzo agli ulivi simboli di pace in opposizione al bellicismo fascista, si dedicava a far crescere sulla tenera creta, cioè ad instillare nelle menti malleabili ma spoglie dei giovanetti, la “rara erba”, cioè valori più umani sebbene poco diffusi, che avrebbe formato il verde tappeto di una nuova gioventù, quella della speranza e della pace sul quale un giorno l’Italia si sarebbe incamminata.

Italia”, parola che appare quasi magicamente! Armoniosa e isolata, essa è la più bella di tutta la poesia, perché non infettata dai cerebralismi, limpida e pura.

Insomma, nella poesia il Contini è riuscito, in pieno regime fascista, a contrabbandare, servendosi di un linguaggio criptico, la sua fede in un’Italia, che non è quella tronfia e bellicosa del totalitarismo, ma è l’umile Italia alla quale egli senza trionfalismi e di soppiatto (”sotto”) prepara un futuro non con le armi, ma tessendo con il suo insegnamento il tappeto delle democratiche coscienze, grazie alle quali l’Italia un giorno avrebbe potuto risorgere e progredire in mezzo ai pacifici ulivi.

TESTA SUL FIUME (poesia d’amore)

Quando fra il legno di perigliose schegge

il capo s’arrischia sul fiume, non attende

l’ombra a farsi di vetro,

meno gravata della salda terra

si sente e più grata la corrente che regge

quell’instabile foglia. Il vento n’è

padrone.

Ora si svincola,

fila sulla schiuma glauca (da sapone

o da ghiacciaio), lo governa l’acqua

dei mulini, delle gualchiere, acqua

battuta, serva; ed egli si flette elastico

alle percosse, fin quando giunga alle donne

che lavano, e subito torna

la dura noce gremita d’aspro pelo:

e con lui giocano le mani, lo rimbalzano

d’uno in altro argine. Come dell’onda,

a voler vostra sudicia e poi serena,

fate di lui, lavandaie.     (1936)

Quando fra il legno di perigliose schegge

il capo s’arrischia sul fiume, non attende

l’ombra a farsi di vetro,

meno gravata della salda terra

si sente e più grata la corrente che regge

quell’instabile foglia. Il vento n’è

padrone.

Quando dalla passerella di montagna, fatta con tronchetti spaccati per il lungo con i cunei, e quindi instabile e pericolosa, la mia testa si sporge sul fiume con qualche rischio (forse per essere senza ringhiere), la sua ombra nell’acqua si fa subito trasparente come il vetro, e di conseguenza la corrente si sente meno appesantita della solida terra dove l’ombra cade più compatta e oscura, e si sente più grata per dover reggere un’ombra instabile e leggera come una foglia di cui il vento è padrone.

Ora si svincola,

fila sulla schiuma glauca (da sapone

o da ghiacciaio), lo governa l’acqua

dei mulini, delle gualchiere, acqua

battuta, serva; ed egli si flette elastico

alle percosse, fin quando giunga alle donne

che lavano, e subito torna

la dura noce gremita d’aspro pelo:

Alla vista di un capo di bucato che passa sulla corrente, la testa del poeta si identifica con esso, “si svincola” dal proprietario, e capo e testa, due in uno, scendono veloci sulla schiuma glauca, ossia che prende il colore o del sapone o quello leggermente ceruleo del ghiacciaio, e diventa preda dell’acqua ( il fiume è la Viége o Visp nei pressi di Zermatt), acqua maltrattata, asservita all’uomo, e costretta a muovere mulini e gualchiere; e questo capo si dimostra malleabile e cedevole al turbinio dell’onde ed agli urti contro le pietre e le sponde, fino a quando giunge alle mani delle lavandaie, disposte ad una opportuna distanza lungo le due sponde, che lo strizzano e ne fanno una palla, tornando così ad essere la testa, dura come una noce, del Contini gremita di capelli e di ispida barba, forse come lo strumento munito di aspre setole di cui le lavandaie si servono per raschiare i panni.

e con lui giocano le mani, lo rimbalzano

d’uno in altro argine.

