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LE SCULTURE LUMINOSE DI FRANCA FRANCHI

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La mostra di Franca Franchi inaugurata nello “Spazio Bertani 6” di Milano va vistaIMG_9040 FF 1 nell’ottica di un recupero degli oggetti scartati e riciclati sotto altra forma, alla ricerca di una bellezza asimmetrica, diversa da quella essenziale e rigorosa degli schemi classici. C'è luce, spiritualità, lirismo caleidoscopico, in queste sue ultime composizioni disarmoniche e atipiche. <<Illuminare e portare nelle tenebre è principio pragmatico dell’opera d’arte, la quale viene ad assumere caratteristiche positive o negative al tempo stesso, caratteristiche che rientrano in quella che possiamo considerare l’estetica Zen>>, così scriveva Gillo Dorfles a proposito della scultrice piacentina, giunta alle sue opere attuali attraverso poetiche orientali.  

Costruzione_2016_franchiSi tratta di creazioni realizzate con recuperi di specchi, vetri, cristalli e acciaio, sovente frantumati o venati e riciclati, meglio rianimati, in sculture illuminate; oppure gioielli da indossare (piccole composizioni di paste vitree, montate su fili in acciaio); o tavole ridisegnate (simili a collage), spesso con materiale specchiante e spezzato in tanti pezzi a simboleggiare l’acqua e il suo potere magico ed evocativo. Tutti i suoi lavori, nell’originalità degli accostamenti, danno vita a una diversa realizzazione scaturita dalla sua fantasia ricca e vivace. Naturalmente questo processo estetico, ricomposto in chiave informale di grandeLa_via_DSC1184 suggestione, è sprigionato da una profonda riflessione, che attraverso la meditazione o l’illuminazione di un istante, ha condotto Franca a una crescita umana e mistica, dentro cui ha colto l'essenza più intima della natura e della bellezza. Questa piccola antologica di lavori tridimensionali e dal forte impatto simbolico, spesso in grado di trasmettere un senso profondo di serenità, vuole offrire anche a noi occidentali la possibilità di accedere a quella dialettica Zen - a quell’arte dell’Oriente - che sa spingersi oltre le visioni consumistiche del mondo in cui viviamo.

È stato il compianto maestro, critico di vasta fama, Gillo Dorfles a riconoscere nello stile della Franchi la matrice Zen, individuando appunto nella sua opera l’ispirazione di questa scuola giapp14796206_1422612727767273_1184799823_oonese di spiritualità. Su questa dinamica simbolica si è poi sviluppata tutta la successiva ricerca artistica della scultrice, in una contaminazione culturale tra Oriente e Occidente, frutto di pregnante sintesi di pensiero e immagine, dove i rifiuti consumistici trovano il loro riciclo. Come scrive Roberto Tagliaferri, occorre saper pure trarre <scintille di luce anche da materiali abbandonati>; poi il critico, parlando di questa estetica del bello dell’autrice, conclude: <Franca Franchi sa declinare la denuncia di un mondo soffocato dalle sue monnezze con l’eleganza di chi sa reiventare scarti come affascinanti opere d’arte>.

Giuseppe Possa


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In occasione dell’uscita nel 2010 del catalogo generale delle opere di Franca Franchi a cura di Paolo Levi, la incontrai e la intervistai:

 Da dove nasce “l’esplosione di luce” di Franca Franchi?

