Nuovo libro del pittore Giorgio da Valeggia che è ormai giunto alla quinta
pubblicazione, a partire da “La mia anima ed io sul cammino di Santiago”, edito a Milano dieci anni fa da ControCorrente, a cui sono seguiti “La Barca della Provvidenza” (2010), “Nulla si è compiuto” (2013), “Il lungo filo rosso” (2016). Abituato a trovare “aperture” che lo proiettino di qua e di là dal mondo visibile e “invisibile”, con inverosimili cavalcate nel tempo e nello spazio, l’autore, anche in questo romanzo, “Andromia” (Ed. Press Grafica - editing di Laura Savaglio), palesa una brillante inventiva e “prevede” ciò che potrebbe accadere fra non molto alla nostra terra, come del resto aveva già anticipato e raffigurato con la sua magica arte del pennello.
Qui di seguito la postfazione di Giuseppe Possa al libro, che non vuole essere tanto una chiave di lettura al romanzo, ma un condensato dei numerosi discorsi e dibattiti intrapresi nei decenni con l'autore del romanzo, visto qui più come amico, oltre che ovviamente come artista.
Postfazione al libro "Andromia"
Succederà prima o poi, come in parte hai raccontato tu, Giorgio, che l’uomo fuggirà dalla terra ormai sfruttata, desertificata, ridotta a una discarica di rifiuti e se ne andrà a vivere su un altro pianeta, in cui ha, nel frattempo, costruito un sistema d’esistenza simile al nostro. Di fronte a questo o a nuovi pericoli imminenti, almeno i privilegiati, i più abbienti “naturalmente” e tutti i lavoratori impegnati nel progetto potranno accedere a questa via di fuga per continuare a vivere in quel “trovato” cosmo, ecologicamente autosufficiente, capace di offrire agli esuli un rifugio sicuro. Agli altri non resterà che rimanere quaggiù, abbandonati, inconsapevoli delle minacce incombenti che, come l’inquinamento provocato dall’uomo, un’esplosione nucleare, una pioggia meteoritica o semplicemente la mancanza d’acqua, potrebbero estinguere la loro specie.
Anche se, probabilmente, la parte buona di coloro che se ne andranno - sempre secondo te - continuerà a vegliare su chi sarà costretto a rimanere… quindi, un eventuale “salvatore” che scongiuri una qualsiasi catastrofe, preservando la terra, le sue creature e la sua bellezza, di sicuro, si “rivelerà” sempre… del resto le speranze dell’uomo sono costantemente legate a un “deus ex machina”!
Ora tu Giorgio - abituato a trovare “aperture” che ti proiettino di qua e di là dal mondo
visibile e “invisibile”, con inverosimili cavalcate nel tempo e nello spazio - palesi una brillante inventiva per prevedere ciò che potrebbe accadere fra non molto, come del resto avevi già anticipato e raffigurato con la tua magica arte del pennello. “Ritrovi” così il tuo pianeta “Veseva”, su cui 40.000 anni fa - stando al romanzo - già buona parte degli ossolani, in un’epoca anteriore e più progredita di quella odierna, si era lassù rifugiata, lasciando qui gli “Hometti” (quella specie di uomini lombrico che dipingevi da giovane), martoriati e incapaci di reazione. Sono essi i nostri antenati regrediti e soltanto in questi ultimi millenni in parte ridestati. Negli anni a venire, però, dovranno essere salvati - come tu narri - da una minaccia incombente, proprio da coloro che a Veseva, frattanto, hanno raggiunto un’intelligenza superiore, con sofisticate tecnologie e conoscenze scientifiche a noi ancora ignote e forse solo “profeticamente” cosmiche.
La trama narrativa è affascinante e personalmente ho letto il tuo libro con interesse, come se si trattasse di un’avventura mozzafiato, ben conscio che, “pirandellianamente”, la fantasia vada oltre la realtà, in attesa che questa superi la prima! In fondo, fin dall’antichità, la letteratura ha sempre avuto anche la funzione di creare invenzioni e “miti” che permettano all’umanità di sognare “paradisi” impossibili, così da restare facilmente sottomessa a ogni potere dominante!
Certo, il tuo bisogno fin da bambino di viaggiare, di traslocarti su un’altra dimensione, di evadere, va forse ricercato nella tua infanzia costellata di difficoltà, un’infanzia grama, che spesso hai raccontato nei libri precedenti, dimostrando una tenacia insolita nel sopportare le avversità. Quindi, l’allegoria del viaggio è diventata per te, prima lo stimolo interiore per la ricerca del tuo percorso di individuazione; poi via via, metafora di libertà e d’avventura, per una fuga da queste tue tribolazioni giovanili, verso un nuovo pianeta su cui poter trascorrere, almeno nei sogni, un’esistenza migliore.