E il Contini vede le giovani lavandaie giocare con quel capo di biancheria che è nello stesso tempo la sua testa, facendola giocosamente rimbalzare da una sponda all’altra.

E come il capo di bucato era “elastico” alle percosse della corrente, ora, per analogia, il poeta mette a disposizione delle lavandaie il proprio arrendevole capo, invitandole a fare di esso secondo la loro volontà, come fanno con l’acqua, che rendono dapprima sporca e poi di nuovo limpida (“serena”:perché riguarda anche lo stato d’animo del poeta):

Come dell’onda,

a voler vostra sudicia e poi serena,

fate di lui, lavandaie

Ecco perché la poesia porta il sottotitolo di “poesia d’amore”: le lavandaie hanno conquistato il poeta che pronuncia al plurale il celeberrimo <<Fa’ di me ciò che vuoi>>. Fate della mia vita un lindo ruscello o un fiume fangoso. Insomma il Contini riconosce il potere che le donne hanno di elevare o abbrutire gli uomini. Ma il componimento, che presenta tutte le complicazioni tecniche e linguistiche che l’epoca di Gadda e di Montale esigeva, più che un generico canto di amore, è una galanteria, un divertito madrigale per un destinatario totalmente privo degli strumenti per recepirlo.

ELEGIA DEL MOTO  PERPETUO

Il Pendolo oscilla fra due patrie,

e va per le forre cruccioso con malinconiche

compagnie. Inutilmente gli avversi poli

gli fingono volta a volta i circoli frumentari

e i clivi elettrificati,

per illudergli la coscienza dell’esilio. Non ha più cuore,

non osa esorbitare fino ai ponti

di là dai quali traboccano le sue terre,

l’infiammata che ha fissato in sé il crepuscolo,

nelle colonne come gambe d’atleti,

la pallida che tinge di carbone, smemoranti

l’una e l’altra dell’antipodo. Ecco, si smemora, per esempio,

il suo sopore non è incrinato dai desideri,

l’invidiabile Filo a piombo che modesto vede avvenire

alla sua sinistra quelle albe, alla sua destra quei tramonti;

e affacciato tutto il tempo ai terrazzi dell’altopiano,

ha il Centro ai propri piedi. S’invertono, ai talloni gli alitano,

come sotto gli odiosi picchi i falchi,

le brezze del Paese, glieli impennano. E, quotidiana

anima (inerzia!) non sente bisogno di adorare.     (1939)

Il Pendolo oscilla fra due patrie,

e va per le forre cruccioso con malinconiche

compagnie. Inutilmente gli avversi poli

gli fingono volta a volta i circoli frumentari

e i clivi elettrificati,

per illudergli la coscienza dell’esilio.  

Il Pendolo, a cui il Contini è ridotto, oscilla in continuazione fra due patrie, fra la Svizzera e l’Italia, fra due città, Domodossola, dove è nato, e Friburgo, dove insegna, e, scontento e sdegnato con l’amaro destino, viaggia per le gole delle Alpi in compagnia di malinconici viaggiatori. E invano i due poli contrapposti presentano alla sua immaginazione, quando è il loro turno, cioè quando il Pendolo si trova nella patria avversa, il ricordo o dei campi di frumento o delle coste alpine attraversate dai fili dell’alta tensione, nel tentativo di dargli l’illusione di trovarsi sempre nella medesima patria, e cancellare la consapevolezza che esso ha del suo oscillare da un esilio all’altro.

circoli frumentari: “aree circolari coltivate a frumento” (P. Montorfani nel libro citato). La spiegazione non convince: per quale ragione i campi dovrebbero essere circolari?  Penso piuttosto al significato traslato del termine, di “associazione”: circolo sportivo, circolo letterario, cioè associazioni di sportivi, di letterati; se esistesse un “circolo agrario”, sarebbe una associazione di agricoltori; per analogia il “circolo frumentario” può essere un’associazione, un insieme di spighe di frumento. L’ipotesi è accettabile per un Contini dal gusto spiccato per le metafore ardite, e talvolta bizzarre e scherzose, che definiva, come abbiamo visto, “serrande” le palpebre e “dura noce” la propria testa, etc.

