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A Domodossola: “La trasfigurazione poetica” di Théodore Strawinsky (1907-1989)

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0af23e966a906fab1cbde41601e184acProsegue fino al 27 ottobre 2018, alla Casa Rodis (Associazione Culturale Alessandro Poscio) di Piazza Mercato a Domodossola, la mostra del figlio del grande compositore e direttore d’orchestra Igor. La rassegna, inaugurata il 26 maggio da Paola e Stella Poscio, è stata curata da Carole Haensler Huguet, direttrice del Museo Civico Villa dei Cedri di Bellinzona, in collaborazione con Sylvie Visinand, conservatrice della Fondazione Théodore Strawinsky di Ginevra. Catalogo a cura della “Collezione Poscio” (con l’intervento critico di Philippe Lüscher).


Dopo 40 anni, grazie alla mostra di Domodossola, si ripresenta un’occasione unica per scoprire e approfondire la “poetica” del pittore Théodore Strawinnsky, attraverso un percorso antologico davvero significativo, che permetterà al pubblico di conoscere parte della sua produzione artistica. Le suggestive opere proposte dall’Associazione Alessandro Poscio alla Casa Rodis di Domodossola sono suddivise in quattro sezioni: paesaggi, nature morte, ritratti e nudi.  Si possono ammirare anche alcuni studi preparatori e una serie di fotografie che Theodore_Strawinsky__La_routedocumentano le varie fasi di lavorazione della parete esterna del Santuario di Getsemani di Casale Corte Cerro, nel Cusio, che egli affrescò negli anni Cinquanta.  Racconta Stella Poscio che fu Luigi Alberti di Verbania, amico di Théodore, a invitarlo per eseguire questo lavoro nel Vco: <<Lui vent’anni fa, inoltre, fece scoprire il pittore alla mia famiglia, rimase sempre in ottimi rapporti anche con la moglie Denise, che ha realizzato a Ginevra la Fondazione Strawinsky, da cui provengono quasi tutte le opere qui esposte, tranne alcuni acquerelli di nostra proprietà e altri appartenenti a privati>>.  

9788863735604_0_0_300_75Il figlio maggiore del grande compositore e direttore d’orchestra Igor, era nato in Russia nel 1907, ma ben presto i suoi genitori si trasferirono in Svizzera e successivamente in Francia, dove visse le trasformazioni del primo e del secondo dopo guerra, venendo a contatto con Picasso, Braque e altri grandi artisti che, in un certo senso, ne influenzarono la carriera giovanile, ma in seguito si distinse da essi per poetica originale e ricerca solitaria. Esperienze queste - seppure la sua fosse una formazione da autodidatta - che gli permisero di formare uno stile personale, senza cadere nelle allusioni letterarie, nei formalismi cerebro-astratti o nei riferimenti a iconografie arcaico-primitive dei numerosi epigoni dei suoi maestri. Egli fu autore di opere interessanti, tuttavia è oggi poco conosciuto anche da noi, sebbene l'Italia sia stata per lui “un luogo del cuore”.

Strawinsky (morto a Ginevra nel 1989) fu, a mio parere, un pittore figlio del suo tempo, che dopo aver assorbito alcune suggestioni neo-cubiste, nelle composizioni e nelle tassellature delle cromie (in particolare, nei paesaggi e in alcune nature morte), siTheodore_Strawinsky__Les_lavandieres cimentò con il tonalismo classico e la naturalezza figurativa, da cui scaturirono visioni e intuizioni che ogni visitatore potrà, in questa mostra, cogliere con i propri occhi. La sua originalità è orientata verso un realismo del quotidiano, un realismo lirico-magico, che si manifesta con aspetti di sapore tradizionale e metafisico. Le opere di Théodore Strawinsky diventano pregevole testimonianza di un artista che ha interpretato in pittura lo spirito del suo aver osservato le avanguardie novecentesche, assoggettandosi, però, al suo amore per un “ritorno all’ordine”. Se c’è un’anima nei volti degli esseri umani o nelle forme degli oggetti e delle cose, è a queste che l’artista ha guardato e, anche per questo, ha saputo dipingere con i colori della poesia.

Giuseppe Possa

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Salvo Iacopino: “Frastorni” (Pegasus Edition)

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La raccolta di 38 poesie è suddivisa in più sezioni. Il tono delle liriche, d’estremoCopertina FRASTORNI - Salvo Iacopino rigore stilistico, che a tratti potrebbe apparire rassegnatamente pessimistico, vuole essere di semplice e consapevole realismo. L’autore, nato a Palizzi (RC) nel 1965, si è laureato all’Università Statale di Milano (110 e lode), discutendo la tesi di tanatologia “La morte e il morire nella civiltà tecnologica”, cui ha fatto seguito il conseguimento del Master in Comunicazione e Giornalismo multimediale. Da sempre attivo nel mondo delle Associazioni di volontariato, attualmente opera e vive, con la moglie e la giovane figlia, a Domodossola (VB), dove è impegnato anche nell’attività politico-amministrativa.

Leopardi in visita all’officina delle Muse notò stupito che tra gli strumenti del mestiere non ci fosse più la “lima”, che riteneva importante per il miglioramento di ogni opera letteraria, la cui stesura deve essere “lavorata” e riletta più volte prima della pubblicazione. Limare, soprattutto in poesia, non significa perfezionismo maniacale, ma ricercare una semplicità che generi esiti di notevole efficacia, così da esprimere al meglio, nella forma e nel ritmo, tutto ciò che si vuole comunicare, creando quelle sfumature musicali e di pensiero che sappiano emozionare orecchie e menti raffinate.

In un periodo come l’attuale, in cui i testi dati alle stampe, di ogni singolo autore, si susseguono con un ritmo frenetico, perché i tempi per disporli, comporli e scriverli sono stretti, Salvo Iacopino, al contrario, ha trattenuto nei cassetti fino ad oggi le sue liriche, affinandole e “limandole”, appunto. Ora (l’occasione gli è stata offerta dalla "Pegasus Edition" di Cattolica, quale vincitore del premio letterarario internazionale "Golden Selection 2018) le pubblica, perché ha ritenuto che ogni parola è stata piegata e modellata secondo un suo personale canone di efficacia, di sonorità e bellezza: <<parole a volte aguzze come lame>>. Intimamente legato alla tradizione, per lui non conta solo scrivere sotto ispirazione, ma anche operare con sforzo ostinato per scostare il superfluo e far apparire la poesia nella sua lucentezza.

I versi di Iacopino, in un andamento pacato, sono stati resi con una forma classica sciolta, con strofe cadenzate, ora in endecasillabi ora in settenari o quinari, ma anche con altri ritmi, con accenti nella giusta metrica, alternando rime, assonanze e rime interne, con echi o sinuose partiture musicali, lessicali, concettuali: <<Non cerco plausi o fiori pei miei versi,/ ma se ne vuoi godere,/ disponiti con calma e attenzione!>> e subito dopo: <<…Accorda la tua lira alle parole/ e ascoltale danzare>>, per concludere: <<Codesto solo mi lusingherà:/ saperti per un lampo prigioniero>>. Così catturato da questo scorrevole “incipit”, ho iniziato la lettura, scoprendo quasi subito che l’ansia di comunicare dell’autore fa corpo con quella cocente per il destino dell’uomo e raggiunge il culmine del suo canto in riflessioni di natura filosofico-esistenziale.

Il suo vissuto interiore, colmo di phatos, è da lui manifestato con espressioni semantiche e linguistiche appropriate ai contenuti che descrivono o a cui si riferiscono. Iacopino, però, non scrive in modo ermetico, anche se un certo mistero (come aiacopnnota: <<mistero che m’avvolge e m’appartiene>>) lo conserva. Tuttavia, il suo pensiero si fa apprezzare da tutti per la chiarezza riflessiva e per la genuinità del discorso in una raggiunta e piena maturità stilistica. Ne sortiscono immagini immerse nello spirito e nel cuore del poeta, le quali, simili a <<la foglia frantumata e inaridita>> che <<dà linfa e nutrimento a nuova vita>>, rievocano ricordi, “sbiadite impronte”, desideri e sogni, alimentati dalla propria coscienza riflessa nel fondale magico della sua poesia intimista (si legga a proposito la stupenda composizione - anche come predisposizione grafica - “I ricordi”).

In Salvo Iacopino c’è pure forte il richiamo della natura, dell’ambiente, visti in tono distaccato, un poco malinconico: <<Se chiudo gli occhi…/ in mezzo all’erta vigna mi ritrovo:/ arde l’aria, vacilla quel vapore…>>. Qui, il tempo si annulla in un mondo di silenzio, nell’atmosfera dei suoi pensieri giovanili (<<al tempo che lo sguardo era incorrotto>>) e dei “desideri inquieti” custoditi nella memoria (<<Ridatemi quel primo mio stupore>>). Ora che è lontano da quei cieli, colori, fiori, uccelli <<ripiega, muto l’albero agitato/ dal rapido sferzare di tempesta,/ risuonano avvizzite sul selciato,/ le foglie secche ch’ogni piè calpesta>>. E i versi si fanno azione all’interno del tempo “in catene” o che fugge nel susseguirsi di sensazioni ed eventi passati. Il poeta, quindi, vorrebbe prendere la “quota”, alla ricerca di una traccia, una linea che riporti a galla il proprio cuore, il proprio spirito, tra emozioni e sentimenti: sono essi ad accendere l’aspirazione per un futuro migliore.

Non meraviglia che le sue liriche, in una civiltà che polverizza gli esseri umani con la potenza tecnologica, parlino di inquietudini e ricordi annidati nella memoria, nelle tradizioni (<<Ma un dì che della vita il fuoco ardente/ si spegnerà pian piano dentro al petto/ lo spirito del corpo mio morente/ rincaserà a quel tempo con diletto>>). Si tratta, però, di un cantare il passato per meglio isolare l’ideologia del presente, senza retorica o romanticismi, ma con una piccola forza cosciente, non disposta a transigere, né ad adattarsi alla fatica del vivere moderno: <<Mi par così di Tantalo il supplizio/ lo stento d’ogni uomo a farsi sazio>>.

Nel prosieguo della lettura, ci sono anche le preoccupanti paure che oggi colpiscono tutti, la solitudine, il raffinato vagheggiamento dell’amore (<<Come vorrei bagnarmi in questo mare!>>) che lui non coglie con uno sguardo di sentimentalismo romantico, ma nella sua forza prorompente (<<che insieme ci allontana e ci trattiene>>), con la luna a vegliare sui mutevoli sentimenti degli innamorati: <<di qua felicità, di là tormento>>. Poi c’è la vita con la sua caducità (<<come un soffio di frescura che non dura>>), la morte (di fronte ad essa come ci appare l’esistenza?), il destino ineluttabile: <<eppure io conosco di Eraclito la legge,/ l’eterno divenire che tutto sforma e strugge;/ di certo io so bene che il tempo corre, fugge:/ candela che consuma nel battere di un’ala!>>. E ancora, Il dolore (<<il circolare moto del dolore>>), il silenzio, il pessimismo che finisce per trasformarsi in un semplice e consapevole realismo, la speranza di una vita spensierata: <<E quando arrivi su agli eterni ghiacci,/ lega il tuo dolore con dei lacci,/ nel rivo che discende,/ dissotterra i tuoi tesori, e quindi…/ vivi, gioisci e ridi>>.

Dall’angoscia e dallo smarrimento, il poeta trova, infine, <<la felicità che viene/ nascendo con il sole>> ed è allietato dalla freschezza di una figlia arrivata come un raggio di luce dal lontano oriente. Una lirica inserita in un alone familiare, che si rivela come presenza universale, sebbene con caratteristiche, per movenze e toni, tipiche di un lirismo intimistico.

A questi spunti, altri ne troveranno i lettori, poiché ogni lettura è una delle tante possibili vite di un libro… così la mia, la quale vuole essere soprattutto uno stimolo e un invito ad assaporare in profondità le liriche di Salvo Iacopino.

Giuseppe Possa

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G. Possa e S. Iacopino

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PREMIAZIONE CONCORSO BOGNANCO TERME 2018

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Domenica  22 luglio 2018 a partire dalle ore 15.30, al Padiglione Rubino di Bognanco Terme (ingresso gratuito), si svolgerà la cerimonia di premiazione dei vincitori del Concorso Bognanco 2018, a cui seguirà l’inaugurazione della mostra del pittore Ugo Pavesi al Centro Polifunzionale (sul piazzale antistante alle Terme). Le poesie e i racconti dei vincitori saranno letti da Laura Savaglio.



La giuria, composta da Elisa Contardi (Presidente), Monica Mancini (Segretaria), Giuseppe Possa (Critico d’arte), Velia Arnieri (Presidente Pro Loco) e Ada Biancossi, ha assegnato i seguenti premi:

Poesia

1° premio a Maria Vittoria Spinoso di Palermo con la lirica “Pensiero”

<<Con un ritmo lirico sciolto, dalla melodia classicheggiante, Maria Vittoria Spinoso guarda con nostalgia al passato e vede il tempo scorrere veloce. Quando si è giovani si pensa che la vita possa continuare così per sempre; infatti, c’è chi s’impegna per noi, togliendoci ogni preoccupazione quotidiana, ma la realtà della vita può improvvisamente trasformarsi in una tempesta che scardina tutti i nostri valori e subito dopo renderci conto che “il tempo è oramai del silenzio”. Nell’estremo rigore stilistico, la poesia “Pensiero” non appare rassegnatamente pessimistica, ma risulta di consapevole realismo e sebbene sia costruita con un lirismo intimistico, ha movenze e toni dalle caratteristiche universali>>.

2° premio a Maria Francesca Giovelli di Caorso (PC) per la poesia “Il peso della mano”

<<Con versi pacati e strofe cadenzate, con rime baciate e con echi musicali, la poesia di Maria Francesca Giovelli è dedicata a tutte le vittime di “femminicidio”. La mano che accarezza, che protegge, che costruisce sogni d’amore e li realizza magari in una vita apparentemente serena, a volte può essere la stessa mano che stronca il cuore e spegne nel sangue tutte le stelle. “Il peso della mano” è un’emozionante poesia da cui  sortiscono immagini cariche di pathos e di dramma>>. 

3° premio a Giuseppe Galletti di Domodossola (VB) per la lirica “Radici”

<<Ritornare dalla città alle proprie “radici” montane, tra nostalgia e ricordi, è ciò che canta Giuseppe Galletti in questa lirica, con perfetta padronanza del ritmo e del linguaggio. Versi brevi ma incisivi per rievocare affetti familiari mai dimenticati, pensieri e momenti umani meritevoli di essere meditati: le tante fatiche, le primizie raccolte nell’orto, gli animali nella loro utilità di sopravvivenza, la guerra ormai da anni lasciata alle spalle e il poeta che correva senza pensieri sui campi bianchi di neve>>.

Premio speciale della Giuria a Elisa Longoni di Gravellona Toce (VB) per la poesia “Il limone”

<<Simpatica lirica che in modo ironico canta la fine delle cose e per allegoria quella dell’uomo. “Il limone” di Elisa Longoni, un limone ormai rinsecchito, scorre, tra ritmi sciolti e scorrevoli, su versi armonici, aspetti ludici, immagini briose, fino a ridursi a quel “secco secco”, come si auspica anche la poetessa di diventare, senza passare attraverso altre decomposizioni, “all’arrivo del confine destinato” >>.

 Narrativa

1° premio  a Tiziano Leonardi di Montecrestese (VB) per il racconto “breve estratto da Intelligenza e sacrificio”

<<Il breve estratto da “intelligenza e sacrificio” è, tuttavia, un lungo racconto di Tiziano Leonardi sulla compulsione da lettura di 2 fratelli (impulso irresistibile che già vibrava nel sangue dei genitori), la quale, in un certo senso, li porta a una depressione agitata che li inasprisce. L’autore narra qui una storia nella storia d’intricato intreccio, con spunti tra il fantastico e l’ironico, ma ben scandito in periodi che presentano momenti di riflessione anche sulla letteratura e sul piacere tormentato della scrittura. La forma scorrevole e incalzante rende queste pagine, particolarmente avvincenti>>.

2° premio a Rosy Gallace di Rescaldina (MI) per il racconto “Ogni cosa ha un senso”

<<A volte un incidente imprevisto, come una grave distorsione alla caviglia, può farci rappacificare con un familiare, ma anche scoprire l’insensibilità di persone che sono sempre state da noi beneficiate. E’ quello che sembra dimostrare “Ogni cosa ha un senso”, un racconto di Rosy Gallace. La scrittrice descrive, con prosa lineare ma coinvolgente, le situazioni emotive in cui viene a trovarsi Bruna, la protagonista e, nel contempo, ne mette in risalto l’animo sensibile e profondo>>.

3° premio a Giacomo (Gim) Bonzani di Villette (VB) per il racconto “Il pittore e l’architetto”

<<Con stile narrativo piacevole e di scorrevole scrittura, Giacomo Bonzani propone un racconto descrittivo nei particolari e intrigante nel finale. L’autore, nel suo peregrinare alla ricerca delle opere da fotografare di un noto pittore vigezzino del passato, sa proporci una narrazione al limite dell’onirico, proprio per il fugace incontro di un personaggio misterioso>>.