È la pittrice stessa a raccontarsi, parlando della sua passione per l’arte. Fin da bambina (è nata a Piacenza nel 1961) scriveva poesie, guardava il cielo e dipingeva paesaggi con i pastelli. Durante gli studi superiori, partecipa a concorsi, anche con successo, tanto da ottenere un premio dall’Ente per il turismo, alla galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi. Terminato il Liceo classico, Franca Franchi si laurea in Giurisprudenza a Parma e da oltre vent’anni esercita la professione di Avvocato (vive e opera in una città della provincia di Piacenza). In questo lungo periodo si dedica solo saltuariamente all’arte, anche se negli anni Novanta si esprime con la creazione di ambienti realizzati in dimore di varia tipologia. Solo nel 2008, però, in seguito a una traumatica e dolorosa vicenda personale, la sua vena artistica esplode con forza dirompente. Esplorandosi interiormente, trova una nuova dimensione spirituale che le permette di conoscersi meglio. Per caso o, come sostiene lei per “la Magia dellaCristallo_d_acqua_2009_Frammenti_di_specchio_e_vetro_su_tavola_130x185_cm-3x2 vita”, le capita tra le mani un libro di Masaru Emoto, intitolato “Il miracolo dell’acqua”, che contiene una tesi affascinante e bellissime immagini di cristalli d’acqua. Rimane folgorata dalle fotografie e dal pensiero di questo scienziato-filosofo giapponese. <<Egli ritiene - afferma Franca Franchi - che le parole dell’uomo costitute da vibrazioni e, in ultima analisi, da energia (“tutto è Energia” diceva Einstein) influenzino anche l’acqua. Se positive, determinano la composizione di cristalli armoniosi ed equilibrati, nel senso che la particella d’acqua in fase di congelamento, influenzata da parole positive, si trasforma in un cristallo che assomiglia a un gioiello, quasi uno Swarovski. Le parole negative determinano viceversa la nascita di cristalli deformi, disarmonici>>. Le foto che la impressionano sono i cosiddetti cristalli positivi, fotografati su fondo nero, dai quali emergono lucentezza, forma armonica incredibili e prosegue: <<Mi sono detta ‘li devo fare’. Come ho già dichiarato nell’intervista rilasciata a Fabio Bianchi, non ho la competenza per valutare la fondatezza scientifica di tale tesi affascinante, ma sono profondamente convinta dell’esistenza della “Legge universale dell’attrazione”, nel senso che ritengo che il pensiero positivo ne attiri un altro positivo, Taisho_DSC_0812l’azione positiva un’altra positiva e la parola positiva un’altra di tale carattere. Lo sviluppo teorico e scientifico relativo all’influenza esercitata dalle parole, dai suoni e dalle voci sull’acqua, operato da Emoto, rappresenta, a mio avviso, una diramazione di tale legge universale, legge conosciuta e praticata già nel passato da eminenti personaggi quali Buddha, Martin Luther King, Madre Teresa di Calcutta, recentemente riscoperta e studiata nel mondo occidentale, in particolare da ricercatori americani>>. Da qui, dunque, sorge la sua ispirazione. Non potendo utilizzare il ghiaccio, Franca pensa a vetri e specchi. Inizia così a frantumare a mani nude e senza alcuna protezione il materiale di scarto dei vetrai, ossia lastre o pezzi di vetro e specchio non più utilizzabili, colorati e non, scarti che, per luminosità e lucentezza, erano adatti a rendere la luce caratteristica dei cristalli del testo giapponese e a formare composizioni tese a rendere l’armonia presente in quelli fotografati, dando inoltre un significato e un contenuto nuovo agli “scarti” stessi. <<Ho creato tutti i cristalli positivi contenuti nel libro – prosegue nell’intervista - e poi sono andata avanti con la fImparare_a_vivere_2015_Frammenti_di_specchio_e_cristallo_su_cristallo_con_base_in_cristallo_75x50x23_cmantasia realizzando composizioni sia in forma di quadri che di installazioni, che ho chiamato “cristalli”, “i miei cristalli”. Ho iniziato ad allestire mostre, spiegando le linee concettuali e le caratteristiche delle opere, cominciando così una ricerca e un percorso che sta diventando sempre più importante. Gran parte dei cristalli sono realizzati su tavole in bilaminato nero, ciò per dare più risalto ed efficacia alla luce del materiale impiegato. Utilizzo in alternativa, come base dell’opera, cristallo e specchio, componendo quindi sulla trasparenza ed eseguendo anche, per dare colore e luce, oltre allo specchio, la pittura dei frammenti>>.
La sua è un’arte immediata, spontanea; non realizza, infatti, né schizzi né disegni preparatori. Abbandonato il riferimento ai cristalli d’acqua di Masaru Emoto, ora le sue composizioni - ormai di propria e autonoma vena compositiva - nascono di getto, i pezzi si avvicinano tra loro come fossero calamitati e le sue mani si fermano quando, secondo il suo modo di percepire, la composizione risulta ben congegnata: <<Non potrebbe essere diversamente - prosegue - poiché i cristalli nascono dalla ricerca di una mia dimensione armonica. L’arte esprime sentimenti ed emozioni, questi possono essere positivi o negativi, personalmente, attraverso l’arte, cerco di trasmettere e ricevere emozioni positive. Come implicitamente risulta da quanto già detto, non ho avuto alcun riferimento artistico, né in Senza_nascita_n_morte_solo_cambiamentomaestri del passato né in tendenze o movimenti contemporanei, cerco solo di essere me stessa e di seguire un dettato che mi viene da dentro>>. Sorge da qui la sua rinascita spirituale che le ha cambiato radicalmente la vita: <<Seguendo i miei “cristalli” - conclude - frequento ambienti diversi rispetto a quelli della mia professione di avvocato e, più in generale, a quelli di prima. Sono cambiati i miei rapporti umani e il modo di rapportarmi con tutto ciò che mi circonda. Ora i frammenti di specchio delle mie opere mi restituiscono una persona diversa>>. Vengono così alla luce - come onde vibranti che lievemente increspano la superficie trasparente del cristallo - composizioni di profonda interiorità artistica e mistica, frutto di una fantasia delicata, vivace e sensibile. Lavori insoliti, ma colmi di poesia, che ci invitano a meditare e riflettere, restituendoci frammenti di noi stessi.