Non ha più cuore,

non osa esorbitare fino ai ponti

di là dai quali traboccano le sue terre,

l’infiammata che ha fissato in sé il crepuscolo,

nelle colonne come gambe d’atleti,

la pallida che tinge di carbone, smemoranti

l’una e l’altra dell’antipodo.

Ma ormai il Pendolo non ha più cuore, non più palpiti, entusiasmo e ideali, non osa più spingersi per amore di libertà e di avventura fuori dalla sua orbita odiosa fino ai ponti oltre i quali si estendono le sue due terre, l’italiana, illuminata da un sole fiammeggiante, dove si è stabilizzato il crepuscolo della decadenza nei suoi monumenti di cui sono sineddoche le colonne robuste come gambe di atleti, e quella svizzera, illuminata da un pallido sole, la quale tinge uomini e cose col fumo delle vaporiere, due terre che si dimenticano l’una dell’altra che le sta di fronte.

 Come gambe di atleti: “ Probabile riferimento all’architettura romana (poi cristiana) che caratterizza la civiltà italiana ed europea. La similitudine gambe-colonne non è infrequente nella letteratura otto-novecentesca”. (P, Montorfani nel libro citato)                                

Ecco, si smemora, per esempio,

il suo sopore non è incrinato dai desideri,

l’invidiabile Filo a piombo che modesto vede avvenire

alla sua sinistra quelle albe, alla sua destra quei tramonti;

e affacciato tutto il tempo ai terrazzi dell’altopiano,

ha il Centro ai propri piedi.

Per fare un esempio, si dimentica di se stesso, poiché non è afflitto dal destino avverso del Pendolo, l’invidiabile Filo a piombo, la cui pace profonda non è compromessa dai desideri e dalle ambizioni, in quanto, essendo modesto e appagato, non corre il rischio di essere trascinato nel moto perpetuo del Pendolo, ma vede sempre alla sua sinistra (essendo rivolto verso il sud) le medesime albe e alla sua destra i medesimi tramonti, poiché il Filo a piombo non inverte il proprio movimento come il Pendolo; cioè chi è sedentario, si affaccia in continuazione sui terrazzi (i paesi e i villaggi posti sulle pendici) dell’altopiano (la Val d’Ossola), poiché sente che il proprio centro di gravità cade all’interno di sé, lo trattiene senza tormenti e dissidi nella sua unica terra che ha sotto i piedi.

 S’invertono, ai talloni gli alitano,

come sotto gli odiosi picchi i falchi,

le brezze del Paese, glieli impennano. E, quotidiana

anima, (inerzia!) non sente bisogno di adorare.

Le brezze del suo unico Paese, l’Italia, invertendo – esse e non il Pendolo – la direzione, come fanno sotto gli odiosi picchi i falchi, mandano un lieve soffio ai talloni del Filo a piombo, ai quali mettono le ali. E la sua anima, uguale ogni giorno a se stessa, perché soggetta al principio di inerzia, non sente il bisogno di “adorare”, cioè di uscire dal proprio baricentro per tendere all’altro e all’altrove facendosene dei miti.

Come…i falchi: verso che forse serve al poeta più che altro per specificare il luogo (le montagne italo-svizzere) dove il Pendolo compie le sue oscillazioni.

odiosi picchi: i picchi sono “odiosi” perché fanno parte della zona di oscillazione del pendolo ed orlano le forre che percorre “cruccioso”.

glieli impennano: reminiscenza classica. Mercurio, messaggero degli dei, era raffigurato con le ali ai piedi.

Ad-orare:etimologicamente ”rivolgere la propria preghiera e affetto verso qualcuno o qualcosa”; non si deve intendere nella sola accezione religiosa. Si può adorare una città, un cibo, etc. Significa dunque “aspirare a qualcosa che sta al di fuori di noi e del nostro “Paese” e a cui si attribuisce un miracoloso potere”.