Narrativa e poesia giovani autori

a Greta Borgnis di Toceno (VB) - 1° premio narrativa giovani  con il racconto “Passeggiando sotto la pioggia”

<<Sorpresa dalla pioggia durante la passeggiata in un bosco, la giovanissima scrittrice Greta Borgnis racconta le emozioni che ha provato, nel constatare i cambiamenti d’aspetto e di rumori dell’ambiente o di certi animali che si sono rintanati e di altri che, invece, sono usciti allo scoperto. Poi, finito il breve temporale estivo, tutto torna come prima e lei vorrebbe condividere quel momento magico con gli amici. Ma, poiché oggi le condivisioni sono solo virtuali, si chiede: Come faccio io, attraverso uno schermo piatto, a far capire le emozioni che provo?>>.

ad Alberto Valentini di Bognanco (VB)  -  1° premio poesia giovani con la lirica “Tutto può accadere”

<<"Tutto può accadere” di Alberto Valentini è una poesia serena e pacata che, però, si pone domande importanti sulla vita e sul suo inesorabile scorrere, che potrebbe interrompersi in qualsiasi momento, anche quando sogni e desideri sono ancora al loro albore.  La tensione emotiva di questa lirica e i sentimenti che la pervadono trovano il loro culmine in quel finale apprensivo: “chissà… tutto può accadere”>>.

Premio Bognanco alla Carriera 2018 a UGO PAVESI

<<Il premio Bognanco Terme alla carriera quest’anno è assegnato a Ugo Pavesi, pittore che ha dipinto le bellezze delle nostre montagne, trasfigurate nei suoi colori e paragonabili a versi poetici. Egli è un paesaggista a colloquio con la natura, ritratta con meticolosità e diligenza “en plein air”. Chi conosce le nostre zone alpine non ha difficoltà a entrare in contatto con il suo mondo lirico. Oltre i grandi soggetti, Il Monte Rosa in primis, Pavesi ha dato risalto anche agli alpeggi e ai piccoli angoli di ogni paese ossolano. Nelle sue mostre, pure nell’ultima importante antologica di Stresa composta da tele di ampio formato, ha sempre esposto qualche importante quadro dipinto in Valle Bognanco, da Vercencio al Fornalino, da S. Bernardo a Graniga, passando per altre frazioni e scorci particolari di boschi, ruscelli o sentieri. Ugo Pavesi, si può ben dire assegnandogli questo riconoscimento, ha tenuto spesso nelle sue opere una finestra aperta sulla Valle Bognanco>>.

Ugo Pavesi è nato a Villadossola (VB) nel 1941, dove vive e opera. Ha esposto in varie località in Italia e all’estero in collettive, mostre a invito, e con numerose personali. Senatore dell’Accademia Macchiavelli di Firenze. Premiato in vari concorsi nazionali e internazionali, sue opere si trovano in Italia e in paesi stranieri: Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Sud Corea, Canada, Stato del Vaticano ecc. E’ apparso su giornali e riviste. Nel 2007 ha dato alle stampe una corposa antologia, curata dal figlio Gianluca, con oltre 130 riproduzioni e gli scritti di noti critici e giornalisti.

(a cura di Giuseppe Possa)



Ricordo di IVAN SGRENA, pittore

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RETROSPETTIVA ALL’ACLI DI VILLADOSSOLA

423796_4652101299365_1411309615_nIn concomitanza con la festa di S. Bartolomeo, al Circolo Acli di via Marconi 1 a Villadossola, sarà inaugurata, giovedì 23 agosto alle 17.30, una retrospettiva in ricordo di Ivan Sgrena. Del pittore di Masera - morto nel 2012 a 59 anni all’Alpe Devero, cadendo dalla roccia mentre si arrampicava sulla Punta della Rossa - saranno esposti una decina di quadri raffiguranti quelle montagne che aveva tanto amato, lui appassionato scalatore oltre i quattromila, ma che gli sono state fatali. Non mancheranno alcune tele di partecipata suggestione lirica, dipinte in un periodo felice della sua arte, quando trovò spunti per andare oltre l’impressionismo, aderendo a un realismo sociale crudo, legato ai problemi più assillanti del nostro tormentato periodo storico.

Quelle montagne che aveva tanto amato e dipinto gli sono state fatali.

IMG_E6935[1]Il pittore Ivan Sgrena è morto il 28 agosto 2012, perdendo l'equilibrio e cadendo per una quindicina di metri, mentre stava preparandosi a scalare con alcuni amici lo spigolo della Rossa, a circa 2000 metri di quota all’Alpe Devero di Baceno, in Val d’Ossola. Aveva 59 anni. Nato a Domodossola nel 1953, ha iniziato a dipingere dopo aver frequentato con profitto i maestri Giovanni Bossone e Rino Stringara, nel filone figurativo-paesaggista; nel solco di quella tradizione, insomma, che trae ispirazione dal vedutismo, da scorci di baite, da montagne e da scene di vita alpina. Appassionato scalatore di montagne oltre i quattromila, Ivan aveva tante volte raffigurato le più belle vedute della Val d’Ossola e col suo sensibile animo d’artista le ricreava, trasfigurandole, con sentimento e intuizione.

Dopo alcune collettive, allestì la sua prima personale nel 1986 alla Galleria Cavo di sgrena 2Domodossola. Scrivevo, tra l’altro, in quell’occasione sul depliant di presentazione della mostra: <<Di fronte ai quadri di Sgrena ci si trova a percorrere le nostre strade, i nostri sentieri, a riscoprire paesaggi e scorci che la città ci ha fatto dimenticare, a vivere in un mondo prodigo di cose semplici e pulite. Il paesaggio assume, quindi, connotazioni realistiche e impressionistiche nel contempo, ma diventa anche momento di riflessione, d’ammirazione, di contemplazione. Recarsi in questi luoghi per poi raffigurarli, non significa necessariamente evadere da ogni cruccio e da ogni sofferenza della frenetica vita quotidiana, ma un voler semplicemente prender contatto con la natura, per “copiare” dal vivo; per scoprire ciò che realmente si vede: per schiarire la propria tavolozza; per trovare i colori sempre più puri e brillanti; per studiare la straordinaria azione che la luce compie su ciò che colpisce; per iniziare, infine, quel primo passo Catturanecessario per passare, successivamente, a contenuti più impegnati. Sgrena è un pittore che cura con diligenza le sue tele; attento nel disegno e negli effetti prospettici, cerca di appoggiare i colori con la giusta scelta di accostamenti e porta avanti il quadro con mano abile e sicura nei tratteggi e nelle pennellate. Di fronte alle sue opere, lo spettatore ritrova la testimonianza della propria partecipazione emozionale alla vita della natura. Un esordio, a mio avviso, sicuramente positivo; e se Sgrena saprà rinnovarsi, scoprire fuori e dentro di sé nuove idee, spunti coi quali sconfinare dagli usuali orizzonti nostrani, potrà conseguire quel meritato successo a cui aspira>>.

In effetti, partecipando a una collettiva organizzata da Paolo Poli a Torino, Ivan trova gli spunti per andare oltre l’impressionismo, aderendo a un realismo sociale, legato ai problemi più assillanti del nostro tormentato periodo storico. Quelle opere furono poi esposte nel 1995 al “Centro d’Arte Arcobaleno” di Adrina Monis a Domodossola.

Recensendo la mostra sul settimanale “Eco-Risveglio Ossolano”, scrivevo tra l’altro:QILFE6826 <<La pittura di Ivan Sgrena – sensibile ed appassionata – poggia su una straordinaria ricchezza figurativa, su personali soluzioni di forma e su rapporti cromatici ben delineati e armonici. La sua mano obbedisce al fluire delle emozioni e allo sprigionarsi improvviso delle immagini che gli giacciono nella coscienza come risorsa esistenziale dell’essere. Questo è il segreto della sorpresa che ogni quadro di Sgrena ci riserva, aprendo davanti ai nostri occhi il labirinto della miseria, dell’abiezione, delle sconfitte umane. Le sue opere – di un realismo sociale crudo, però, non carico di rabbiosa denuncia, bensì di una partecipata suggestione lirica, quasi malinconica – affrontano tematiche di grande attualità: come la tragedia delle guerre e della fame nel mondo, la droga, la disoccupazione, la solitudine, l’emarginazione, la disperazione, il bombardamento pubblicitario della nostra civiltà consumistica. A tale proposito, l’artista ci presenta tutta una serie di personaggi, dai cui sguardi si percepisce la JLRYE3179rassegnazione dei “condannati” a vivere: essi, inoltre, vengono rappresentati con una costante somatica dei volti che ce li rende anonimi, indefinibili, simboli universali di questo paludoso momento storico. La maggior parte dei suoi protagonisti – riprodotti con ieratica e nel contempo incantata espressività – appartengono, dunque, ai deboli, ai disadattati, agli emarginati, che ognuno di noi può scorgere, soprattutto nelle grandi metropoli, e che spesso fingiamo di non vedere: esseri basiti, appartenenti alla storia delle vittime, che vengono immessi da Sgrena sulle tele con un afflato dolcissimo, tenero e fabulatorio>>.

Dopo quella mostra, che fu una sua poetica presa di coscienza e di posizione, nei confronti delle contraddizioni e delle problematiche sociali contemporanee, Ivan Sgrena tornò alla prediletta pittura impressionista, con i paesaggi delle sue montagne ossolane, opere che furono poi esposte nel 1999 a Varzo (VB). In seguito, la passione di scalatore prese il sopravvento e dipinse con meno frequenza, esponendo solo in collettive (interessante quella del 2005: “Farsi Spazio” di Torino).

Giuseppe Possa

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La retrospettiva è allestita dal Consiglio del Circolo Acli di Villadossola (saluto inizialeacli della presidente Katia Viroletti e intervento del Presidente Provinciale Carlo Poli),  con la collaborazione dell’Associazione Giovan Pietro Vanni (intervento del presidente Franco Midali), del blog PQlaScintilla (presente il direttore Giorgio Quaglia, intervento di Giuseppe Possa) e con la partecipazione della moglie Claudia e della figlia Sofia che hanno messo a disposizione le opere. La mostra resterà aperta fino a metà settembre negli orari del circolo.


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“Nostalghia”: mostra di Gianluca Ripepi ad Arola (VB)

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AROLA - La mostra “Nostalghia” di Gianluca Ripepi - con 12 opere di medio formato,foto ripepi realizzate dallo scorso anno – è stata inaugurata domenica 5 agosto, alle ore 17.30, nella Sala Comunale del Vecchio Torchio di Arola. L’ha presentata il prof. Gino Carissimi che così ha spiegato, tra l’altro, l’emblematico titolo: <<La Nostalghia si è concretata nell’heideggeriano prendersi cura dell’oggetto, visto con la sensibilità artistica che ha fatto dire a Gianluca: non possono giacere così, dimenticate! E allora all’opera, con risultati voluti o inattesi, come quando si torna su un “luogo” caro che non sempre è come prima>>. Si tratta di tavole iniziate e abbandonate negli anni che l’artista ha ripreso e messo a nuovo con la tecnica del “catrame irrigato” e vaporizzato che finisce per creare una trama uniforme e materica. Siamo di fronte a una ricerca lirica, con un fitto armonico incrociarsi di segni gestuali in un’azione astratto-informale. Una pittura, questa di Ripepi, costruita su matrici d’innumerevoli segni, puntini o linee a comporre Opera Ripepimisteriose forme, ombre, quasi gocciolanti visioni da spazi cosmici. Appare, insomma, come una stesura visiva in una scala cromatica ristretta, che va dal bianco dello sfondo al nero del catrame, con rare aggiunte di strisce e pulviscoli prevalentemente di color fucsia. Sulle tavole si dispiega il flusso continuo, ripetuto e insistente di un grafismo surreale, in una libertà espressiva che valorizza ora il gesto, ora la materia, ora il significato stesso del segno che non è più piegato alle esigenze di una forma comunicante, ma che diventa espressione di un urgente impulso interiore.

La mostra di Gianluca Ripepi (è nato a Domodossola nel 1977 e risiede a Casale Corte Cerro; ha frequentato l’Accademia di Belle Arti Aldo Galli di Como, sotto la guida di Pierantonio Verga; ha esposto a Domodossola, Novara, Milano e in altre importanti città) si protrarrà per tutto il mese di agosto e sarà visitabile nei seguenti orari: sabato e domenica 10,30-12 e 17-19.

Giuseppe Possa

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(articolo apparso anche su Eco Risveglio VCO)

Filippo Crea (1951-2015) e le sue “POESIE”

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Ho ritrovato tra le mie carte una recensione-intervista (già pubblicata sulla rivista “Nuove Prospettivcrea file” del 1982 e che qui ripropongo nel terzo anniversario della scomparsa) che avevo scritto sull’amico, poeta e giornalista di Villadossola, morto l’11 agosto 2015.  Era nato nel 1951 in provincia di Reggio Calabria a Bagaladi. Autore di due raccolte di liriche. Collaborò al settimanale Eco Risveglio di Domodossola. Nel Verbano Cusio Ossola, fu il primo ad aprire un sito di notizie molto seguito: “QuiVilladossola”, poi divenuto “QuiOssola”. Con Antonio Ciurleo, fu ideatore e cofondatore dell’Incontro di Poesia Walter Alberisio.

<< Dopo la silloge “Cerchi sull’acqua”, con versi che puntavano direttamente su un discorso che racchiude delusioni, speranze, sensazioni e memorie di una vita che corre verso “una voragine tetra”, la vicenda esistenziale e la poetica di Filippo Crea sono verificabili anche in questa sua seconda opera, “Poesie”, edita da Gabrieli di Roma. Ne scaturisce un personaggio vitale, complesso, ma unitario nella continua tensione di conoscersi e di condividere il destino degli sconfitti e dei diseredati, per dare al mondo poesia. Crea si immedesima in uno dei tanti vinti, il carcerato: ne descrive la disperazione e l’impossibilità a comunicare, che derivano dall’insufficienza a esprimere la dimensione magica e sovrannaturale della natura, cui fa da commento e da accompagnamento la solitudine e la “fatica di vivere”. Anche nel progressivo prendere coscienza del proprio impegno civile, la poesia di Crea resta profondamente legata a questi motivi conduttori, che addirittura si potrebbero definire, crepuscolari, sebbene in senso molto lato.

Lo abbiamo incontrato recentemente e ne abbiamo approfittato per proporgli alcune domande:

Filippo, innanzitutto, come riesci a conciliare la tua professione di chimico  alla Montedison con la poesia?

  • Come tutti coloro che conciliano il lavoro con la pesca, le bocce, la politica o altro. E’ la mia passione, quasi un passatempo per ora, scrivere nel tempo libero e partecipare ai premi letterari.

Questa tua seconda raccolta avresti potuto intitolarla “Poesia dal carcere”; ma tu in carcere non ci sei mai stato e neppure ci lavori: qual è stato, dunque, il movente che ti ha stimolato a trattare questo argomento come se a scrivere da una prigione fossi tu stesso?

  • Con questo libro ho voluto esporre il dramma dell’oppressione, della solitudine, filippo crea22dell’emarginazione. Cercavo un punto di riferimento e ho ritenuto che il carcerato fosse la figura ideale a cui potessi ispirarmi, per esprimere nel modo più chiaro e completo i temi che ti ho esposto. Non è stato facile – la poesia, tu sai, è ricerca e meditazione -; ho “penato” cinque anni per questa raccolta che di proposito ho voluto scrivere in prima persona per farla apparire più reale.

Cosa pensi della condizione dei detenuti? Ritieni giuste le loro richieste di migliori condizioni di vita?

  • Il carcere dovrebbe avere la funzione di rieducare. Cosa invece accada all’interno di questi “alveari” lo sappiamo dai giornali. A volte ritengo fondate le loro rivendicazioni; non saprei dirti, però, fino a che punto esse siano legittime.

La lettura delle poesie di Filippo Crea richiede tempo; occorre far attenzione alle vibrazioni che irradiano dalle parole, dai simboli, dalle metafore: siamo di fronte a liriche che vanno percepite dall’interno, seguite e godute nel suo svolgimento, nella sua durata. Improntate da una logorante tensione emotiva – dove il “privato” assume valore di avvenimenti più ampi – affondano le proprie radici in una cultura dentro cui convivono gli eventi della storia e quelli della vicenda singola, giungendo fino a forme di autentica inquietudine.

Dalla lettura del tuo libro trapela un tenue pessimismo; perfino le poesie d’amore, in esso contenute, rafforzano questa impressione.

  • Credo che l’amore con un po’ di pepe sia dolce. Devo ammettere che le mie poesie rivelano eccessivo pessimismo, ma quando scrivo penso solamente a quello che sento; non mi interessa, in quel momento, che cosa dirà il critico o il lettore.

Non ti capita in seguito di modificare la forma o il contenuto di alcuni versi?

  • Succede sempre di limare parecchi versi – cosa a cui ricorrono più o meno tutti – ma per me è solo ricerca del bello, del meglio, che a volte non mi riesce pienamente di descrivere in una prima stesura.

Da quando hai cominciato a “vivere” intensamente la poesia?

  • Dopo aver vinto nel 1974 il premio CE.SI. di Palermo, riservato ai giovani. Ti dico i nomi di alcuni critici che componevano la giuria: Bompiani, Luzi, Orilia. In quel momento ho capito che la poesia ce l’avevo nel sangue e che dovevo continuare a percorrere l’ardua e faticosa strada.

Ambisci al successo? Pensi di vincere qualche premio letterario con questo libro?

  • Chi scrive aspira anche al successo e con questa raccolta – non ti nascondo le mie ambizioni – spero di ben figurare in qualche premio letterario serio.

Non ci sono dubbi, Filippo Crea, oltre ad aver confermato la validità della sua poesia, ha qui raggiunto una giusta fusione stilistica e di contenuto che non mancherà di attirare l’attenzione dei critici.

In questo volume è contenuta una produzione sobria e compatta, ma aperta a una cristallina chiarezza rappresentativa; anche perché l’autore ha saputo frapporre, fra le sue sensibili reazioni emotive e il fluire degli eventi, il filtro di una meditazione profonda. Ne esce un mondo ordinato e, se si vuole, ristretto, dove però, a mediare tra l’io e il reale, c’è una partecipazione autentica al dolore, che comunque non scade mai in un’accusa gridata, ma piuttosto in composta denuncia. 