Chi leggerà il libro, oltre ad apprezzare le tue potenzialità narrative, non si fermerà alla sola storia in esso racchiusa, ma troverà di sicuro altri messaggi o motivi di riflessioni dalla lettura... Se poi qualcuno avrà da ridire “perché parlano gli alberi e non soltanto gli animali - come chiosava le sue favole Fedro - si ricordi che ti sei svagato con racconti immaginati, dove tutto è fantasia”. A tale proposito, come lui mise in versi senari ciò che Esopo inventò, così Laura, la tua amata compagna d’amore e di vita, lasciando intatto il contenuto del testo, devo dire che ha “pulito” in modo egregio anche questo romanzo.
L’impressione che ho avuto io, a conclusione (ma già spesso ne abbiamo parlato nei nostri interminabili colloqui, che trovano punti d’incontro solo in arte e non filosoficamente parlando e terminano ancora oggi con quello che per noi è diventato quasi un mantra amichevole per finirla lì: “bevem ancö ‘na vota/ da quel vascel ch’el gota”!), l’impressione è - dicevo - che l’uomo ci rimetta sempre contro la natura. Perfino quando gli riesce di domarla e plasmarla, creando attorno alle sue bellezze naturali quei prati, quegli orti e quei giardini che strappa agli alberi di ogni specie e a tutto il selvatico che attorno si genera, appena egli arretra, essa si riprende tutto, ingoiandolo, riportandolo all’origine, perché la natura è selvaggia: l’uomo l’ha resa utile e fruttifera per se stesso, nonché bella alla vista.
Del resto, noi piccoli esseri tra i “viventi”, cosa mai potremmo ammirare dei monti, dei laghi, delle colline, se i nostri avi (prima che s’inventassero aerei e navicelle spaziali) non avessero tagliato alberi e arbusti, costruito sentieri e strade, alzato muri e muretti, formato terrazzamenti, così da aprire meravigliosi paesaggi al nostro sguardo? Lo stiamo verificando ora: là dove la natura torna primordiale, noi diventiamo di nuovo “ciechi” a tali bellezze. Infatti, quando siamo schiacciati tra boschi, foreste o giungle, in pochi e ristretti spazi possiamo ancora “riveder le stelle”!
E tu, Giorgio, che hai una fantasia sterminata e “credenze” assai più vaste, da anni ormai
afferri pennelli, colori e sulle tele o sulle pagine dei tuoi libri “dipingi” la nostra valle ossolana, che presto diventerà terra abbandonata e incolta (sto pensando di nuovo ai tuoi “Hometti” in quelle tue desolate ambientazioni). Un uomo, tuttavia, come tu descrivi, che sa comunicare con le piante - nonostante sia risentito e mostri impulsi di ribellione, perché è stato messo a sua insaputa, in pratica telecomandato, nella condizione di rendersi utile agli altri, dai nostri padri “vesevani” - lotta fino alla fine per la salvezza ambientale del nostro territorio… convincendo le piante, che gli rimproverano i maltrattamenti e l’egoismo umano nei loro confronti, a collaborare comunque. Ogni salvezza, però, esige un “capro espiatorio" e da questo punto di vista non hai voluto risparmiare l’eroe… che, tuttavia, si perpetuerà nel figlio che la sua compagna sta aspettando.
Ho visto tanto amore per le nostre montagne in queste pagine e per i nostri bei paesaggi che sai descrivere magistralmente. Ho percepito i tuoi sentimenti ed emozioni per quanto hanno saputo costruire, con fatica e privazioni, i nostri alpigiani e per il rispetto che essi avevano verso tutti gli animali e le piante, consapevoli che fossero a loro utili, ma sfruttati solo per l’estremo vitale bisogno. Certo in molti di noi, dopo i comportamenti scellerati di qualche decennio addietro, si fa ora più strada la consapevolezza che tutto ciò che si muove sulla terra ha vita e quindi ha la possibilità di comunicare (vegetazione, animali o uomini che siano), per cui il tutto va rispettato e salvaguardato anche per chi verrà dopo di noi. Ovviamente, in questa presa di coscienza sarà sempre utile tenere a mente il buon senso dei nostri avi.
Tu Giorgio, inoltre, sostieni la presenza assai probabile di altri esseri viventi negli infiniti sistemi stellari a noi sconosciuti, ma io escludo che siamo mai stati visitati da “alieni”, sebbene supponga che ci possa essere vita nell’Universo. Se esistono ovunque, come ci informano gli scienziati, le stesse leggi fisiche, non c’è ragione per cui la vita sia sbocciata solo sulla terra, ma non sappiamo se sia uguale o diversa, intelligente o no e neppure sappiamo se qualcuno abbia mai cercato di comunicare con noi.
Anche se l’idea di essere soli nelle galassie può essere fonte di profondo sgomento, dobbiamo, tuttavia, renderci conto che luoghi come il nostro potrebbero essere rari o, perché no, improbabili. Pertanto, la nostra terra, il genere umano, animale e vegetale, hanno un ben più grande valore di quello che noi attribuiamo loro. Eppure questa prospettiva nella “intellighenzia” internazionale, non è tenuta in forte considerazione. L'eventualità che pavento io ci dovrebbe costringere a pensare ancora con più attenzione e cura al nostro posto nel cosmo oscuro e alla nostra singola civiltà (integrata con gli altri esseri viventi e con la natura, di cui siamo un inspiegabile “aborto”).