La poesia prende il nome di elegia, che, come è noto, è un componimento in cui il poeta esprime la propria delusione, tristezza e rimpianto. Il poeta non si rappresenta nemmeno più come un uomo, ma come un meccanismo “senza cuore”, rassegnato e alienato in un movimento sempre uguale, del quale è soggetto passivo, ed essendo costretto a percorrere il medesimo odioso viaggio da un “antipodo” all’altro, invidia la calma e la stabilità del Filo a piombo, cioè di colui che ha trovato il proprio baricentro, e vive stabile ed appagato. Al di là dell’insoddisfazione personale, il Contini con questa poesia anticipa il futuro destino di migliaia di frontalieri ossolani e delle zone limitrofe, costretti ogni giorno a percorrere la medesima monotona oscillazione fra due terre, e rappresenta anche l’alienazione dell’uomo moderno, scisso, e che non trova più in sé la ragione del suo esistere, che non è più padrone della propria esistenza e non si muove più motivato da una sua intima spirituale esigenza.

FRAMMENTO

…Ci guardammo

con gli occhi spaventati delle cerve,

e restava sui dorsi delle destre

un’orma di saliva, una memoria

che richiedevi tu dell’abitudine

che or troncava la lama sconosciuta.

A campana sonava entro di noi

quello sdrucciolo, u l t i m o. Sarebbe

presto solo affanno per i viali

vecchi-ignoti, dalle sponde invisibili,

foglie; nebbia e cemento, e all’orizzonte

non tracce della fuga… (1939)

…Ci guardammo

con gli occhi spaventati delle cerve,

Questi versi descrivono il momento di un rapporto di amicizia o di amore fra due persone non specificate, giunte nella fase dolorosa della separazione. Un primo indizio ci viene però suggerito dalla similitudine. Dovrebbe trattarsi di un uomo e di una donna, poiché immaginarsi che due uomini si guardino con occhi di cerve appare piuttosto ridicolo; se invece si tratta di un amico (o innamorato) possiamo pensare che egli veda, per simpatia e identità, nello sguardo di lei il proprio sguardo, in altre parole si riflette in lui identico lo sgomento della donna.

e restava sui dorsi delle destre

un’orma di saliva, una memoria

che richiedevi tu dell’abitudine

che or troncava la lama sconosciuta.

E mentre i due si guardavano negli occhi per l’ultima volta, sentivano entrambi sui dorsi della mano destra l’umidore che il reciproco baciamano vi aveva lasciato. Ci viene qui dato il secondo indizio che si tratta di un uomo e una donna, poiché immaginare un baciamano, e per di più abituale, fra due uomini è quasi impossibile e del tutto grottesco. Fra due che si vogliono bene possiamo invece immaginare che dopo che lui ha baciato con devozione la mano della donna, lei a sua volta, per testimoniare la medesima devozione e identità di anime ( “amicus alter idem”, dicevano gli antichi) abbia baciato quella di lui, atto che è diventato consueto e che nell’ora dell’addio la donna ha richiesto come un ultimo ricordo, ricordo di un rapporto di amicizia, o di amore, che la lama di un destino ancora non bene individuato stava per recidere.

Lama sconosciuta: il Contini era amico ed estimatore di Montale e queste sue poesie sono ricche di citazioni e di reminescenze del poeta ligure. Qui la “lama sconosciuta” che tronca il ricordo ci rimanda alla nota poesia “Non recidere, forbice, quel volto” . La lama è “sconosciuta” perché la separazione è dovuta ad un pericolo ancora non ben definito (le persecuzioni razziali), o che forse i due preferiscono lasciare in una speranzosa indeterminatezza.

 A campana sonava entro di noi

quello sdrucciolo, u l t i m o.

Con la monotonia ossessiva di un rintocco sempre uguale di campana risuonava dentro i due l’aggettivo sdrucciolo: “u l t i m o”, evidentemente l’ultimo incontro e baciamano. Un’idea accessoria dell’ “a campana”, atto a sottolineare la gravità del momento può essere richiamata dalle espressioni affini “a morto”, “a martello”, cioè con rintocchi staccati ed angosciosi, che servivano un tempo a segnalare un evento straordinario, una morte, un assalto di briganti, un incendio.                                  

u l t i m o: “l’aggettivo è evidenziato da una spaziatura doppia fra le lettere, abitudine che fu anche del Contini critico” (P. Montorfani). Ma qui la doppia spaziatura potrebbe anche suggerire una lettura rallentata, fonosimbolica, atta ad evidenziare il suono lugubre e lento della parola-rintocco (si noti che nel verso prevalgono le vocali scure).