Giuseppe Possa

pgfcdomo







(G.Possa e F. Crea)



Pubblichiamo qui di seguito una delle 30 poesie del libro:

(“Lettera al padre”)

“Mi alzo alle sei,

la sola fatica qui dentro,

l’altro qui a fianco

non chiude occhio

(ancora due mesi per lui)

parla da solo alle macchie sui muri

impreca alzando la voce

e forse ha ragione.

È il solo

che mi chiama per nome,

tocca con le mani due foto sgualcite

che hanno di grigio

più del colore,

mi parla del figlio

della donna che non vede da Natale

e la cerca

come io vado cercando la mia.

Ancora non parlo da solo

a ombre fantasmi,

almeno per ora,

non grido a quel Dio

che non sente neppure se fiato.

Ma non c’è più sangue

in questa linfa

che non ha radici”.

Per ulteriori notizie su Filippo Crea ecco un l’articolo pubblicato su PQlaScintilla: http://pqlascintilla.ilcannocchiale.it/2015/08/12/filippo_crea_poeta.html

Le “Donne” di Sergio Franzini esposte a Vallesone

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IMG_E7077Sergio Franzini esporrà al Torchio di Vallesone, frazione di Domodossola, durante la festa del patrono S. Gaudenzio, una ventina di quadri, in cui sono dipinti espressivi volti e figure di donne. Inaugurazione sabato 1 settembre 2018, alle ore 18. E’ stato pubblicato un catalogo con tutte le opere in mostra: soggetti femminili - reali, interpretati o immaginati - avvolti nelle spire di colori luminosi ma morbidi e pacati, realizzati con sensibilità e con intuizioni personali di valido effetto.

DOMODOSSOLA – Sono nello studio di Sergio Franzini - artista che non conoscevo, sebbene sia ossolano come me - su invito dell’amica Mirella Gentili che mi chiede se posso presentargli la mostra che proporrà durante l’imminente festa patronale, nella frazione Vallesone di Domodossola. Eccomi, quindi, a colloquio con lui: una persona umile e riservata, che ti mette subito a proprio agio, per cui darci del tu diventa quasi spontaneo. Pur definendosi un autodidatta (comunque, come si noterà, con un curriculum ragguardevole seppure conosciuto da pochi), d’acchito, sono meravigliato nel constatare che la sua pittura abbia raggiunto livelli così pregevoli, nonostante che si sia dedicato a tutt’altra attività professionale.

franzini1Nato nel 1953 a Borgonovo Val Tidone (PC), è ancora fanciullo quando il padre, per lavoro, si trasferisce, con la famiglia, a Domodossola, dove tuttora Sergio risiede. Nel capoluogo ossolano ha studiato fino al diploma, si è sposato e ha avuto due figli. Giunto alla pensione, dopo essere stato impiegato in un noto gruppo industriale, si è dedicato a tempo pieno alle sue passioni per il disegno e per la storia che ha coltivato da sempre, nel tempo libero, dilettandosi a illustrare fumetti ambientati in diverse epoche. Negli anni, ha disegnato saltuariamente copertine o servizi interni per le riviste ossolane “Pucianiga” e “Oscellana”; le francesi “L’art de la Guerre”, "Histoire médiévale"; le italiane “Alpha Dimensione Vita” e “Il grande Blek”. Ha illustrato pure alcune simpatiche filastrocche composte da lui e i due libri scritti dal padre Deliso: “Rimembranze di guerra” e “Infanzia a retorto (Il ciliegio proibito)”. A coltivare la pittura, prima a olio e poi ad acrilico, ha iniziato negli anni Settanta, dedicandosi a un realismo figurativo; in seguito, ha dipinto molto ad acquarello e spesso a tempera. Non ha, però, mai frequentato Accademie o Maestri.

I suoi soggetti sono principalmente figure e volti, soprattutto femminili; poi scene di vitaIMG_E7089 legate alla storia, in particolare orientale. Alcune composizioni le ritrae dal vivo, altre ispirandosi a fotografie di cui, comunque, trasfigura ambientazioni e volti, rendendoli personali. Franzini (Franz) ha scelto volutamente di restare nell’ombra, pur dedicandosi all’arte con perizia, preparando prima schizzi e bozzetti su fogli, poi le creazioni definitive su tela o su carta per gli acquerelli. In tutti i suoi lavori dimostra qualità segniche e di contenuto, che gli hanno fatto ottenere il primo premio al concorso Artistico Saronnese, nel 2016 per il disegno a matita e nel 2017 per l’acquerello.

Nella pittura, Sergio si affida solo al proprio modo di sentire e di realizzare l’opera, IMG_E7087seguendo il forte pulsare dei suoi sentimenti, da cui trae linfa vitale per autodeterminarsi artisticamente, e proponendo unicamente quei risultati espressivi che meglio ne fanno apprezzare la sua personalità, la tecnica e la carica comunicativa. E’ vero che qua e là, più o meno inconsciamente, si notano suggestioni - come sostiene anche Camilla Bertolino, nella prefazione al catalogo “Donne” - che ricordano vagamente, negli sfondi o in alcune impostazioni, Klimt e il decorativismo floreale, oppure riferimenti della grafica giapponese, del Liberty o di altre citazioni, tuttavia, non destituiscono il pittore Franzini dalle posizioni di originalità raggiunte. Egli procede, infatti, per immagini, rifiutando strade facili e le sue figure femminili hanno peso e solidità, oltre a una personale poetica nei tratti somatici.

IMG_E7085Io sono convinto che chi ammirerà la sua mostra al Torchio di Vallesone, noterà la schietta rappresentazione delle sue raffigurazioni, in cui riesce a infondere una dominazione delle luci e del colore, dando realismo espressivo alle figure e ai visi. Un verismo che è frutto di un’abilità manuale, fuori dall’ordinario per un autodidatta, come in “Giorgia”, “L’attesa” o “Sophie”: il tutto in inquadrature curate nell’intonazione scenografica, ispirandosi magari alla fotografia, quando la utilizza, aggiungendole però anima.

In “Pensieri svelati”, per esempio, o in “Medicina orientale”, ma anche in “Ponte sottofranzini 2 il monte Fuji”, l’autore dà origine a immagini che esaltano, con incredibile verosimiglianza, l’espressività del reale, dove le figure femminili appaiono – per le scelte delle pose - misteriose, fiere o ieratiche, immerse tra vivaci soluzioni tonali ed eleganti effetti di chiaroscuro. Il volto di “Stelle a strisce” richiede di essere ammirato, oltre che per lo sguardo sinuoso e altero, per gli occhi enigmatici e seducenti. Gli stessi risultati Sergio Franzini li ottiene pure nelle altre opere, in cui capta e rivela, psicologicamente, quel che di luminoso o trasfigurato c’è nel cuore delle persone.

La mostra di Vallesone si compone di una ventina di tele e merita di essere visitata: le sue figure femminili - reali, interpretate o immaginate - avvolte nelle spire di colori  morbidi e pacati, sono dipinte con sensibilità e con intuizioni personali di valido effetto.

Giuseppe Possa

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Franco Sgrena: Novant’anni da ribelle

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MASERA - Conosco Franco Sgrena dagli anni Ottanta, da quando m’incontravo con suo figlio Ivan (pittore talentuoso, perito tragicamente durante una scalata; di recente gli è stata dedicata una retrospettiva all’Acli di Villadossola:

https://pqlascintilla.wordpress.com/2018/07/31/ricordo-di-ivan-sgrena-pittore).

Sapevo del suo impegno politico in quegli anni, ma ben poco del suo passato che asgrena rapppresi, a grandi linee, quando lessi il libro di Benito Mazzi “La ragazza che aveva paura del temporale” (L’avventurosa e quasi leggendaria storia di Antonietta, moglie, appunto, di Franco detto “Ranca” contrabbandiere e partigiano in Val d’Ossola dell’ottava Matteotti:

http://pqlascintilla.ilcannocchiale.it/2012/01/25/benito_mazzi_la_ragazza_che_av.html).

Ora, però, vengo a conoscenza di tutta la sua storia dal libro autobiografico “Novant’anni da ribelle”, in cui la figlia Giuliana ha raccolto le registrazioni dei racconti del padre e curato la pubblicazione, “controllando - come scrive nell’introduzione - trascrizioni, dati e fatti in modo che questo possa essere un piccolo ma reale contributo a chi vuole conoscere la storia della repubblica dell’Ossola e non solo. Fatti che non risultano nei testi storici ma che riportano una realtà in cui la quotidianità, anche della guerra, nasconde risvolti sconosciuti e comportamenti inaspettati”.

aefd713d623e594e7e2945759d6edc22Franco, in una ben scandita ricostruzione di fatti e avvenimenti, riporta alla memoria, con efficacia e semplicità, l’infanzia (è nato a Masera, in provincia del VCO, nel 1926), costretto da subito, ma partecipando il meno possibile, alle parate fasciste. Si ritrova, poi, con gli amici di allora, ribelle al potere già all’inizio della guerra e nel ’43 è “disertore”, dedito anche al contrabbando, facendo da spallone tra i monti ossolani e la Svizzera: niente di romantico, ma grama lotta per campare. Più volte braccato, è alla fine colto sul fatto, tuttavia, riesce a far perdere le tracce e si aggrega ai partigiani col nome di “Ranca”. Il 23 aprile del ‘45, scende dalla Valle Vigezzo e dopo una serie di peripezie, si trova tra i partigiani che per primi entrano a Milano (il loro commissario politico era Antonio Greppi, che sarebbe diventato il primo sindaco del capoluogo lombardo). Capo di una pattuglia formata da 3 partigiani, la mattina del 29 aprile, Sgrena arriva a Piazzale Loreto ed è incaricato di aiutare a mantenere l’ordine pubblico. All’inizio di maggio tutti i partigiani sono stati smobilitati e ognuno è andato per la propria strada. Franco rientra in Ossola e torna al contrabbando, dal riso alle sigarette, tra Italia e Svizzera. Le avventure si snodano tra vino e bricolle, ma anche tra vari lavori nei cantieri ossolani, perché nel frattempo si è sposato e ha avuto la figlia Giuliana nel ’48 (il figlio Ivan nascerà nel 1953). Dopo numerose avventure, nel 1960 è assunto nel personale viaggiante delle Ferrovie dello Stato (in tali mansioni - 31 anni dopo al momento di ritirarsi in pensione - risultava il ferroviere in funzione più vecchio d’Italia). Sgrena da quando è entrato in Ferrovia si è impegnato anche in politica, diventando segretario della sezione di Roma_Giuliana_Sgrena_casa_delle_Donne_2Masera del PCI; eletto Consigliere nell’Amministrazione Comunale del suo paese nel 1970, sarà rieletto per vent’anni; come delegato del Comune per tre lustri è stato nella Comunità Montana. Inoltre, ha ricoperto l'incarico di Segretario dell’Anpi nella sezione locale e fu tra i promotori del Museo dello Spallone, inaugurato di recente a Masera.

Il libro (edito dall’Anpi di Domodossola) è pure ricco di aneddoti divertenti, di immagini lentamente riemerse dal profondo per prendere vigore in queste pagine. Comunque, tutta la sua storia è stata una sfida e risulta testimonianza di un popolo e di una valle di confine. Penso che sia importante mantenere la memoria della nostra storia, soprattutto quella della Repubblica dell’Ossola, che ha ancora molto da insegnarci. “Ricordare è importante per soffocare sul nascere rigurgiti di atteggiamenti nostalgici o il diffondersi di sentimenti xenofobi e razzisti”, conclude nell’introduzione Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, rapita nel 2005 in Iraq e liberata in circostanze drammatiche. Alla fine del libro, la domanda è inevitabile: “Ti ricordi del mio rapimento”, chiede la figlia al padre ed egli rievoca, con grande dignità, quei giorni tragici e l’angoscia vissuta da genitore.

Giuseppe Possa

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Giuliana Sgrena, la mamma Antonietta, il papà Franco, il marito Pier e Giuseppe Possa


PERCEZIONI EMOZIONALI NELLA PITTURA DI CRISTIANO PLICATO

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Urto di masse sovrapposte e colori ribollenti, nel segno dell’armonia. Scavi febbrili28577673_10215985395853725_8301187527450811076_n.jpg tra inquietudini e tormenti umani, ma con un occhio alla speranza. Paesaggi espressionisti intrisi di gioia poetica. Ha esposto in un centinaio di mostre personali in Italia e nel mondo.

Cristiano Plicato è un pittore vitale che ha trasfuso nei propri dipinti tutta la sua libertà segnica e cromatica. Dal magma del quadro la sua energia lirica – tra forma ed astrazione – crea masse materiche, racchiuse attorno al nucleo germinante delle immagini, unitamente a toni e semitoni taglienti, in un risalto di colori ribollenti, ma armonici.

11009216_10207086974318748_4071517666308791930_nPer anni ha evocato figure inquietanti e misteriose, da cui scaturiscono messaggi di dolore e d’angoscia, spesso caratterizzate soltanto da macchie, mentre le forme, interne, restano appena accennate. In tal modo Plicato pare privarle della loro identità, per rendere simile indeterminatezza più efficace e universale. Attraverso queste tele, esprime la realtà esistenziale del quotidiano: si tratta di visioni stimolanti, di situazioni riprese nell’attimo dello smarrimento. Hanno taglio provocatorio quei visi enigmatici: presenze spettrali, scolpite nella materia, talvolta scavate in una specie di stoica sofferenza; donne e uomini indecifrabili, probabilmente feriti da prostrazioni psico-fisiche, ingolfati all’interno di giungle dai lampi cromatici infernali o su sfondi che paiono plasmati dal big bang o da esplosioni atomiche.

Plicato, di recente, all’inquietudine che ne aveva caratterizzato l’opera, ha volutoFOGLIA_2 sostituire le quiete di una natura dalle vedute espressioniste, che, però, sanno trasmettere, nella loro squillante colorazione, speranza. Questi paesaggi, originati da percezioni visive, misti a stimoli psicologici, si trasformano fino a restituire di sé un’immagine evocativa: sono rappresentazioni da cui l’autore recupera quella gaia spensieratezza che cattura i segni dell’anima, per sfuggire le ansie di tutti i giorni e aggrapparsi a nuovi orizzonti, a rinnovate aspettative. E diventano vedute, quasi imperscrutabili, tra cielo e terra: orizzonti di sentimenti o visioni di tormentata intensità emotiva come per rigenerare e conciliare l’uomo al contatto con l’ambiente circostante. Sono macchie di colori che si confondono e si mescolano in vivide atmosfere. Da esso viene quella magia che sa 197IMG-20170130-WA003esprimere pace: come se l’autore avesse trovato una più intensa voglia di vivere e di trasmettere agli altri. È la luce che irradia questi dipinti, una luce indefinita, non proveniente da nessuna fonte localizzabile, che penetra l’intero motivo e che avvolge i suoi paesaggi, semplificati, in un bagliore che è quello dell’attesa di un mondo migliore. Scorci ambientali di puro colore, grandi nudi all’aperto, entrano nella pittura attuale di Cristiano Plicato: essa è personale e si riconosce per la carica di rassicuranti suggestioni che trasmette, per il senso di conquista che esercita sul fruitore sensibile, ma soprattutto perché invita alla riflessione, al sentimento, al dialogo con la sofferenza o con la gioia, in un autentico slancio comunicativo.

Giuseppe Possa

gppos

 

 

 

 

 



Biografia: Cristiano Plicato nasce in Sicilia a Camastra,  nel 1950. Con il padre Stefano e la famiglia nel 1959 si trasferisce a Milano e l’anno seguente a Desio.  Compie gli studi all’Accademia di Roma, dove frequenta il corso di Architettura degli Interni. Nel 1968 è invitato da Rafael Alberti, al Concorsophoto Internazionale di Alba Adriatica, “Marino Mazzacurati e la Resistenza”. Partecipa alla contestazione della 35a Biennale di Venezia nel 1968 con la performance “Arte in cenere”. È il 1972 quando Emilio Tadini, in occasione della mostra alla Galleria Ticino, scrive: “Il giovane Plicato, pittore, espone una ventina di quadri alla galleria Ticino di Via Brera. Occorre dire, che dà buona prova di rigore, serietà e certezza”. Principali mostre personali: ARCO88, Madrid; Galleria Sargadelos, Milano, Barcellona e Madrid; Galleria Fons d’Art Olot, Girona; Radison Gallery, New York; Galleria Hofficina d’Arte, Roma; Galerie Art Culture, Monaco di Baviera; Galleria Guido Iemmi, Milano; Babel Art, Alessandria; Galleria Spazio Frisi Milano; Galerie Vogel, Berlino; Strand Gallery, Londra; Museo della Permanente, Milano; MAC, Museo di Arte Contemporanea scalvini gLissone; Palazzo Coen e Museo del disegno, Salò; Museo d’Arte del Belem, Lisbona; Museo d’Arte Contemporanea, Bruges; Museo Salvador Dalì, Berlino; Museo Internazionale per le Arti Contemporanee, Mosca. Ha ordinato oltre ottanta mostre personali in Italia e nel mondo. Le sue opere sono presenti in collezioni private, musei, istituzioni. Hanno scritto di lui storici, studiosi e critici dell’arte, tra questi: Alberto Veca, Flaminio Gualdoni, Rachele Ferrario, Renata Ghiazza, Gino Sordini, Marcello Riccioni, Luca Cavallini, Sabrina Arosio, Giorgio Seveso, Raffaele De Grada, Emilio Tadini, Carlo Belloli, Gianni Pre, Pasqualino Colacitti, Aquilez Ortiz, Monica Ruiz, Maria Luisa Caffarelli, Claudio Rizzi, Giuseppe Possa, Judit Nahóczky. Dal 2003  è curatore  del Museo Giuseppe Scalvini con sede in villa Tittoni nella città di Desio (MB) e presiede  l’Associazione Amici del Museo Scalvini.