E’ poi curioso, proseguendo, leggere - come asserisci - che ci sono momenti nella storia in cui l’uomo può arrivare così in basso che soltanto una discesa dei terrestri fuggiti lassù sul pianeta Veseva, millenni prima, potrà salvarlo, constatando, nel contempo, che siamo in continua evoluzione, ma ad ogni gradino che saliamo o scendiamo, regrediamo o progrediamo, ci portiamo dietro, quegli stessi difetti e pregi incarnati dentro di noi, “ab ovo”, perché ovviamente apparteniamo allo stesso “ceppo”. Ecco, allora, il ripetersi anche delle violenze, delle guerre, delle invasioni.
A Veseva ci sono gli “uomini lupi”, scacciati in un angolo dai nuovi conquistatori terrestri (come “pellerossa” qualsiasi!), sebbene gli attigui Marziani (nativi sul loro pianeta da sempre, come paventi tu!) cerchino di fare da pacieri tra loro e i nuovi colonizzatori. Questi ultimi di buon grado accettano una comune convivenza… seppure di tanto in tanto il “lupo” Mazakar (in cui tu incarni il male) inciti i suoi a riconquistare i territori perduti, in attesa che gli umani si decidano a trasferirsi, come già in parte hanno fatto, sul pianeta “Vicino”.
Tutto questo “putiferio”, nei corsi e ricorsi della storia, si ripete in ogni epoca, in ogni
stadio delle civiltà, in ogni dove, qui o altrove, in attesa che gli esseri viventi si ricongiungano dopo tutte le reincarnazioni necessarie - sempre secondo il tuo pensiero, che la fa a pugni con il mio - a quella luce divina come pulita energia, a quell’amor “che move il sole e l’altre stelle”… anche se questa “mitica” soluzione, per me, si risolve in un semplice tornare a muoverci come “pulviscolo” tra quelle “energie” a noi ignote, che non hanno avuto inizio e non avranno fine, sia come tempo, sia come spazio.
Così almeno parrebbe. Non riesco, infatti, a immaginarmi “adorante” di un essere superiore, in una luce soprannaturale (ma ti rendi conto di cosa sia un’immortalità eterna? Un’esistenza, pur sotto qualsiasi forma, “consapevole” e “cosciente” che non abbia mai fine?)… sinceramente, non voglio entrare in una simile dimensione da favola… La vita è qualcosa di bello, racchiusa in una cornice altrettanto splendida e attendo la fine senza pormi troppe domande, oltretutto inservibili… E’ inutile e non ne vale la pena di esplorare l’aldilà, dal momento che non c’è ritorno… e proprio per questo non avremo vissuto invano!
E qui, permettimi di aprire una parentesi: il “DIO” di origini spirituali o religiose, come sempre esistito e creatore del cielo e della terra, è una “parola” per dare una soluzione dell’Universo, a cui non riusciamo e non riusciremo a dare una spiegazione… anche se un “senso” non c’è e non ci sarà mai: “In principio era il verbo” (ma quale “principio” - dico io - se poi si afferma che non c’è principio né fine) “e il verbo (logos) era Dio”. Quindi, una “parola” per esprimere quell’energia (puramente scientifica) che c’è nel cosmo, che nella sua perenne evoluzione e trasformazione è giunta a quell’uomo primitivo che per primo nominò la parola “dio” e da lì nacquero mitologie e religioni, a partire dalle antiche vicende delle “divinità”, dei “semidei” e dei “giganti”. Quest’elaborazione non fu di un singolo, né il portato di una “rivelazione”, bensì una creazione collettiva che si dispiega nel tempo. Un patrimonio “aperto”, mobile e modificabile (come dimostra la conoscenza della Storia e di tutte le religioni, dal paganesimo ad oggi) alla cui costruzione e riformulazione hanno concorso in molti, di millennio in millennio, e al quale chiunque può attingere e modificare, in una stratificata congerie di racconti in ogni latitudine. Credenze basate e accettate su un semplice “atto di fede” (“mistero della fede”), create in tempi e spazi distanti, con significati e strumenti diversi, per interessi differenziati, ma con un unico fine: dominio materiale del “potere costituito”, formato da uomini che sfruttano altri uomini.
Poi, caro Giorgio, indipendentemente da come la crediamo, volenti o nolenti, non avremo altra sorte: vagheremo “inconsapevoli” come “pulviscolo dell’universo”, simili alle tue navicelle spaziali, nell’inarrestabile divenire, tra buchi neri, espansioni, campi gravitazionali, esplosioni ed evoluzioni. E l’anima? Dirai tu. E dove vuoi mai che finisca, l’anima: là dove si dissolve il nostro pensiero o dove si disperde il suono delle nostre parole e del nostro canto; là dove esala il nostro ultimo respiro o dove svanisce il “profumo” del nostro fiore reciso. Là, dove assordante vibra il perenne scorrere dell’infinito!
Giuseppe Possa
![1239408_10201454101066033_2115104636_]()
(Laura Savaglio, Giorgio da Valeggia, Giuseppe Possa)