Sarebbe

presto solo affanno per i viali

vecchi-ignoti, dalle sponde invisibili,

foglie; nebbia e cemento,

E ben presto per l’amico, rimasto solo, il percorrere i viali sarebbe stato motivo di angoscia e di inquietudine; viali “vecchi” perché sono ancora quelli ben noti delle ore felici e delle passeggiate, ma che presto sarebbero diventati “ignoti”, cioè estranei, irriconoscibili, immersi nella nebbia, che impedisce di vedere da un lato all’altro, di un autunno perenne, in una città squallida e ingrigita dal cemento.

dalle sponde invisibili: questo sintagma permette di inserire la poesia in una tematica importante di Montale, quella delle ragazze ebree che vedevano profilarsi all’orizzonte un destino di persecuzione e di morte; esso si trova nella poesia delle “Occasioni”, pubblicato nello stesso anno, il 1939, che per l’Italia è l’anno delle leggi razziali.

Infatti in “Dora Markus”, ebrea austriaca, che ha deciso di tornare in patria, in Carinzia, leggiamo: <<con un segno della mano additavi all’altra “sponda /invisibile” la tua patria vera.>> Dunque questa specificazione che applicata ai viali si spiega perché sono nascosti dalla nebbia, assume un significato metaforico più tragico e vasto, perché inserisce l’episodio in una tragedia europea e ci dice che per la donna del Contini (e con lei per tutta una razza) non esistono più sponde, né quella della “vera patria”, che è per ciascun ebreo quella in cui è nato, e che veniva loro negata, né quella di una nuova in cui rifugiarsi.

e all’orizzonte

non tracce della fuga…

La separazione si precisa qui come una “fuga”, ma da chi e da che cosa?

La risposta la troviamo ancora nella poesia di Montale: <<Distilla veleno una fede feroce. Che vuole da te? Non si cede voce, leggende, destino….Ma è tardi; sempre più tardi.>>

Come Dora Markus fugge dalle leggi spietate del nazismo, anche la donna del Contini fugge dunque dal profilarsi all’orizzonte di persecuzioni sempre più feroci, ma è ormai “tardi” anche per lei.

Per un’altra ragazza ebrea, “Liuba che parte”, almeno si era offersta un’altra sponda, l’America, mentre per la donna anonima del Contini, entrambe le sponde erano avvolte nella nebbia, nessuna salvezza era possibile, e del suo fuggire nell’indifferenza od ostilità generale il futuro non avrebbe serbato alcuna traccia e memoria.

Ancora una volta dunque il Contini, come in “Trasfigurazione di un liceo” ha espresso il proprio antifascismo ed antirazzismo, dimostrandoci così che la sua futura partecipazione alla Repubblica dell’Ossola non sarebbe stata (ma lo sapevamo già) un’avventura improvvisata, ma ispirata dalle convinzioni di tutta una vita.

Quest’ultima poesia del Contini per la sua intensa umanità e repressa pietà meriterebbe di essere posta nelle antologie accanto alle due di Montale).

NOTE

(1) Per questo lavoro mi è stato di aiuto il volume Gianfranco Contini, Poesie,  (Nino Aragno Editore, Torino, 2010) con il commento a cura di Pietro Montorfani, il quale lascia sovente senza una chiosa adeguata passi di difficile interpretazione. Io ho voluto tentare una parafrasi e mi auguro che questo rischioso tentativo di penetrare sotto “il velame de li versi strani” non mi abbia trascinato troppo spesso lontano dal vero.