BANDO PER CONCORSO ARTISTICO “GIOVANARTE 2018” - UNDER 35 - QUARTA EDIZIONE

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premio piacenza

Associazione culturale "Amici dell'arte", via San Siro 13, 29121 Piacenza.

Bando completo del Concorso artistico “GIOVANARTE 2018” - UNDER 35 - QUARTA EDIZIONE comprensivo della scheda di partecipazione su: http://www.amicidellartepc.it/index/altre-attivita/show/giovanarte-2018/2018.html

FINALITA’ Offrire visibilità ai giovani artisti di Piacenza e di province limitrofe (Cremona, Lodi, Parma e Pavia).  La presenza in giuria di esperti d’arte garantirà valutazioni qualificate.  La pubblicazione del catalogo nonché la pubblicità in varie forme permetterà ai giovani artisti di farsi conoscere.

TEMA DEL CONCORSO Il tema del concorso è libero.

CATEGORIE IN CONCORSO Sono previste 4 categorie a cui iscriversi: 1. "Pittura": opere realizzate con qualsiasi tecnica 2. "Scultura e installazioni": opere realizzate con qualsiasi tecnica e materiale; 3. "Fotografia”: opere stampate su vari supporti, in bianco e nero o a colori. 4. “Illustrazione e fumetto”: opere realizzate anche in digitale

CRITERI DI AMMISSIONE La candidatura è riservata ad artisti residenti e/o nati a Piacenza e nelle province limitrofe (Cremona, Lodi, Parma e Pavia) che non abbiano ancora compiuto il 35° (trentacinquesimo) anno di età al 22 settembre 2018. Ogni candidato può presentare un massimo di 2 opere. E’ consentita la partecipazione ad una sola categoria. 

Associazione Amici dell'Arte Via San Siro n. 13 - Piacenza -

tel 0523.335253 Fax 0523.304941 - c.f. 80015970330

www.amicidellartepc.it info@amicidellartepc.it

SCHEDA D’ISCRIZIONE, MODALITA' DI SVOLGIMENTO, GIURIA, MODALITA’ DI VALUTAZIONE, PREMI, ALTRE MODALITA’ D’ISCRIZIONE, CONSEGNA DELLE OPERE PER ALLESTIMENTO   ecc.  – consultare il sito:

http://www.amicidellartepc.it/index/altre-attivita/show/giovanarte-2018/2018.html

CONTATTI Associazione "Amici dell'arte" Via San Siro 13, 29121 Piacenza Tel. 0523.335253 E-Mail info@amicidellarte.pc.it 

Orari di apertura: da mercoledì a domenica dalle 16 alle 19.

Rita Rossello: “Anime senza spazi” (poesie) – Centro Minerva Edizioni

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Alcuni poeti autentici rimangono spesso sconosciuti per una scelta personale, magari anche dopo aver pubblicato una raccolta degna di lode, poiché ritengono le loro liriche troppo legate a un estro effimero degli anni giovanili. Col trascorrere del tempo, però, può darsi che quella silloge torni tra le mani e si finisca per giudicarla ancora attuale. Infatti i versi, quando sono autentico afflato dell’animo umano, sono sempre validi e non scontano mai l’usura del tempo. Capita così, seppure con una certa ritrosia, di farla poi leggere a un critico, a cui è piaciuta e che ha rilasciato un giudizio positivo, per rendersi conto che quei componimenti erano un canto elevato della propria coscienza interiore, viva e attenta ai sentimenti più significativi della vita. Che sia per questo che mi trovo a leggere la raccolta “Anima senza spazi” di Rita Rossello, edita da Minerva Edizioni, pubblicata anni fa e troppo frettolosamente abbandonata dall’autrice sugli scaffali di casa?

Intanto, la frase di Antoine de Saint-Exupéry, “È il tempo che hai speso per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”, inserita come postilla ad apertura di libro, dopo la dedica alla madre, suona ora come esortazione: ciò che è stato scritto col cuore, conserva sempre il suo valore: <<Cosa abbiamo mai seppellito accanto al vuoto/ che ci circonda?/ Osservo, impensierita l’affanno dell’umano,/ la solitudine disarmante/ di anime/ che non trovano riparo alcuno./ La solitudine coatta,/ non salva dal dolore/ scarnifica l’anima,/ uccide la passione,/ disarma il desiderio./ Era questo ciò a cui abbiamo pensato?>>.

Ma chi è la poetessa che sto recensendo? Di lei so solo che è un “avvocato penalista” di Torino; l’ho conosciuta su Facebook, grazie ad amici reali e spero che lo diventiamo anche noi nel prosieguo. Entro, quindi, subito nel vivo delle trentatré liriche in versi sciolti, scorrevoli e musicali, per scoprirne la loro bellezza, plasmata dall’animo vigile ma sofferente dell’autrice: <<La bellezza che incanta/ come turbini di parole/ tra spazi/ in un oceano/ di musica tempestosa>>. Nella misura tradizionale dei toni, Rita si muove nell’introspezione psicologica con immagini vigorose, venate da una serena malinconia che esprime un’attesa vana, <<una melodica sofferenza che avvolge/ l’umano>>, dove le sembra di scivolare per caso lungo un muro <<tra passanti ignari/ che nulla sanno della mia anima./ Nulla so del loro silenzio>>.

Questo particolare stato d’animo si può rinvenire nella sensibilità di diverse sue poesie, che alla lettura appaiono certamente l’espressione di un diario, come in “Hic et nunc”, intimo alternarsi di versi brevi, ma pregnanti, di contenuto etico-civile, volto a una denuncia chiara e specifica degli squilibri sociali: <<I canti della terra,/ sono grida sgraziate,/ dolenti./ Umanità inferocita,/ dissangua/ ovunque/ il proprio simile>>.

Tuttavia, il substrato lirico su cui si innestano sovente i sentimenti della poetessa, sono legati a “sguardo malinconico”, innanzitutto, sulla natura, che le fa esclamare: <<Qui,/ dove l’estate è un sogno,/ mi reco sempre,/ a cercar qualcosa/ che mi sembra perso>>. Sono i <<luoghi,/ove tutto/ scorre immobile>> delle vacanze spensierate: <<Sicilia,/ lunghe estati,/ luce ab31602867_2199042540111638_415572093439049728_n.jpgbagliante,/ cielo aperto al sole,/ mistero di luoghi silenziosi…/ Non si dimentica tanto bagliore>>. È qui, forse, che si ha <<nelle mani il profumo dell’estate>> e che <<il giorno,/ sopporta il suo peso>>. Ma questi riferimenti ai paesaggi estivi dell’infanzia (<<Nessuna prigione in quei luoghi,/ solo sorrisi di fanciulli>>) sono ricordati con una serena tristezza che non è rimpianto, sebbene si faccia portatore di quel guardare indietro a trovare <<tratti di volti/ come ombre spezzate/ viaggiano nei pensieri, pezzi di cuore smarriti,/ e ritrovati/ lungo i tracciati della memoria>>, quel rimpianto di una luminosa e giovanile incoscienza che (<<come lance mortali>>) ci fa comprendere il dissidio interiore di una breve e intensa fiammata di felicità. Si chiede, però, ora accorata, Rita: <<Che cosa cerchi tra quelle scatole vuote?>> e la risposta appare come un ridare senso alla speranza: <<cercavo luce, e colori,/ e anime>> e così <<ritornano, silenziose, le pagine/ scivolano silenziose tra i pensieri,/ a lungo>>. E quel passato di poesia, <<un ricordo tremolante>> non scritto, ritorna in aiuto come <<notturni sogni>> che <<destano sensazioni/ emozioni>>.

Si avverte, poi, nel suo canto - che sfuma in immagini calde, luminose, come il ricordo di un gesto, di un volto o di un’emozione - l’esortazione a comunicare con <<altre anime senza spazi>>, <<meccanismi imperfetti di un cinico dispetto>>, <<volti, apparenze nascoste,/ maschere spettrali>>, così da tessere con gli altri un dialogo intimo di sentimenti: sono essi a donare in questa <<fatica del vivere>> ampio respiro e visione cosmica del proprio essere al mondo. C’è, inoltre, un sottofondo di spiritualità, in tutto questo, che tuttavia non sfocia in sussulti soprannaturali, perché <<di Dio non c’è traccia>> o perlomeno è <<un Dio lontano dimentico del terreno./ Assente distaccato>>.

L’amore, però, quello umano, dolce e delicato che estranea il mondo intero per farsi freschezza germinativa anche sotto l’effetto di una viva suggestione o di un semplice ricordo, è ancóra un’àncora di salvezza: <<La mia anima sul tuo sguardo, / le tue mani tra le mie. / La tua anima sul mio volto, / il tuo corpo, / tra i miei pensieri/ innamorami/ sempre/ di te>>.

Della poetica di Rita Rossello ho toccato solo alcune tematiche; ci sarebbero però altri fili conduttori, intensi e significanti: come, per esempio, il senso di solitudine: <<Lo so,/ sono la tua eterna solitudine,/ lo specchio che rimanda/ l’immagine/ che mai/ vorremmo vedere>>; le malinconiche ombre del silenzio: <<Ora mi siedo accanto ad un muro/ e sempre mi appare/ che troppo sia il silenzio>>; il disorientamento dell’uomo che finisce per rifugiarsi in una dimensione di <<emozioni senza un dunque>>, di sogni perduti o <<di una nostalgia inspiegabilmente misteriosa>>: <<Volti, apparenze nascoste,/ maschere spettrali di idilliaci sogni./…Mentre il giorno si dimentica,/ e la luce si commuove>>; l’impossibilità di rapporti sereni nella quotidianità dell’esistenza, anche perché <<l’onda del rispetto/ appare infranta/ da rocce di sopruso/ violenza e prepotenza>>; il passare delle stagioni in cui <<la fatica del vivere/ si traduce in gesti silenziosi./ Tra le mani un nudo respiro/ di un oggi che è già domani>>; le memorie <<Mai,/ mai andremo lungo/ il sentiero di cui dicevamo,/ erano anime assenti,/ silenziose/ e noi tacevamo,/ quasi innocenti,/ turbati/ da un candore incomprensibile>>.

E ancora: “il senso della morte e del dolore”, <<mentre la vita ci sfugge/ mentre qualcosa tormenta/ in un sonno dell’anima>>; per soffermarsi, poi, anche sull’angoscia, sul travaglio interiore: <<Aspettiamo nell’inutile, / un Godot smarrito, / e appare sempre il deserto>> e altrove: <<L’ombra del silenzio,/ ci sorprende, ci stordisce/ mentre il giorno si avvicina,/ ancora identico a se stesso>>. Non manca pure il tema dell’incombere del tempo, che tutto consuma, insieme al rimpianto: <<Il tempo/ per tutto/ il tempo/ per nulla>>.

Insomma, da questi motivi intensi e vitali, ricchi di suggestioni umanistiche, da questo reticolo di emozioni scaturite da una sofferta riflessione, l’autrice sa portare a galla tensioni nascoste, che derivano da un’epoca di crisi, travagliata e violenta, lasciando, però, sempre ancora viva la speranza, perché <<mentre l’alba sorge/ e la notte si dilegua/…ecco, l’universo ricomincia il corso,/ e pallidi selciati/ muovono danze che si ripetono>>.

Per concludere, nel comunicare i suoi stati d’animo, Rita Rossello dispone di una elevata abilità della parola che sempre assume un vigore semantico e fonico di alta efficacia. Una silloge, la sua, di notevole intensità lirica, che richiede di abbandonarsi ai suoi ritmi, limpidi e incisivi, ai suoi contenuti profondi ma vibranti, sprigionati da una notevole passione interiore per la poesia.

Giuseppe Possa

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MARIO BELTRAMETTI: UN PITTORE TRA PAESAGGIO E PROBLEMATICHE SOCIALI

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Lutto nel mondo dell’arte ossolana: è scomparso, il 4 ottoindexbre 2018, Mario Beltrametti, pittore di Crevoladossola (VB), nato a Ornavasso nel 1941, noto soprattutto per le nature morte e i paesaggi che ha dipinto, lungo i sentieri delle nostre valli. Saltuariamente si è anche dedicato a un’appassionata ricerca sui problemi dell’uomo e dei suoi valori, con quadri di vibrante polemica sociale, dedicati all’ecologia, alla Resistenza, alla guerra, alle lotte per la libertà, con cui denunciò la prevaricazione e l’autoritarismo politico, la corruzione, lo sfruttamento, di ogni tempo e di ogni luogo. Per ricordarlo, pubblichiamo un ricordo di Giuseppe Possa, che in più occasioni scrisse di lui e gli presentò alcune mostre.

Mario Beltrametti è un pittore che ha sempre lavorato dedicandosi al paesaggio e ai temi sociali, cogliendo il meglio della tradizione artistica ossolana in genere e vigezzina in particolare, che vantano momenti di alta scuola.

Nato ad Ornavasso (VB) nel 1941, Mario Beltrametti ha sempre operato a Crevoladossola, dove risiedeva, in una tipica villa del Settecento, dal cui terrazzo si ammira l’ampia conca che accoglie <<il vento delle sette valli>>, in cui sorge Domodossola e dove il Toce, radunando le acque dei suoi torrenti, calmo scende al Lago Maggiore.

fioriEspose la prima volta a Domodossola, presso la fondazione Galletti; in seguito partecipò a numerose collettive a Varese, Novara, Lesa, Stresa e in altre importanti città. All’inizio degli anni Settanta ad Arona, allestì due personali e nel 1979 vinse il premio dedicato al maestro pittore Umberto Montini. Citato su giornali, riviste e pubblicazioni d’arte (come il “Comanducci”), nel 1985 propose una nuova personale nella città domese, a Palazzo S. Francesco, e prese parte all’incontro tra pittori italo-svizzeri: “Ossola e Vallese nell’arte contemporanea”. Aveva, comunque, già aderito ad altre iniziative simili, quali: “Aspetti ambientali ed urbanistici dell’Ossola, ieri, oggi, domani”; “Proposta: immagini per ricordare”, una collettiva dedicata al tema della Resistenza, proposta dall’Anpi di Domodossola con catalogo (dal suo dipinto, “Il sonno della ragione genemarbeltrra i mostri”, si evince che la ferocia e la sofferenza di ieri sono state bandite, la libertà è stata raggiunta, ma al fondo restano l’inquietudine ed il timore che tutto ciò non sia definitivo. Come in un vasto affresco decorativo, i frammenti-simboli del bene e del male sono raffigurati per superare e redimere le tragedie, non solo quelle dell’ultima guerra, ma idealmente ogni spargimento di sangue, così da lasciare posto a un mondo nuovo, rappresentato dal prato fiorito).

Nel 1998 presentò alcune interessanti tavole durante l’annuale concerto, promosso dalla <<Cappell284845_2327330261542_566993_na Musicale del Monte Calvario>>, nella chiesa romanica di S. Quirico in Domodossola (proprio davanti alla villa in cui trascorse i suoi ultimi anni il filologo di fama internazionale, Gianfranco Contini). Lo stesso anno propose i suoi quadri a Palazzo Pretorio di Vogogna, presentati da Dario Gnemmi e da me. La mostra più importante, però, la tenne l’anno successivo a Milano alla “Galleria dell’Angolo”, curata da Gianni Pre, direttore della rivista di cultura e arte “ControCorrente” che gli dedicò copertina e un corposo inserto (a cui collaborai). L'esposizione ottenne le recensioni di diversi quotidiani, in testa “Il Giornale” che pubblicò oltre il commento una fotografia.

Voglio chiudere quest’excursus biografico, ricordando l’importante successo che Mario Beltrametti ottenne nel 1984 quando, invitato con altri pittori locali alla celebrazione del indexxxxx<<40? anniversario della Giunta di Governo Provvisorio della zona liberata dell’Ossola>>, presentò un’opera che riesce a sintetizzare concetti di valore universale. Questo quadro, (il cui titolo è il medesimo del libro aperto, in basso a destra, di Giacomo Borgonovo, scritto nel 1868 contro la pena di morte: <<Il patibolo, il carnefice ed il paziente>>), merita una <<lettura>>. Dietro la composizione di quella che a prima vista sembrerebbe una natura morta, c’è il frastuono della guerra, la miseria umana dei corpi lacerati, i gesti scomposti della violenza recata e subita, il volto orribile e disfatto della morte. La presenza del tavolo dà la possibilità di un piano, del palco su cui rappresentare una scena: un’anatra dal collo spezzato - presumibilmente il popolo - è “il paziente”, il capro espiatorio; la corda che la lega potrebbe raffigurare “il patibolo”; Hitler, che appare nel ritratto, “il carnefice”; il potere cile (1)brutale e razzista, che ieri come oggi imperversa in ogni parte della terra, è raffigurato con le scritte Pinochet e Ku Klux Klan; mentre i fiori recisi del vaso appaiono come vittime di una violenza ecologica, anche se non sacrificale. Il giornale, infine, che sembra avvolgere il tutto, potrebbe simboleggiare l’immagine metaforica di un potere che può essere usato a sostegno, come a sfavore della causa umana. Per mezzo di questo quadro, ma anche di altri della stessa fase, con segno incisivo e tagliente, Beltrametti voleva denunciare le prevaricazioni e l’autoritarismo politico, la corruzione, lo sfruttamento d’ogni tempo e d’ogni luogo, e rappresenta quello stimolo che possa suscitare nel fruitore una reazione morale; e i simboli non valgono solo per il loro significato archetipo, ma soprattutto per quello che assumono nel contesto, come generatori, appunto, d’immagini.

Con oltre cinquant’anni anni di attività artistica alle spalle, egli non s’improvvisò, come spesso accade, pittore (anche se per vivere scelse un lavoro impiegatizio): questo va detto, innanzi tutto, per riconoscergli quelle capacità tecniche, stilistiche e di contenuto che effettivamente possedeva. Allievo del Pantona (erede dei grandi vigezzini e della pittura ottocentesca, il nonno trascorse anche un periodo a Torino, ritraendo personaggi della Corte regnante) Beltrametti ha percorso, sotto gli insegnamenti del maestro, alcune importanti tappe per la futura carriera artistica, studiando, in modo approfondito, i macchiaioli fiorentini, gli impressionisti francesci, i divisionisti italiani e i pittori paesaggisti ossolani. Egli – soprattutto a causa della posizione periferica in cui è stato costretto a vivere (lontano cioè dalle grandi città e dai centri vitali della cultura) – ha prediletto questi tipi di pittura, fino alla successiva scoperta di nuovi sbocchi, in seguito a quella continua e appassionata ricerca dei problemi dell’uomo e dei suoi valori. Il nostro ha finito così per abbandonare i vecchi schemi e per cogliere le sue esperienze nell’esplorazione di un’espressività figurativa, in parte ancora legata al paesaggio e alla natura morta, ma toccando anche temi sociali, riuscendoci appieno con una pittura più connotativa, avvalorata dalla sua personalità forte e spontanea.

index2222I primi quadri di Beltrametti erano molto suggestivi e palpitanti di liricità: in essi l’autore filtrò, sfruttando la propria sensibilità, le immagini della natura (<<E’ una natura, questa di Beltrametti – scrisse Gianni Pre – che pulsa, respira, soffre, gioisce>>) e i suoi scorci, più che descritti, sembrano vissuti in dolce simbiosi. Si possono così segnalare, tra questi dipinti, piacevoli nature morte di stile classico (cioè con il fondo neutro, le tonalità basse, quiete e ben calibrate); paesaggi dove le forme sono costruite con macchie di colori forti e scuri; altre composizioni possiedono una prospettiva aerea, dove irrinunciabile pare la spazialità e dove le foglie degli alberi, più che viste, si “sentono”.

Sono anche di quel periodo: boschi “danteschi”, in cui s’intravedono case che diventano simboli di rifugio nello sgomento della vita d’oggi; filari di alberi, leggermente piegati in avanti, che danno la sensazione di un corteo d’uomini diretti al patibolo: la tesi prende conferma anche perché spesso, alberi dritti e maestosi posti in primo piano, a volte all’inizio e alla fine della fila, sembrano fungere da spietati guardiani dei condannati.

Nella produzione del suo momento più felice, Beltrametti ha coltivato una ricercaIMG_E8142[1] impegnata: nelle sue opere ricorre la tematica di una vibrante disputa sociale, ma senza stridori polemici o indugi idealistici. Con tonalità vibranti e atmosfere aderenti, l’artista s’interrogava, pieno di ansie, sul significato dell’esistenza e del proprio essere al mondo, divenendo così un lucido testimone delle miserie, delle infamie, della stupidità delle guerre. Non ha avuto bisogno, per raggiungere questo risultato, di ricorrere alla polemica: gli bastavano pochi simboli (e il simbolo è sempre segno di un divieto, di un tabù sociale) per rivelare la perversione degli istinti, la cupa libidine di violenza e di potere. Ieri come oggi – sembra suggerirci l’artista – l’umanità non ha bisogno di eroi, ma di qualcuno che l’aiuti a prendere coscienza delle proprie lacerazioni, delle proprie contraddizioni, e a trovare in se stessa la forza e la volontà di risolverli.

IMG_E8143[1]Voglio qui riportare un giudizio che Donato Conenna scrisse su di lui anni fa: <<Beltrametti conduce un proprio discorso, fuori dalle correnti d’arte locali, rimanendo fedele ad una figurazione sociale che anche nel paesaggio trova il suo retroterra espressivo. Il suo è, infatti, un territorio dipinto nel momento in cui la presenza dell’uomo è vicina e vedibile… Una lettura delle sue opere porta, senza gli ausili del facile cartolinismo, al riconoscimento dei segni dell’uomo, alla sua pace ambientale, nei campi, nelle baite, nelle infiorescenze di un’aura domestica, di cui abbiamo perso le dimensioni. E qui, antichi vasi di terracotta smaltata e vecchi merletti, creano luci e ombre sui nostri ricordi. Oggetti che sono in primo piano non per fare bella mostra di sé, ovvero per dare lezione di calligrafia pittorica, ma per continuare il culto di quella religione laica che si chiama sapere>>.

Mario Beltrametti era convinto che si può dipingere in modo tradizionale o moderno: <<L’importante>>, mi diceva in un’intervista <<è non prendersi in giro; occorre procedere con onestà e per gradi, senza la ricerca ossessiva di “mirabolanti” formulette che, per lo più, derivano da storpiature o brutte copie di autori di successo, ricordando che la caduta di credibilità deriva spesso dalla mancanza di motivazione>>. E se non scatta una molla inventiva originale? Chiedevo: <<Bisogna sfruttare il bagaglio tecnico e culturale che si Antico-Quadro-Paesaggio-Mario-Beltrametti-Ossola-Dipinto-Olio-_1possiede, per approfondire. L’osservazione della natura (che fortunatamente esiste e si trasforma davanti a noi in ogni istante) può essere un ottimo stimolo. Si può, ad esempio, cogliere l’aspetto legato alla luce – che entrando dalla finestra di uno studio, gradualmente e con continuità, avvolge tutti gli oggetti, li posiziona nello spazio, li descrive nella loro natura materiale (metallo, legno, vegetale, ecc.) – non per farne una riproduzione fotografica, ma per darne un’impressione animata>>. Beltrametti riteneva che gli oggetti di una natura morta portino in sé l’uso che l’uomo ne ha fatto e se anche in quella funzione sono ora tecnologicamente superati, essi conservano un fascino sottile di semplicità, di fatica, di forma e proseguiva: <<Il fascino di quello che oggi è solo vecchio, ma che domani sarà antico, dovrebbe far scattare quel sentimento di rispetto che similmente ci colpisce nel paesaggio: le antiche case, gli alberi secolari, i prati, le montagne, l’acqua, sono sempre gli stessi, ma ogni volta diversi in ogni attimo, in ogni stagione, negli anni, col variare della luce e della nostra sensibilità. L’importante, secondo me, è riuscire a trasmettere in chi guarda lo stesso spirito contemplativo di chi ha costruito l’opera>>.

Se egli esponeva o si privava di un quadro fortemente sentito, era proprio per trasmettere o suscitare sintonie tra chi opera e chi guarda, e aggiungeva: <<È un bene che la natura esista ancora malgrado i tentativi dell’uomo di distruggerla, mortificarla, o addirittura sacrificarla a schiere di nuovi “dei” e “barbari” profitti: dobbiamo tornare ad ammirarla, a stupircene, con curiosità, con quella giusta determinazione che ci fa sentire, ad esempio, che un “fiore” non è “il fiorellino” o “un fiorellino”, bensì uno degli anelli che in natura mirabilmente trasmettono e permettono il movimento del “grande motore”>>, eAntico-Quadro-Paesaggio-Mario-Beltrametti-Ossola-Dipinto-Olio-_1x concludeva: <<La luce modella, trasforma, vivifica, adombra, a seconda dell’intensità, gli oggetti, gli animali, l’uomo, l’aria, l’acqua… Così, dipingendo un quadro, occorre – nel rifrangersi dei colori, nella loro bellezza e non come se fossero coriandoli – dare dinamicità al fluttuare della luce. Nel quadro deve “circolare l’aria”, senza piattume di piani che soffochino la composizione: “Le leggi sono sempre le stesse per qualsiasi genere (sia esso classico o moderno, figurativo o astratto)… poi ognuno canta con la voce che ha”, sosteneva il mio maestro, che aveva sempre vissuto in Val Vigezzo (la “valle dei pittori”, per antonomasia), ma che, grazie a questo “metro”, sapeva ammirare Picasso o Dalì, Guttuso o Annigoni>>.

Mario Beltrametti mi parlava con convinzione, ma con la semplicità di chi opera con spirito libero e ha coscienza del proprio lavoro. In questa chiave di lettura, lo svolgersi del suo percorso creativo acquistava un senso e ci faceva intuire l’essenza di una scelta di vita: cioè di proporre, al pubblico e alla critica, l’arte figurativa più genuina, che ispirandosi al vero, ne coglie gli aspetti più suggestivi, procurando un immediato godimento interiore. Credo che egli abbia sempre dipinto per soddisfare quella gioia che nel pittore si rinnova ogni volta che il colore comincia a incantare di poetiche immagini la tela: un piacere che si accende quando l’artista entra in contatto con il quadro. Dalle bellezze della Val d’Ossola, Beltrametti trasse ispirazioni e stimoli per la propria creatività e di fronte alle sue tele, il fruitore ritrova la testimonianza della personale partecipazione alla vita della montagna.

Soprattutto negli anni più prolifici, impegnato in una costante ricerca di sempre nuovi effetti prospettici e cromatici, Mario Beltrametti riuscì a ricreare – con paesaggi, interni, nature morte, composizioni di fiori – proprio l’atmosfera lirica di questo mondo alpino, in lenta via d’estinzione: un mondo che pare abbia smarrito l’essenza primordiale di vivere con naturalezza, a contatto con le cose che ci circondano.

Giuseppe Possa

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ALVISE MONESI: LE EMOZIONI DELLA MEMORIA

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Espone alla Galleria degli Artisti di Milano (via Nirone 1) dal 15 al 21 novembre 2018 (inaugurazione mercoledì 14 alle ore 18 – presentazione di Licia Spagnesi)

SXWK8267[1]Alvise Monesi è nato a Melara (Ro) nel 1954: Diplomatosi al Liceo Artistico di Brera, ha conseguito nel 1979 la laurea in Architettura al Politecnico di Milano. Attualmente vive ad Arosio (CO) con studio in via Ghisallo 6. Scrive, concludendo, Licia Spagnesi (giornalista e redattrice di “Arte”) nella presentazione del catalogo : <<Chi visita una mostra di Alvise non si porta a casa angoscia, oppressione, perché la visione dell’artista è comunque serena, pacificata, carica di ottimismo. Negli ultimi lavori Alvise Monesi è sempre più se stesso: un pittore, affascinato dall’aspetto manuale del suo lavoro e aperto alle sorprese che la pittura sempre riserva>>. Riportiamo qui la “lettera all’amico artista”, pubblicata nel catalogo, di Giuseppe Possa,  che di Monesi fu collega di lavoro.



Caro Alvise,

ci sono persone che nella vita, oltre al proprio lavoro, coltivano la passione per l’arte, arricchendo e sviluppando la propria interiorità, in una sostanziale crescita dello spirito. Molti, in silenzio e fuori dai circuiti culturali, leggono, scrivono o (come nel tuo caso) dipingono, per un esclusivo godimento, anche se di tanto in tanto si concedono qualche sporadica pubblicazione o esposizione, quasi a voler rimarcare l’origine dei propri studi letterari o accademici. Forse, è stato così pure per te, che da giovane, a Brera, sei stato alla scuola di maestri insigni, quali Bodini, Conservo e Terruso.  

Ora, però, in occasione dell’allestimento di una tua mostra personale a Milano, chiedi aCattura me, che sono stato tuo collega per anni alla Cairo Editore, un intervento critico sulla tua pittura. Se accetto volentieri è solo per due motivi. Innanzitutto, perché anch’io da appassionato, al di fuori del mio lavoro, ho operato come critico militante. In secondo luogo, perché tu proponi questa rassegna in modo disinteressato, non come operazione commerciale (mercantile) o puramente intellettuale, bensì quale iniziativa culturale: un omaggio alle tue origini artistiche e al lungo percorso che ne è seguito. Offri così a noi la possibilità di una rivisitazione di quanto hai saputo produrre con la tua pittura: sono i dipinti che hai conservato negli anni, quelli che più ti legano ai momenti forti dell’esistenza e alla tua creazione pittorica.

Tocca ora a noi fruitori cogliere quest’opportunità, non limitandoci a considerarla da un punto di vista amicale, ma neppure solo puramente estetica, cercando invece di penetrare nelle tue opere, per comprendere e riflettere sulle problematiche che ci proponi. Ricordo che negli anni Settanta eri partito con raffigurazioni che vibravano in quel fluire delle idee e delle contestazioni (eravamo ancora sotto l’onda del ’68) che tu, poco più che ragazzo, hai avuto negli occhi e nel cuore. Forse, immagini, impressioni, memorie o pensieri di allora ti sono sedimentati dentro fino al punto di realizzare quei tuoi corpi smunti, ma incisivi nel segno, straziati, dotati di vigore espressivo e di straordinaria stesura espressionista, carichi delle inquietudini dell’uomo moderno. Non hai, però, seguito le mode, ma il forte pulsare dei sentimenti dai quali hai tratto la tua linfa vitale.

monesi 5In seguito, fuori dall’ambiente studentesco, precipitato nella quotidianità del lavoro, della famiglia e del successivo riflusso della società contemporanea, come tutti noi, sei stato anche mentalmente risucchiato dai personali impegni, continuando, però, a dipingere. Poi, con il nuovo millennio, hai ripreso con più ritmo e una sintesi delle tue creazioni la proponi qui. In essa vi è il frutto delle ricerche tecniche, cromatiche, materiche, che hai appreso da giovane e che poi hai proseguite in solitudine fino a oggi, tranne qualche sporadica esposizione in anni precedenti.

La tua pittura non risulta formalmente serena, anche se all’apparenza si sviluppa nella ricerca della natura e dei suoi paesaggi, ma a guardarla con attenzione non si può fare a meno di considerare il tuo stesso modo di essere, il tuo temperamento soprattutto, che ti spinge a dipingere anche per liberare il tuo stato d’animo percorso da un’inquietudine espressionista.

Vedo, per esempio qua e là nei tuoi quadri, la morte ecologica degli esseri animali o vegetali che non trovano più il loro ambiente, perché distrutto dall’ingordigia dell’uomo e che, mi pare, tu voglia denunciare.

La tua “Montagna”, tuttavia, s’innalza quale momento d’estasi, in cui ricondurre i nostrimonesi 4 sentimenti e i nostri pensieri; per poi sostare con emozione nei “tappeti” floreali o tra l’immobilità dei “pioppi” o alla luce rasserenante che hai pennellato tra le “radici”, i “riflessi” o i “fondali”: respiri d’essenza di un pacato intimismo.  Senza dimenticare l’esplosione de “La grande onda”, rimarcata da chiare gocce, simili a una cascata di scintille che prorompe con forza dall’immensità del mare, quasi a raffrontarla alla profondità dell’arte che emerge dalla tradizione del passato. Interessante anche la “Finestra con girasole”, una vibrante composizione floreale; e discorso a parte meriterebbe “La betulla”, quasi spiritualizzata in un’angosciosa contrazione, che rivela un tema a te caro: l’attento rispetto per ogni elemento del creato.

Mi pare ancora che nei tuoi lavori ci siano sottesi pure i dilemmi della guerra per il petrolio (“Marea nera”), della violenza sugli animali (“Galapagos”) o del loro insensato sfruttamento (“Mucca pazza”). In queste opere mi appari visionario di una realtà contemporanea, in cui si consumano, senza provare alcuna vergogna sociale, i crudeli “scempi” del quotidiano.

Perfino l’uomo lo restituisci con immagini di aggrovigliata espressione, dove egli appare quale “comparsa”, incapace di reazione in un mondo globalizzato, dove non esistono più identità. Lo percepisco, per esempio, là dove - “aspettando l’onda” - le onde appaiono un monesi 6ostacolo per uno dei due uomini. Il più giovane ha il corpo contratto in una posa di sofferenza, l’altro, più anziano, cerca di sostenerlo, di dargli speranza, di fargli comprendere che le onde pronte a lambirli non sono un ostacolo insormontabile. Egli sembra offrirgli un aiuto per superare quello che è, probabilmente, solo un’angoscia interiore generata da situazioni di precarietà e inquietudine. E lo fai con un quadro sereno e colloquiale, ma che rivela molto bene il tormento profondo, che essi vivono.

Ci sono, infine, altre problematiche nelle tue tele: come quel vedersi ammassati come api nel chiuso di uno stadio, per dimenticare i nostri affanni quotidiani… o quella magra rincorsa a “prostitute” di uomini privi d’affetto, che cercano di lenire, almeno per qualche istante, la propria solitudine… oppure quei giovani che non trovando scopi in un’esistenza carente dei valori di base, in particolare il lavoro, si abbandonano, per dimenticare i loro travagli, in una mortale “extasi”.

Tocchi anche argomenti spinosi, senza commentare l’accaduto in modo doloroso, mamonesi 9 cercando comunque di spiare la drammatica realtà come nella composizione “Twin Towers”. E ancora, nell’ammucchio di “Ecorottami” proponi un soggetto di grande attualità, conflittuale con la natura, poiché l’uomo metropolitano, ma non solo, sta saccheggiando il pianeta con uno sconsiderato e globalizzato progresso tecnologico. Tutte queste problematiche sono realizzate nei tuoi dipinti con colori soffusi, seppure a volte vivi e arditi; con un linguaggio tenue, non apocalittico, poiché tutto contieni all’interno di un lirismo delicato, destinato a guardare con rispetto al nostro pianeta e alle sue risorse.