 (2) Il Contini nel 1936 era insegnante al Liceo Classico Mariotti di Perugia, dove la poesia potrebbe essere stata scritta. Ma – senza entrare in una disputa di campanile – dal momento che l’inizio della poesia “Quando il satiro bonario era entrato” sembra rievocare un personale e lontano ricordo di scuola, sia grazie al bonario che ne indica una conoscenza diretta e famigliare, e sia all’era entrato, che si giustifica meglio dal punto di vista dello studente, (e inoltre, se il fatto accadesse nel periodo di insegnamento a Perugia, il verbo al passato non si giustificherebbe), propendo a credere che la vicenda si riferisca – sia pure soltanto attraverso il ricordo e come prima spunto – alle aule del collegio Mellerio-Rosmini, dove il Contini frequentò l’intero corso di studi (1921-29). Bisogna tuttavia riconoscere che la parte finale (sotto…distendevo io) meglio si addice a chi svolge una funzione didattica. In questo caso lo spostamento al passato della “trasfigurazione” potrebbe essere un semplice accorgimento per salvaguardarsi.

Saggio di Enrico Margaroli

(pubblicato anche su Oscellana, n. 3, Luglio-Settembre 2014)


L'inedita, preziosa iconografia

del Prof. Gianfranco Contini

La prima istantanea (in ordine decrescente nel servizio) lo ritrae sull'Isola Bella nel lago Maggiore insieme alla moglie Margaret Piller intorno agli anni 'Sessanta; la seconda, del 1963,  è invece con i figli piccoli Riccardo e Roberto in P.zza Motta nella 'sua' Domodossola; più sotto, col figlio Riccardo in braccio, siamo invece nel 1957, nei giardini Boboli di Firenze, città dove ha abitato per tanti anni; nella quarta fotografia, dell'anno successivo, si 'ritorna' in Ossola, ad Anzuno, con la moglie e il figlio Roberto; l'immagine successiva può considerarsi rara e particolare, appaiono infatti, colti in 'movimento', il Prof. Contini e sua madre Maria Cernuscoli: sono in Austria e l'anno è il 1955; mentre, non meno suggestivo per il look e la posa insoliti, è lo scatto del 1960 nella pineta di Cervia, con il bimbo Riccardo; l'ultima foto è infine  davanti alla chiesa di Cravegna, in Val Antogorio, ancora vicino alla moglie Margaret.

NOTA BIOGRAFICA

Enrico Margaroli è nato a Masera, provincia del Verbano Cusio Ossola, il 18-10-1936. E’ stato insegnante di lettere al Collegio Rosmini e al Liceo Statale Spezia di Domodossola. Ha iniziato a scrivere poesie fin dall’adolescenza, grazie a una creatività ossessiva e del tutto involontaria. La sua poesia si caratterizza per la mancanza di una ambientazione realistica, in una specie di Arcadia, dove i personaggi, portatori dei sentimenti di tutti i tempi, raramente si pongono in rapporto con una concreta società e con i problemi concreti.  La forma, di impostazione classica per l’uso rigoroso dei metri tradizionali e della rima, è dovuta non tanto ad una scelta, quanto ad una esigenza del poeta di “musicare” la vita e il dolore e di sublimare l’angoscia esistenziale e il tumulto delle passioni e delle esperienze in un mondo di ordine e di armonia. E’ anche autore di articoli di critica letteraria, in ambito locale con lavori su Clemente Rebora e sui principali poeti ossolani, pubblicati su Oscellana, e, in un ambito più ampio, con lavori sui poeti russi Karamzin, Puskin, Fet, Brjusov, pubblicati sulla rivista romana Slavia. Tra le sue raccolte poetiche si distingue Il bene di vivere, premiato con il decagramma d’argento al Concorso Internazionale di Poesia di Siracura (2007). E’ anche autore de “Il mitra e la vanga”, romanzo sulla Resistenza nell’Ossola e in Valgrande, premiato con una targa speciale al Premio Stresa, di Narrativa (2008). Una “piccola tragedia”, Falò d’anime, scritta a vent’anni durante la rivoluzione ungherese del ’56, ha ottenuto nel 2006 l’apprezzamento dell’Ambasciata di Ungheria di Roma. Ha anche ottenuto l’elogio e i ringraziamenti della Presidenza della Repubblica Italiana per una poesia in esametri latini dedicata al Presidente Sandro Pertini (1981).   Tra i suoi libri di poesia ricordiamo Voci Strane, Eros anikate maxan, Poesie per nessuno, Lo splendore della nebbia.



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