Ho lasciato per ultimo il tema sacro, anche perché è un tuo impegno più recente, come in “Duomo” o come nella “Via Crucis”, in cui esasperi (attraverso la carta increspata su tela) i ritmi, sia umani sia morali. Per esempio, nella “Via Crucis”, noto che la “Crocifissione” appare moderna, ma su un’impostazione classica e da lì costruisci le altre stazioni, tutte composte con un disegno deciso, uniforme, costruito con solide conoscenze, con un cromatismo delicato e con una sorta di pacatezza compositiva. Ogni figura, cosa od oggetto sono collocati serenamente e senza drammi al posto giusto, in una revisione interpretativa e non citazionista.

In generale nelle tue elaborazioni riaffiorano delle visioni oniriche che non ricorrono amonesi 2 simbologie particolari o a impronte letterarie, anzi le tue sono immagini, nelle quali si percepisce il richiamo a realtà accadute che però vivono, sulle tele o sulla carta, di luce propria. Quindi, non solo capacità tecniche ma anche concettuali: ne sortiscono così rappresentazioni costituite da figure e da interventi cromatici ben calibrati, suggestivi e intensi che rasentano la poesia. Insomma, ami arricchire ogni quadro di un arcano sapore esistenziale che tu osservi con distacco e disincanto.

Vive di questa rigogliosa radice la tua pittura, lungi dall’avere accentuazioni angosciose, perché le tue sono proposte di distese riflessioni. Infatti, io penso che chi vedrà la tua mostra, o semplicemente ne sfoglierà il catalogo, con i lavori che hai scelto dai vari cicli e da fasi diverse della tua vita, non potrà che accoglierli favorevolmente, poiché, tra figurazione centrale e astrazione dei contorni o degli sfondi, ci fanno apprezzare di te la personalità, la poetica, la carica comunicativa e l’eccellente risultato espressivo.

Giuseppe Possa

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 (A. Monesi, G. Possa)

 Dice di sé l’artista:

<<Estremamente sensibile ai problemi prettamente umani, la mia ricerca si è sempre sviluppata su un modulo psicologico e sociale con una forma di alto rendimento plastico. Il mio fare pittura è principalmente un’esigenza dell’anima e dello spirito, l’arte stessa la considero come una grande cura, la passione per fare qualcosa di unico e di utile per la nostra società, e per evadere anche dall’eterno presente sempre colmo di insidie e di problematiche quotidiane>>. (A. Monesi)

 

La “VIA VITIS” di Sergio Bertinotti: intervista a Pier Franco Midali

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BLRJE7031[1]Sarà presentata il 1° dicembre, alle ore 17, nella Sala Convegni del Monte Calvario di Domodossola la singolare idea per un “percorso” dedicato alla vite e al vino, lungo il quale si dislocherà un ciclo di opere di Sergio Bertinotti, all’interno di cantine e torchi  in diverse località ossolane. Per l’occasione saranno esposti i bozzetti preparatori della “Via Vitis” dipinti dal pittore di Mergozzo, che ha già terminato anche le opere definitive (ma queste saranno oggetto di una successiva mostra). Presenzieranno Sindaci, rappresentanti di Enti e Associazioni, ma l’incontro, curato da Pier Franco Midali, è aperta anche a persone interessate e al pubblico.

Tutto è iniziato durante un pranzo tra noi amici, con buoni cibi e vini locali. AIMG_E8245[1] un certo punto, Pier Franco Midali iniziò a parlare del ritorno alla coltivazione della vite ossolana in questi ultimi anni, che in parte era stata abbandonata dopo la guerra. Sosteneva che tornare a produrre un vino di qualità in un contesto territoriale di turismo può rappresentare la nuova frontiera, alla quale dedicarsi per contribuire a rilanciare l’immagine dell’Ossola, che rivendica un passato di autentica operosità contadina, oggi purtroppo in via d’estinzione.

Io, rivolgendomi al pittore Sergio Bertinotti di Mergozzo, che per l’occasione era della compagnia, e di cui già conoscevo i successi artistici precedenti, legati alla “Via Crucis”, alla “Via Lucis” e alla “Via della Fede”, precedute dalle “Storie di S. Francesco” sulla via della povertà, gli dissi: <<Ecco Sergio cosa potresti dipingere: una “Via Vitis”>>.

rzpc679721.jpgQuella che pareva una boutade, fu invece presa a cuore da Midali che all’istante propose un’idea per realizzare un’iniziativa con questo titolo che ci entusiasmò e che ora sta portando avanti nel concreto. I dipinti della “Via Vitis” sono già terminati, poiché Bertinotti, si è subito lasciato da lui coinvolgere, preparando prima una serie dei 14 bozzetti delle “stazioni”, poi i quadri definitivi. Naturalmente, per realizzare e completare in futuro l’intero “percorso” culturale-turistico e per collocare le opere in luoghi prestabiliti come torchi e cantine, occorre prima di tutto trovare i finanziamenti necessari.

A Pier Franco Midali, vicesindaco di Borgomezzavalle, ideatore dello Specchio di Viganella - ormai noto in mezzo mondo (e perfino imitato) - che riflette in piazza il sole nel periodo invernale, altrimenti assente per alcuni mesi, abbiamo proposto alcune domande in merito.

Innanzitutto, Pier Franco, perché ti stai buttando con tanto entusiasmo in questa nuova avventura, nata da dall’idea di una “Via Vitis”?

<<L’Ossola deve buona parte del suo fascino alle rive terrazzate su cui i vigneti, da secoli, fanno bella mostra di sé. Scaturisce da questa semplice constatazione territoriale l’idea di far nascere la “Via Vitis”, cioè un itinerario enologico che si districa tra le più belle e importanti località ossolane, sede della coltivazione della vite. Attività quest’ultima che ha lasciato segni indelebili della passione e della laboriosità dei suoi abitanti sia nei vigneti, sia nelle cantine>>.

Come è stato poi sviluppato il progetto?

<<Un “itinerario” per essere riconoscibile deve avere qualcosa che accomuna tutte leIMG_E8241[1] località interessate dal “percorso”. Si è così pensato di accostare l’arte alla produzione del vino e di lasciare in ogni paese ossolano, meta dell’itinerario turistico, un simbolo in grado di testimoniare sia la presenza delle antiche attività legate alla produzione del vino, sia un sigillo attraverso il quale aiutare il turista a districarsi tra i singoli luoghi in cui saranno dislocate le 14 tappe o “stazioni”. Conoscendo la bravura e l’attitudine di Sergio Bertinotti, apprezzato pittore ossolano di Mergozzo, nel dipingere importanti serie pittoriche riguardanti “itinerari religiosi e culturali” - si ricordano la “Via Crucis”, la “Via Lucis”, la “Via di San Francesco”, la “Via della fede” - abbiamo chiesto il suo contributo per ottenere i dipinti in grado di accostare l’arte all’enologia e rappresentare degnamente la nostra “Via Vitis”, ossia l’itinerario ossolano che si districhi tra le strade  del vino>>.

Qual è l’utilità per la comunità ossolana che vedi in questo “itinerario”?

IMG_E8244[1]<<Le nostre valli dispongono, grazie alla bravura del CAI, alla sensibilità delle amministrazioni comunali e alla disponibilità di molti volontari una rete sentieristica ben riconoscibile e attrezzata. Però, un “itinerario enologico” che permetta al turista di “viaggiare” lungo le strade ossolane del vino, tra vigneti, cantine, torchi e riferimenti artistici inerenti a questa attività, ancora manca. Ecco dunque l’idea di avvicinare le località vinicole ossolane mediante un percorso turistico, in grado di avvalorare la secolare attività di produzione del vino, come avveniva nel nostro territorio. Se adeguatamente segnalato e promosso, potrebbe rappresentare un’ulteriore spinta verso la promozione e la commercializzazione del vino, della grappa e dei prodotti enogastronomici locali>>.

Appare, però, impossibile riuscire a realizzare una simile iniziativa solo come “Associazione culturale Giovan Pietro Vanni, “Associazione Produttori Agricoltori Ossolani” e il blog “PQlaScintilla: vi siete già rivolti a qualcuno per ottenere i finanziamenti necessari o a chi intendete rivolgervi?

<<Effettivamente il problema economico è quello che potrebbe rallentare o addirittura affossare l’idea. Del resto le quattordici tele della “Via Vitis” che avvicinano arte ed enologia e che sarebbero lasciate in altrettante località ossolane quale “marchio” delIMG_E8246[1] percorso, hanno un costo. Così come un costo hanno sia le brochures illustrative da porre in mano al turista, sia il volume che si intende realizzare a testimonianza del percorso turistico-artistico-enologico. Un primo “accostamento” lo abbiamo intrapreso con la “Fondazione Comunitaria del VCO”, ma l’Ente non può finanziare l’idea senza l’ausilio dei Comuni interessati dal percorso. Ecco perché il primo dicembre, nella straordinaria cornice del Sacro Monte Calvario di Domodossola, sarà illustrata un’idea di progetto e contemporaneamente avanzata specifica richiesta di collaborazione a tutti i Comuni interessati e attraversati dal percorso. Altri partner di sostegno potrebbero essere Enti e Associazioni locali, il Club Alpino e le Aziende Vinicole Ossolane, ma anche privati>>.

Nella serata al Calvario cosa proporrete esattamente?

<<Il primo dicembre illustreremo una proposta con l’ipotetico percorso che si districa tra le varie località ossolane a destinazione vinicola, e presenteremo i bozzetti delle opere d’arte dipinte da Sergio Bertinotti. I quadri, che sono ovviamente tutti incentrati sulla vite e sul vino, raffigurano specifici episodi tratti dalla Bibbia o dalla mitologia, in cui la vite e il vino hanno importanza rilevante nella scena descritta. Illustreremo anche i possibili costi del progetto, la cronologia di realizzazione e avanzeremo le richieste di collaborazione agli enti interessati. L’incontro è aperto a tutti, anche al pubblico, naturalmente>>.

Esporrete solo i bozzetti preparatori o predisporrete anche una mostra dei quadri nella realizzazione definitiva?  

 GFLS6728[1]<<Esporremo, quale mostra illustrativa in grado di far comprendere il valore artistico annesso al percorso turistico solo i bozzetti e non le opere d’arte conclusive che dovrebbero essere lasciate, qualora il progetto andasse in porto, nelle singole località ossolane interessate dal percorso. Quasi certamente saranno esposti anche uno o due quadri della versione finale, per appagare la curiosità degli intervenuti e dare l’idea del valore artistico della “Via Vitis” che si va a proporre. L’intero ciclo delle opere, sebbene già portato a termine, sarà però oggetto di una mostra successiva a breve>>.

Pensi che i sindaci, le associazioni ossolane, le persone interessate possano aderire all’invito e intervenire?

<<L’augurio è quello di trovare un’adesione generale, compatibile con le risorse a disposizione dei singoli enti e associazioni, che ci permetta di cantierare l’opera e di convincere la Fondazione Comunitaria a garantire la collaborazione. La nostra “via vitis”, con le caratteristiche che gli abbiamo dato, è unica al mondo. Pertanto, sono convinto che un “percorso ossolano” legato alla vite e al vino sia un volano in grado di attrarre turisti e di conseguenza “sbilanciare” gli enti verso la sua realizzazione. Staremo a vedere…>>.

Se non dovesse andare in porto?

<<Se il progetto non troverà le adeguate collaborazioni e le corrispondenti risorse rimarrà sulla carta... A noi resterà la soddisfazione di aver proposto un “itinerario” turistico lungo le vie del vino ossolano che l’Ossola merita di avere... Alle opere d’arte cercheremo di dare, comunque vadano le cose, la dovuta importanza e la doverosa promozione. Magari proponendola in altri contesti territoriali che si dimostreranno sensibili al nostro invito>>.

Bene, auguriamo agli organizzatori di trovare una soluzione locale a questa iniziativa di Pier Franco Midali, che sicuramente darebbe lustro al territorio e attirerebbe visitatori da fuori, assai necessari alla nostra zona in questi tempi di crisi.

IMG_E8242[1]Poiché ho già avuto, in più occasioni, l’opportunità di ammirare questa nuova ricerca, “Via Vitis”, di Sergio Bertinotti, voglio esprimere un mio pensiero sulla stessa. Ho notato che i soggetti dei singoli quadri che formano questo ciclo, hanno un loro percorso, studiato appositamente dall’artista con Midali, e mediato dalla sapienza religiosa e dalla saggezza popolare. La vite, infatti, affonda le proprie radici negli albori della storia, nelle leggende e nei miti e il vino accompagna tutto il percorso delle origini della cultura, dalla mitologia babilonese, al mito di Noè e a quelli egizi, al culto di Dioniso-Bacco, fino all’aspetto sacrale nel cristianesimo e a quello laico nel simposio romano, perdurando ancora oggi, oltre che come bevanda, come elemento aggregante, come aspetto rituale delle nostre tradizioni, come simbolo con il quale si celebrano occasioni speciali, si rinnovano amicizie, si sancisce l’esito di un buon affare. È da questo contesto che gli autori si sono ispirati per stabilire le 14 “stazioni” della “Via Vitis”.

Dopo aver dipinto alcuni cicli importanti della sua pittura - dalle Storie di S. Francescobertinotti-via-c.jpg sulla via di Assisi alla Via Crucis, dalla Via Lucis alla Via della Fede” - Sergio Bertinotti intraprende ora un racconto sulla vite e sul vino. Ha dipinto, quindi, un percorso, altrettanto profondo quanto i precedenti, restando ancora su una “via” occhieggiante sempre alla sorgente del divino e del sacro, ma lasciando ampio spazio alla “natura” e alla riflessione. Nel suo insieme quest’opera, realizzata dal pittore di Mergozzo con la propria cifra stilistica e cromatica, è originale (non risulta, infatti, che in qualche parte del mondo siano mai state create, da un solo autore, opere simili in un’unica sequenza pittorica, denominata “Via Vitis”).

Con una pennellata vibrante e pulita dai colori lucenti, l’artista, per restare in sintonia con i cicli precedenti, ha dipinto queste tele con le stesse misure e nel medesimo taglio classico, seppure contemporaneo nelle selezioni iconografiche. Perdurano anche qui alcuni suoi elementi simbolici, come certe strutture architettoniche a incastri di forme geometriche; l’utilizzo di figure sobrie, agili, a campiture piatte, senza le fattezze del viso; o come lo splendore del sole-luna, che, però, l’artista non inserisce più in un cielo nero, ma in una modulazione violacea più intonata al nuovo contesto.

Bertinotti, unisce alle sue immagini tipiche, capaci di raffigurare episodi, in un racchiusoIMG_E8243[1] “corollario”, con immagini a volte affidate all’esigenza dello spirito, in altre occasioni a gesti di stupore, ad arcani eventi di speranza o a frammenti di momenti della vita e dei suoi frutti. In 14 “tappe” (con un prologo e un epilogo nella versione conclusiva), le opere di Bertinotti sono dedicate al rito antico di una bevanda, il vino, che da sempre l’uomo ha curato e lavorato con passione e ha bevuto con grande ritegno. L’insieme delle “stazioni”, di questo ciclo pittorico e la loro cronologia sono già state definite fin dai bozzetti preparatori, ma acquistano ancora maggior valore artistico nei quadri definitivi, di cui si pubblicano in appendice i titoli dei soggetti rappresentati in ogni quadro e i luoghi dove eventualmente dovrebbero essere collocate.

Giuseppe Possa

KOFAE8715[1]

 

 

 

 

 

 

 

(P. Midali, S. Bertinotti, G. Possa)

Le 14 “stazioni” della <<VIA VITIS>>:

Il vino negli antichi riti ebraici; Noè ubriaco e deriso dal figlio Cam; Il sacrificio profetico di Melchisedek; Il vino ovvero il sangue d’uva; Il vino come rito sacrificale o come medicina; Lot ubriacato dalle figlie; Quando il vino diventa un dio; Il buon vino rallegra il cuore dell’uomo; Le nozze di Cana; Io sono la vite e voi i tralci; L’ultima cena; L’aceto offerto a Gesù in croce; L’elevazione; I cavalieri dell’Apocalisse.

Le possibili località ossolane in cui collocare le "tappe" della <<VIA VITIS>>:

Trontano; Masera; Montecrestese; Crevoladossola - Oira; Calice - Crosiggia; Crodo; Piedimulera - Cimamulera; Domodossola - Vagna; Sacro Monte Calvario; Villadossola - Boschetto - Varchignoli; Mergozzo; Bognanco loc. Pianezza; Monteossolano; Borgomezzavalle - Viganella.

 

"Andromia", il nuovo romanzo di Giorgio da Valeggia

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Nuovo libro del pittore Giorgio da Valeggia che è ormai giunto alla quintacopertina andromia.JPG pubblicazione, a partire da “La mia anima ed io sul cammino di Santiago”, edito a Milano dieci anni fa da ControCorrente, a cui sono seguiti “La Barca della Provvidenza” (2010), “Nulla si è compiuto” (2013), “Il lungo filo rosso” (2016). Abituato a trovare “aperture” che lo proiettino di qua e di là dal mondo visibile e “invisibile”, con inverosimili cavalcate nel tempo e nello spazio, l’autore, anche in questo romanzo, “Andromia(Ed. Press Grafica - editing di Laura Savaglio), palesa una brillante inventiva e “prevede” ciò che potrebbe accadere fra non molto alla nostra terra, come del resto aveva già anticipato e raffigurato con la sua magica arte del pennello.

Qui di seguito la postfazione di Giuseppe Possa al libro, che non vuole essere tanto una chiave di lettura al romanzo, ma un condensato dei numerosi discorsi  e dibattiti intrapresi nei decenni con l'autore del romanzo, visto qui più come amico, oltre che ovviamente come artista. 

Postfazione al libro "Andromia"

Succederà prima o poi, come in parte hai raccontato tu, Giorgio, che l’uomo fuggirà dalla terra ormai sfruttata, desertificata, ridotta a una discarica di rifiuti e se ne andrà a vivere su un altro pianeta, in cui ha, nel frattempo, costruito un sistema d’esistenza simile al nostro. Di fronte a questo o a nuovi pericoli imminenti, almeno i privilegiati, i più abbienti “naturalmente” e tutti i lavoratori impegnati nel progetto potranno accedere a questa via di fuga per continuare a vivere in quel “trovato” cosmo, ecologicamente autosufficiente, capace di offrire agli esuli un rifugio sicuro. Agli altri non resterà che rimanere quaggiù, abbandonati, inconsapevoli delle minacce incombenti che, come l’inquinamento provocato dall’uomo, un’esplosione nucleare, una pioggia meteoritica o semplicemente la mancanza d’acqua, potrebbero estinguere la loro specie.

Anche se, probabilmente, la parte buona di coloro che se ne andranno - sempre secondo te - continuerà a vegliare su chi sarà costretto a rimanere… quindi, un eventuale “salvatore” che scongiuri una qualsiasi catastrofe, preservando la terra, le sue creature e la sua bellezza, di sicuro, si “rivelerà” sempre… del resto le speranze dell’uomo sono costantemente legate a un “deus ex machina”!

Ora tu Giorgio - abituato a trovare “aperture” che ti proiettino di qua e di là dal mondo 224179_1066927072250_6623_nvisibile e “invisibile”, con inverosimili cavalcate nel tempo e nello spazio - palesi una brillante inventiva per prevedere ciò che potrebbe accadere fra non molto, come del resto avevi già anticipato e raffigurato con la tua magica arte del pennello. “Ritrovi” così il tuo pianeta “Veseva”, su cui 40.000 anni fa - stando al romanzo - già buona parte degli ossolani, in un’epoca anteriore e più progredita di quella odierna, si era lassù rifugiata, lasciando qui gli “Hometti” (quella specie di uomini lombrico che dipingevi da giovane), martoriati e incapaci di reazione. Sono essi i nostri antenati regrediti e soltanto in questi ultimi millenni in parte ridestati. Negli anni a venire, però, dovranno essere salvati - come tu narri - da una minaccia incombente, proprio da coloro che a Veseva, frattanto, hanno raggiunto un’intelligenza superiore, con sofisticate tecnologie e conoscenze scientifiche a noi ancora ignote e forse solo “profeticamente” cosmiche.

La trama narrativa è affascinante e personalmente ho letto il tuo libro con interesse, come se si trattasse di un’avventura mozzafiato, ben conscio che, “pirandellianamente”, la fantasia vada oltre la realtà, in attesa che questa superi la prima! In fondo, fin dall’antichità, la letteratura ha sempre avuto anche la funzione di creare invenzioni e “miti” che permettano all’umanità di sognare “paradisi” impossibili, così da restare facilmente sottomessa a ogni potere dominante!

Certo, il tuo bisogno fin da bambino di viaggiare, di traslocarti su un’altra dimensione, di evadere, va forse ricercato nella tua infanzia costellata di difficoltà, un’infanzia grama, che spesso hai raccontato nei libri precedenti, dimostrando una tenacia insolita nel sopportare le avversità. Quindi, l’allegoria del viaggio è diventata per te, prima lo stimolo interiore per la ricerca del tuo percorso di individuazione; poi via via, metafora di libertà e d’avventura, per una fuga da queste tue tribolazioni giovanili, verso un nuovo pianeta su cui poter trascorrere, almeno nei sogni, un’esistenza migliore.

Chi leggerà il libro, oltre ad apprezzare le tue potenzialità narrative, non si fermerà alla sola storia in esso racchiusa, ma troverà di sicuro altri messaggi o motivi di riflessioni dalla lettura... Se poi qualcuno avrà da ridire “perché parlano gli alberi e non soltanto gli animali - come chiosava le sue favole Fedro - si ricordi che ti sei svagato con racconti immaginati, dove tutto è fantasia”. A tale proposito, come lui mise in versi senari ciò che Esopo inventò, così Laura, la tua amata compagna d’amore e di vita, lasciando intatto il contenuto del testo, devo dire che ha “pulito” in modo egregio anche questo romanzo. 

L’impressione che ho avuto io, a conclusione (ma già spesso ne abbiamo parlato nei nostri interminabili colloqui, che trovano punti d’incontro solo in arte e non filosoficamente parlando e terminano ancora oggi con quello che per noi è diventato quasi un mantra amichevole per finirla lì: “bevem ancö ‘na vota/ da quel vascel ch’el gota”!), l’impressione è - dicevo - che l’uomo ci rimetta sempre contro la natura. Perfino quando gli riesce di domarla e plasmarla, creando attorno alle sue bellezze naturali quei prati, quegli orti e quei giardini che strappa agli alberi di ogni specie e a tutto il selvatico che attorno si genera, appena egli arretra, essa si riprende tutto, ingoiandolo, riportandolo all’origine, perché la natura è selvaggia: l’uomo l’ha resa utile e fruttifera per se stesso, nonché bella alla vista.

Del resto, noi piccoli esseri tra i “viventi”, cosa mai potremmo ammirare dei monti, dei laghi, delle colline, se i nostri avi (prima che s’inventassero aerei e navicelle spaziali) non avessero tagliato alberi e arbusti, costruito sentieri e strade, alzato muri e muretti, formato terrazzamenti, così da aprire meravigliosi paesaggi al nostro sguardo? Lo stiamo verificando ora: là dove la natura torna primordiale, noi diventiamo di nuovo “ciechi” a tali bellezze. Infatti, quando siamo schiacciati tra boschi, foreste o giungle, in pochi e ristretti spazi possiamo ancora “riveder le stelle”!

E tu, Giorgio, che hai una fantasia sterminata e “credenze” assai più vaste, da anni ormaigdv123 afferri pennelli, colori e sulle tele o sulle pagine dei tuoi libri “dipingi” la nostra valle ossolana, che presto diventerà terra abbandonata e incolta (sto pensando di nuovo ai tuoi “Hometti” in quelle tue desolate ambientazioni). Un uomo, tuttavia, come tu descrivi, che sa comunicare con le piante - nonostante sia risentito e mostri impulsi di ribellione, perché è stato messo a sua insaputa, in pratica telecomandato, nella condizione di rendersi utile agli altri, dai nostri padri “vesevani” - lotta fino alla fine per la salvezza ambientale del nostro territorio… convincendo le piante, che gli rimproverano i maltrattamenti e l’egoismo umano nei loro confronti, a collaborare comunque. Ogni salvezza, però, esige un “capro espiatorio" e da questo punto di vista non hai voluto risparmiare l’eroe… che, tuttavia, si perpetuerà nel figlio che la sua compagna sta aspettando.

Ho visto tanto amore per le nostre montagne in queste pagine e per i nostri bei paesaggi che sai descrivere magistralmente. Ho percepito i tuoi sentimenti ed emozioni per quanto hanno saputo costruire, con fatica e privazioni, i nostri alpigiani e per il rispetto che essi avevano verso tutti gli animali e le piante, consapevoli che fossero a loro utili, ma sfruttati solo per l’estremo vitale bisogno. Certo in molti di noi, dopo i comportamenti scellerati di qualche decennio addietro, si fa ora più strada la consapevolezza che tutto ciò che si muove sulla terra ha vita e quindi ha la possibilità di comunicare (vegetazione, animali o uomini che siano), per cui il tutto va rispettato e salvaguardato anche per chi verrà dopo di noi. Ovviamente, in questa presa di coscienza sarà sempre utile tenere a mente il buon senso dei nostri avi.

Tu Giorgio, inoltre, sostieni la presenza assai probabile di altri esseri viventi negli infiniti sistemi stellari a noi sconosciuti, ma io escludo che siamo mai stati visitati da “alieni”, sebbene supponga che ci possa essere vita nell’Universo. Se esistono ovunque, come ci informano gli scienziati, le stesse leggi fisiche, non c’è ragione per cui la vita sia sbocciata solo sulla terra, ma non sappiamo se sia uguale o diversa, intelligente o no e neppure sappiamo se qualcuno abbia mai cercato di comunicare con noi.

Anche se l’idea di essere soli nelle galassie può essere fonte di profondo sgomento, dobbiamo, tuttavia, renderci conto che luoghi come il nostro potrebbero essere rari o, perché no, improbabili. Pertanto, la nostra terra, il genere umano, animale e vegetale, hanno un ben più grande valore di quello che noi attribuiamo loro. Eppure questa prospettiva nella “intellighenzia” internazionale, non è tenuta in forte considerazione. L'eventualità che pavento io ci dovrebbe costringere a pensare ancora con più attenzione e cura al nostro posto nel cosmo oscuro e alla nostra singola civiltà (integrata con gli altri esseri viventi e con la natura, di cui siamo un inspiegabile “aborto”).

E’ poi curioso, proseguendo, leggere - come asserisci - che ci sono momenti nella storia in cui l’uomo può arrivare così in basso che soltanto una discesa dei terrestri fuggiti lassù sul pianeta Veseva, millenni prima, potrà salvarlo, constatando, nel contempo, che siamo in continua evoluzione, ma ad ogni gradino che saliamo o scendiamo, regrediamo o progrediamo, ci portiamo dietro, quegli stessi difetti e pregi incarnati dentro di noi, “ab ovo”, perché ovviamente apparteniamo allo stesso “ceppo”. Ecco, allora, il ripetersi anche delle violenze, delle guerre, delle invasioni.

A Veseva ci sono gli “uomini lupi”, scacciati in un angolo dai nuovi conquistatori terrestri (come “pellerossa” qualsiasi!), sebbene gli attigui Marziani (nativi sul loro pianeta da sempre, come paventi tu!) cerchino di fare da pacieri tra loro e i nuovi colonizzatori. Questi ultimi di buon grado accettano una comune convivenza… seppure di tanto in tanto il “lupo” Mazakar (in cui tu incarni il male) inciti i suoi a riconquistare i territori perduti, in attesa che gli umani si decidano a trasferirsi, come già in parte hanno fatto, sul pianeta “Vicino”.

Tutto questo “putiferio”, nei corsi e ricorsi della storia, si ripete in ogni epoca, in ogni10372578_10206218657564962_4547018842154440114_n stadio delle civiltà, in ogni dove, qui o altrove, in attesa che gli esseri viventi si ricongiungano dopo tutte le reincarnazioni necessarie - sempre secondo il tuo pensiero, che la fa a pugni con il mio - a quella luce divina come pulita energia, a quell’amor “che move il sole e l’altre stelle”… anche se questa “mitica” soluzione, per me, si risolve in un semplice tornare a muoverci come “pulviscolo” tra quelle “energie” a noi ignote, che non hanno avuto inizio e non avranno fine, sia come tempo, sia come spazio.

Così almeno parrebbe. Non riesco, infatti, a immaginarmi “adorante” di un essere superiore, in una luce soprannaturale (ma ti rendi conto di cosa sia un’immortalità eterna? Un’esistenza, pur sotto qualsiasi forma, “consapevole” e “cosciente” che non abbia mai fine?)… sinceramente, non voglio entrare in una simile dimensione da favola… La vita è qualcosa di bello, racchiusa in una cornice altrettanto splendida e attendo la fine senza pormi troppe domande, oltretutto inservibili… E’ inutile e non ne vale la pena di esplorare l’aldilà, dal momento che non c’è ritorno… e proprio per questo non avremo vissuto invano!

E qui, permettimi di aprire una parentesi: il “DIO” di origini spirituali o religiose, come sempre esistito e creatore del cielo e della terra, è una “parola” per dare una soluzione dell’Universo, a cui non riusciamo e non riusciremo a dare una spiegazione… anche se un “senso” non c’è e non ci sarà mai: “In principio era il verbo” (ma quale “principio” - dico io - se poi si afferma che non c’è principio né fine) “e il verbo (logos) era Dio”. Quindi, una “parola” per esprimere quell’energia (puramente scientifica) che c’è nel cosmo, che nella sua perenne evoluzione e trasformazione è giunta a quell’uomo primitivo che per primo nominò la parola “dio” e da lì nacquero mitologie e religioni, a partire dalle antiche vicende delle “divinità”, dei “semidei” e dei “giganti”. Quest’elaborazione non fu di un singolo, né il portato di una “rivelazione”, bensì una creazione collettiva che si dispiega nel tempo. Un patrimonio “aperto”, mobile e modificabile (come dimostra la conoscenza della Storia e di tutte le religioni, dal paganesimo ad oggi) alla cui costruzione e riformulazione hanno concorso in molti, di millennio in millennio, e al quale chiunque può attingere e modificare, in una stratificata congerie di racconti in ogni latitudine. Credenze basate e accettate su un semplice “atto di fede” (“mistero della fede”), create in tempi e spazi distanti, con significati e strumenti diversi, per interessi differenziati, ma con un unico fine: dominio materiale del “potere costituito”, formato da uomini che sfruttano altri uomini.

Poi, caro Giorgio, indipendentemente da come la crediamo, volenti o nolenti, non avremo altra sorte: vagheremo “inconsapevoli” come “pulviscolo dell’universo”, simili alle tue navicelle spaziali, nell’inarrestabile divenire, tra buchi neri, espansioni, campi gravitazionali, esplosioni ed evoluzioni. E l’anima? Dirai tu. E dove vuoi mai che finisca, l’anima: là dove si dissolve il nostro pensiero o dove si disperde il suono delle nostre parole e del nostro canto; là dove esala il nostro ultimo respiro o dove svanisce il “profumo” del nostro fiore reciso. Là, dove assordante vibra il perenne scorrere dell’infinito!

Giuseppe Possa

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(Laura Savaglio, Giorgio da Valeggia, Giuseppe Possa)


SONIA CAPPINI: “Sapori e profumi in cucina dei miei ricordi e non solo”

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VILLETTE (VB) – Sonia Cappini, che ha collaborato con i genitori e la sorella nellacappini foto copertina gestione di una trattoria-ristorante di Re, ha pubblicato le sue ricette, legate alla tradizione vigezzina, nel libro <<Sapori e profumi in cucina dei miei ricordi e non solo…>>. Primi e secondi piatti gustosi, dolci, ma anche caffè, tisane e liquori finali di ottimi pasti che non dovrebbero scomparire. Quelle semplici portate di buon cibo, almeno in parte, andrebbero riportate sulle nostre tavole, perché oggi non si assaggiano spesso: nervìtt in insalata cun i fas??i, pasta e bazan, ris in cagnun, süpa da magar, minestrun at tripa, pulenta e füünz o cuncia, turta vigezzina e così via per più di cento ricette miste.  L’autrice, in quegli anni giovanili, ha carpito con passione segreti e trucchi che raccoglieva in un quaderno, dove trascriveva anche le proprie emozioni e che adesso ripropone a quanti vogliono trovare ispirazione per mettersi alla prova e andare un po’ oltre i fornelli casalinghi. Ed è proprio prendendo spunto da quei fogli che ora queste conoscenze, scelte e rivisitate secondo i suoi gusti, le ha pubblicate in un “gustoso” prontuario – “condito” anche con qualche interessante aneddoto e con molte “stuzzicanti” fotografie - per metterle a disposizione di tutte quelle persone che, ogni tanto, vogliono ancora provare a cucinare come una volta. Un tuffo nel passato per deliziarsi con le vecchie succulente pietanze che prevedevano l’utilizzo di ingredienti semplici e alla portata di tutti. Il volumetto di Sonia Cappini (edito da Press Grafica) descrive, quindi, le ricette con le cose buone di una volta, che le donne del passato si tramandavano a voce e con la pratica, di madre in figlia, fino alle generazioni contemporanee che, purtroppo, sono state travolte dai deliri macrobiotici o dai cuochi stellati internazionali, a cui ha dato di testa la celebrità e che ormai servono solo portate “concettuali” che sovente sanno di poco.

 Giuseppe Possa

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(recensione apparsa anche su Eco Risveglio VCO)

Nota inserita nel libro

<<Le nostre nonne, mamme e zie si tramandavano le ricette di cucina a voce e con la pratica, di madre in figlia, fino alle generazioni contemporanee che, purtroppo, sono state travolte dai deliri macrobiotici e dai cuochi stellati internazionali, a cui ha dato di12400447_665529570255943_805585873626552491_n testa la celebrità e che ormai servono solo portate “concettuali” che sanno di poco. A farne le spese sono anche i piatti della nostra tradizione locale, come quelli che Sonia Cappini ha imparato a preparare da giovane, nella trattoria di famiglia che sapeva di sapori e profumi d’altri tempi e di cibo buonissimo. Carpiva con passione segreti e trucchi e li raccoglieva in un quaderno. Ora queste conoscenze, scelte e rivisitate secondo i suoi gusti, li ha pubblicati in questo volumetto per metterli a disposizione di tutte quelle persone straordinarie che, ogni tanto, vogliono ancora provare a cucinare come una volta, per deliziarsi con le vecchie succulente pietanze che prevedevano l’utilizzo di ingredienti semplici e alla portata di tutti. Leggerlo, per me che non ho mai cucinato, è stato come ricordare, con un tocco di nostalgia, quei bei momenti dell’infanzia, quando le mie nonne, la mamma o le zie mi preparavano, con mani sapienti, piatti genuini, che mi auguro non scompaiano e che almeno in parte vengano riportati sulle nostre tavole>>

Giuseppe Possa

ANTONIO RONDONI, pittore (pseudonimo: Ron Redi)

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40057893_2141837372770705_5507543461101830144_nBiografia: Antonio Rondoni (nome d’arte Ron Redi) nasce a S. Pietro in Lama, provincia di Lecce, nel 1945, dove il padre, durante il secondo conflitto mondiale, milita nell’aviazione, ma subito dopo, lasciato l’esercito, se ne torna con la famiglia nella sua città, Domodossola. Per Antonio, fin da piccolo, carta e colori sono i suoi giochi prediletti. La scuola non lo appassiona, anzi si dimostra svogliato, per cui i genitori lo indirizzano in un Collegio di Torino, dove termina gli studi. Tornato a Domodossola, entra a far parte di un’importante Società pubblicitaria, come grafico.

Siamo nella metà degli anni Sessanta e nel tempo libero si diletta a dipingere a olio paesaggi, ritratti e nature morte, da autodidatta; infatti, non ha mai frequentato maestri, JXYM0873né partecipato all’attività artistica ossolana. Nel 1972 si sposa, avrà due figli; dopo qualche anno abbandona l’impiego e si dedica alla cava di proprietà del suocero e da allora ha sempre operato nel campo dei graniti. Solo saltuariamente riprende ancora la tavolozza e i pennelli, ma verso il 2010 inizia a dipingere con continuità e a tempo pieno: dapprima, decorando oggetti in ceramica o vetro, in seguito tornando alla pittura su formati diversi che lui stesso prepara con materiali di recupero. Da questo momento, però, utilizzerà i colori acrilici e non più quelli a olio.

Inizialmente, si diletta a eseguire copie di pittori famosi su commissione; poi a IMG_E8336.JPGriprodurre soggetti di Botero, di Modigliani o di altri pittori, sostituendo i visi dei personaggi con quelli di amici, di conoscenti o di chi glielo chiede, riportando pure, su ordinazione, facce dei loro animali domestici. L’idea che trasmette ai raffigurati è questa: “l’autore avrebbe dipinto il vostro viso in questo modo”! Ha effigiato anche numerose Madonne del sangue che riesce a piazzare proprio in un negozio di Re, come oggetti devozionali. Ora da qualche anno, soprattutto dipingendo su tela, ha trovato uno stile personale, sfruttando astratto o figurativo separatamente, ma anche inserendo segni e forme, visi e corpi di persone o paesaggi stilizzati, all’interno di composizioni informali fantasiose e dai colori surreali.

Rondoni non ha mai allestito mostre personali in passato, ora però ha un’esposizione permanente a Cantù, in Brianza, e un architetto indiano, dedito all’attività nel campo artistico, è il punto di riferimento sul mercato, per la vendita delle sue opere.

 Attività artistica: Se si osserva la vasta produzione di Antonio Rondoni, che copre aspetti diversi dell’arte, ci si rende conto che egli possiede la manualità dell’artigianoSWZM2330.JPG solerte e l’estrosità del pittore autodidatta. A livello di decorazione su ceramica o vetro, ha notevoli capacità iconografiche e ornamentali, sia nella raffigurazione di disegni originali con fiori, pesci, persone o animali; sia nella riproduzione di maschere, immagini devozionali, particolari di scorci o vedute. La sua cifra stilistica eccelle nella disposizione delle figure varie, affidate a colori vivi, ben delineate da fondali bianchi oppure blu marini che avvolgono l’intero oggetto: vaso, anfora, piatto, piastrella o bottiglia che sia. Tutti bei soprammobili miniati con vivacità di tocco e tanta grazia.

Le copie dei quadri d’autore che imita sono da lui riprodotte su tela, in una precisa rivisitazione che deriva dalla sua esperienza nel campo della grafica. I volti delle persone raffigurate - che sostituisce a quelli originali, riproducendo quadri di pittori noti, dai cui media l’intera ispirazione - sono dipinti con verosimiglianza e ben accettati dai committenti che si riconoscono e si “piacciono” all’interno del “falso” celebre o, comunque, popolare.

I lavori, però, che più ne rispecchiano il carattere e la tecnica pittorica, dove insomma pare maggiormente personale, sono quelli contrassegnati dai toni freschi e limpidi coi quali ritrae scorci e paesaggi in una distesa piatta, ma espressiva di certe visioni di agglomerati abitativi. Così pure nelle nature morte, nei vasi di fiori, nella ripresa della natura durante le quattro stagioni (si osservi, per esempio, quella dedicata alla “Cascata del Toce”, dove l’intensità dell’acqua e i colori dell’ambiente circostante ne delineano le scansioni nel trascorrere dei mesi).

KOEM9920Il suo stile si rende manifesto, anche nella diversità dei soggetti e nell’ampia varietà dei motivi delle tele, nella strutturata vibrazione fantasiosa dei colori, nella tersità delle atmosfere, liriche e palpitanti. Paiono visioni oniriche legate agli incantamenti ludici della giovinezza, soprattutto quando queste strutture figurali sono racchiuse da elementi astratti creati dalla fantasia dell’autore, in forma di cerchi, di strisce o di colature cromatiche.

Si può aggiungere che in altre opere le scene si fanno molteplici, visionarie, ove il sogno diviene per Rondoni motivo primario d’indagine, su uno sfondo incantato, rilucente di energie che producono atmosfere colme di colori caldi, dove si muovono figure solitarie, amanti, a volte d’imitazione, che con la loro sensualità e bellezza emanano la sensazione positiva ed emozionale di un mondo immaginario.

Siamo dunque di fronte a un pittore sì autodidatta, fuori da ogni omologazione artistica, ma capace di rappresentare con istinto pittorico e interpretare con stile personale il mondo “fantastico” che lo circonda.

Giuseppe Possa

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G. Quaglia, A. Rondoni, G. Possa

Premio di poesia e narrativa “BOGNANCO Terme” - 2019

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VIII Edizione Premio di poesia e narrativa “BOGNANCO Terme” - 2019

col patrocinio del Comune di Bognanco, Group Bognanco Acque Terme, Associazione Albergatori, Pro Loco

premio bognanco

Il Premio si articola in 2 sezioni :

Prima sezione : Narrativa

Racconto in lingua italiana edito o inedito, genere giallo poliziesco. Il concorrente dovrà inviare quattro copie del racconto di cui una sola recante i dati personali e la firma dell’autore.

Seconda sezione : Poesia

Poesia in lingua italiana, edita o inedita a tema libero. Il concorrente dovrà inviare la lirica (massimo tre) in quattro copie di cui una sola recante i dati personali e la firma dell’autore.

Le poesie e i racconti premiati verranno inseriti in un’antologia pubblicata in formato e-book dalla casa editrice Mnàmon di Milano.

REGOLAMENTO :

  • Le opere partecipanti dovranno essere inviate, accompagnate dalla scheda di partecipazione entro il 30/04/2019, in forma cartacea per posta al seguente indirizzo:
  • Premio letterario di narrativa e poesia “Bognanco Terme”
  •  

C/O Segreteria Terme di Bognanco - Piazzale Giannini, 1

28842 Bognanco Terme (VB)

Oppure all’indirizzo mail premiobognanco@libero.it, allegando oltre alla scheda di partecipazione due file formato word, uno anonimo e l’altro contenente i dati dell’autore.

  • Il concorso è gratuito e non prevede alcuna tassa di lettura. Gli elaborati non verranno restituiti. Possono partecipare al Premio tutti i poeti e scrittori in lingua italiana, anche se residenti all’estero.
  • E’ ammessa la partecipazione a più sezioni.
  • Tutti gli autori premiati e segnalati saranno avvertiti per tempo, telefonicamente o tramite e-mail. I premi dovranno essere ritirati direttamente dai vincitori o da una persona delegata durante la premiazione. Non verranno in alcun caso spediti. Nel caso in cui l’autore e nessun delegato potranno presenziare alla cerimonia, il premio verrà declassato. Non possono più partecipare, nella sezione in cui sono risultati vincitori, i primi classificati delle precedenti edizioni.
  • La cerimonia di premiazione si terrà, in data da stabilirsi, a Bognanco Terme, alla presenza della stampa. Le opere premiate verranno lette durante la cerimonia da parte di un dicitore o dell’autore stesso.
  • I membri della giuria, il cui giudizio è inappellabile, verranno resi noti durante la cerimonia di premiazione.
  • Ogni autore risponde dell’autenticità dei lavori presentati ed è consapevole che false attestazioni configurano un illecito perseguibile a norma di legge. L’organizzazione non assume responsabilità per eventuali plagi. Le opere potranno essere escluse dal concorso se non rispecchiano i temi richiesti.
  • La partecipazione al concorso presuppone la tacita accettazione da parte degli autori delle norme di cui sopra, della diffusione del loro nome in ordine al premio vinto e della pubblicazione gratuita, e senza compensi agli autori, degli elaborati premiati nell’e-book della Mnàmon.
  • L’organizzazione si riserva il diritto di modificare il regolamento in presenza di cause di forza maggiore.

PREMI

I premi consisteranno in targhe e diplomi.  Per info : premiobognanco@libero.it

Il Presidente della Giuria      Il Segretario del Premio

Elisa Contardi                             Monica Mancini

 scheda bognanco

Sandra Marzorati: pittrice e poetessa “nel fondo del cuore”

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Da anni conosco la pittrice Sandra Marzorati e in più occasioni ho ammirato le sue opere in mostremarzorati 8 personali o collettive. Non sapevo, però, che scrivesse anche poesie. Infatti, incontrandola di recente, mi ha fatto dono della sua raccolta di liriche fresca di stampa: “Nel fondo del cuore(I.R.D.A. Edizioni, Martina Franca - pag. 60 - € 10). Nella prefazione, Francesco Luca Santo scrive: “I versi sono accennati, sussurrati, sono perle di saggezza e amore. Non c’è sbavatura nello stile, non c’è contraddizione, tutto è, perché è il talento a crearlo”.

L’autrice, appunto, sa recepire ogni sollecitazione, ogni sfumatura del mondo che le sta attorno, e riesce a cogliere con la propria interiorità i versi che si piegano a un canone di sonorità e di bellezza. Ecco che allora le sue liriche scorrevoli non lasciano spazio a parole forbite, ma con efficacia Sandra sa trasmettere le proprie emozioni: <Calpestando l’asfalto/ nel respiro ignorare/ l’affanno dei passi// per non sfiorare, nella folla intorno,/ l’umanità delusa// Derisione, senza pudore,/ di noi che non vediamo/ dove siamo> (da “Fuga”).

Ci sono poi immagini frutto di un’attitudine pittorica che si mescolano a quelle di un vissuto interiore di riflessioni, nate quando: <Nel soffio freddo/ sibilava il silenzio/ solitudine ottusa/ come una lama vuota.// Prigioniera una speranza/ senza appigli sgocciolava/ il tempo senza storia/ immobile, perso>.

marzorati 6Tuttavia mi pare, ‘nel fondo del cuore’, che sia l’amore il leimotiv di queste composizioni brevi e delicate, perché come sostiene Sandra: <<Nella coscienza di sé, in armonia con l’universo, il dono dell’inaspettato emerge, misteriosamente>>. L’amore, infatti, è un bisogno, una necessità; un sentimento che trasforma, che rende il mondo più bello di quanto abbiamo sempre sognato, anche se poi svanisce nel nulla come un’illusione: <Ti riconobbi subito/ ti accolsi con un grido/ tramutasti in gemiti/ la mia attesa,/ in un vuoto, senza appigli,/ il caldo impulso dell’amore./ Persa guardo oltre il limite/ un sole che non brucia>.

Per ricordare che Sandra è anche pittrice e, dopo qualche accenno biografico,  per poi parlare di lei in tale veste, riporto questi suoi versi: <Le tele ammucchiate,/ in fila, lungo la parete/ stanno in silenzio/ getti di colore e sagome nere/ dagli inconsapevoli destini>.

 Sandra Marzorati è nata a Milano, dove ha conseguito il diploma al Liceo Artisticomarzorati 2 “Beato Angelico” e in seguito la laurea in Architettura al “Politecnico”. Dopo aver insegnato alcuni anni disegno e storia dell’arte alle superiori, decide di dedicarsi a tempo pieno alla sua passione pittorica. Dipinge da sempre, ma espone solo verso la fine degli anni Ottanta, con una serie di mostre in diverse città italiane. Risale al 1996 il primo approccio con le installazioni che la porterà anche verso una scultura minimalista fatta di forme assemblate. In seguito, la sua pittura, dal tocco spatolato e dal cromatismo materico, diventa la ricerca delle “città che si destrutturano” nel fluire magmatico del tempo. È del 2006 la prima opera presentata alla Permanente di Milano, nella rassegna dei soci “Ventipiucento”. Seguono altre sue esposizioni: l’istallazione “Il raccolto” all’Umanitaria per “Arte da Mangiare”, una personale al cinema Apollo di Milano e un’antologica al marzorati 3.jpgCircolo Filologico Milanese. Nel febbraio del 2011 una sua opera è in mostra al Museo Nazionale di Belgrado, selezionata per un’asta, con artisti internazionali, tra essi Mimmo Paladino, Sandro Chia, Ana Adamovic. Ha poi allestito personali, tra le altre a Venezia, Roma, Innbruck e Milano (nella storica “Galleria degli Artisti”). Di recente è entrata a far parte del movimento internazionale “Neutral-ism” di Francesco Perilli. Sandra, inoltre, integra la sua attività occupandosi di ricerche e approfondimenti legati alla storia dell’arte; scrive racconti, poesie e collabora con rubriche o inserti culturali a vari periodici.

La mostra in cui Sandra Marzorati arriva a una visione delle “città che si destrutturano”marzorati 12 (il suo ciclo di opere più significativo) è quella proposta nel 2013 al “Museo della Permanente” di Milano “Anime, volti e città destrutturate”, presentata da Mario Quadraroli. In queste opere, alcune solari altre un po’ inquietanti, l’autrice dipinge megalopoli apocalittiche che si disfano in altri assesti di spazi e luci, riciclandosi poi in una diversa energia cosmica. Scrive Massimiliano Porro: “La sua Città Cosmica conserva il sapore antico delle architetture classiche, tra cielo e terra, mentre riverbera uno specchio d’acqua a ricordare la laguna, origine di Vita. Uno spazio costruito da pennellate anche ruvide ma dense di desideri, paure, sentimenti roboanti”. In effetti, nei nostri agglomerati urbani si vive accatastati tra mura di cemento, in una malinconica solitudine che spesso si trasforma in una strisciante e permanente depressione.

marzorati 7.jpgDepurate dalle scorie della rappresentazione, le sue tele paiono geometriche astrazioni, con un centro dentro uno sfondo informale e su queste aree pittoriche si adagiano un colore materico e forme metafisiche con una spinta segnica dinamica. Da simili immagini spesso raggianti, con nette campiture cromatiche, pare di scorgere un mondo dentro un vortice in equilibrio oltre il caos e oltre il nostro tempo spazio, dove gli esseri umani, per altro assenti, sembrano apparire negli intrecci fitti e nel luccichio sfavillante dei campi gravitazionali che le attraversano. <La bellezza salverà il mondo> da <una nuova Babele>? Si chiede l’artista.

A questo punto viene da considerare una Sandra Marzorati che concentra sulle tele valori interiori emotivi, i valori della sua poesia che <cresce dentro l’anima [come] un piccolo fiore… a sorpresa>.

Giuseppe Possa

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“Rime colorate” di Giuliano Crivelli

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DOMODOSSOLA – Nuovo volume riepilogativo della pittura di Giuliano Crivelli, “Rime colorate”, che contiene opere dipinte dal 1962 al 2018, edito da Studio d’Arte Lanza di 46759382_10218608094812408_2570313239736877056_nIntra Verbania e stampato a Domodossola da Printgrafica Pistone (cento copie contengono anche una serigrafia numerata e firmata dall’autore). Questo catalogo non è dedicato a un’unica tematica, ma i 75 quadri raggruppano, come in una piccola antologica, fatti ed emozioni legate a espressioni diverse tra loro, come l’arte figurativa e quella musicale, a lui tanto care e che lo hanno appassionato per tutta la vita. Aveva ragione Piero Chiara a scrivere che <Giuliano Crivelli, pare che abbia fatto sorgere sulla superfice delle sue tele i colori e le forme non col pennello, ma col suono del suo strumento incantatore. Sono infatti, le sue opere, sogni, allegorie, evocazioni pure, messaggi visivi richiamati dal profondo con mezzi di sottili e tenui melodie>. Ci dice l’autore, ancora vulcanico e in perfetta forma nonostante i suoi 83 anni: <Nel raccogliere e ordinare le tavole che ho scelto fra tante altre per questo libro, ho intrapreso un viaggio nel tempo, facendo riemergere nel mio animo momenti vissuti, indelebili, che mi sono sembrati eternità, una emozionante rotta di navigazione puntata sulla luce rassicurante di un faro che mi guida sin dall’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso>. Era il periodo in cui frequentava la Scuola di pittura del maestro Nino Di Salvatore a Domodossola e nel frattempo si diplomava in flauto presso il Conservatorio IMG_4096[1]di Venezia. Così, forte di questa duplice esperienza formativa, negli anni Sessanta visse un periodo memorabile e irripetibile, discostandosi, però, dall’uniformità e dalla monotonia dei binari conformistici dei tempi successivi. Nella sua sessantennale attività pittorica, mai imitativa, si è sempre affidato alla propria inclinazione di racconto, all’amore per la natura che gli offriva ogni giorno la possibilità d’ispirarsi alla terra e all’acqua, al fuoco, al cielo e al vento. Crivelli è sempre apparso originale e legato soltanto al suo intimo profondo: è per questo che le sue ricerche ricche di evocazioni e fantasie immaginative brillano ancora oggi attuali in queste pagine, per la bellezza tecnica e per le sue tematiche dipinte in una visione di segni e colori poetici. Lo dimostrano sia le opere figurative iniziali (da “Il passaggio del Sempione” alla  serie degli “Atelier”), sia le successive più astratte (dalla “Città che cresce” ai diversi “In cammino”, dai “Jazz metropolis” agli “Strappi di muro”), fino alle recenti, dove residui informali lasciano spazio a forme tenui di fiori, insetti, farfalle, alberi e altri elementi della natura.

Giuseppe Possa

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