Giuseppe Possa


CAM – Catalogo dell’Arte Moderna 54

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Gli artisti italiani dal primo Novecento a oggi - Il più atteso appuntamento per il mondo dell’editoria d’arte contemporanea, uno strumento indispensabile per artisti, galleristi, collezionisti e appassionati d’arte - Cairo Editore (Editoriale Giorgio Mondadori), Milano.


FB_IMG_1545125355853.jpg<<Un numero, innanzitutto: 1000. Tante sono le pagine di questa 54° edizione del “Catalogo dell’Arte Moderna”, un risultato oltre ogni aspettativa, prova tangibile dell’apprezzamento ricevuto dagli artisti, dagli operatori del settore e dai lettori, consapevoli dell’importanza di un volume che dal 1962 presenta una fotografia realistica del panorama artistico italiano>> così inizia la presentazione di Carlo Motta, responsabile editoriale del CAM, sicuramente lo strumento divulgativo e conoscitivo più importante oggi a livello nazionale.

 Non solo per gli addetti ai lavori (artisti, galleristi, operatori culturali, critici, e collezionisti), ma anche per associazioni e appassionati, poiché illustra in modo puntuale e rigoroso il variegato panorama dell’arte, partendo dall’inizio del XX secolo fino a oggi, attraversando l’intero repertorio della produzione contemporanea in tutte le sue espressioni, figurative, astratte e informali. Un appuntamento tradizionale che dà alle stampe un catalogo annuale dedicato al mercato dell’arte contemporanea ed è pubblicato con il marchio Editoriale Giorgio Mondadori all’interno del gruppo Cairo, confermandosi la più longeva pubblicazione di genere in Italia.

E’ un’opera di grande interesse per chi segue, ma anche per chi si accosta all’arte italiana per la prima volta; si è sempre rinnovato anche graficamente (arricchito pure da un inserto su “La lunga strada della Fotografia” di Alessia Locatelli); possiede un impaginato di facile consultazione, un ricco apparato iconografico e il rigore dei testi critici, curati da Giovanni Faccenda consulente editoriale e fondamentale figura di riferimento dell’annuario, dai critici Giammarco Puntelli, Daniela Brignone, Lorena Gava, Mario Guderzo, Daniela Vasta, Claudia Trafficante, Licia Oddo, Leopoldo Paciscopi, Andrea De Liberis, Lia Bronzi e da altri (tra cui Giuseppe Possa), che hanno collaborato alla stesura dei numerosi contributi che arricchiscono l’intera opera.

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La copertina del Catalogo è dedicata a Sergio Scatizzi pittore che ha reinventato il paesaggio, come scrive Giammarco Puntelli nella nota critica. La prima sezione presenta i grandi maestri del Novecento, con l’ingresso di Giuseppe Capogrossi, Antonio Donghi ed Emilio Vedova, insieme ad altri 17 indiscussi protagonisti del secolo scorso che il mercato internazionale continua ad apprezzare, come dimostrano le numerose battute d’asta in Italia e all’estero. Di ognuno sono pubblicati i dati biografici, la bibliografia essenziale, i prezzi, gli esiti d’asta, una scheda economico-finanziaria e l’immagine di una o più opere. La seconda parte propone l’attività dei molti artisti (ben 907 presenze, in ordine alfabetico) operanti dal secondo dopoguerra a oggi, con alcune informazioni essenziali: note biografiche, quotazioni, esposizioni, aste e opere.

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Alla fine, due inserti speciali: uno dedicato ai 50 anni dell’Accademia di Catania; l’altro alla pittura, scultura, grafica e fotografia del 27° Premio Arte (con i 40 finalisti e i vincitori dell’ultima edizione, suddivisi nelle quattro sezioni). Nelle pagine finali si trovano i consueti capitoli dedicati alle gallerie e gli ampi repertori di opere a colori. Ci confida Carlo Motta: <<Per 365 giorni, ogni anno i nostri esperti, i nostri collaboratori e i nostri consulenti ci aiutano a raccogliere e a “metter in pagina” le informazioni pubblicate, supportati dalla segretaria di redazione Anna Pascot. Un lavoro immenso, che non potremmo portare a compimento senza la fiducia e il sostegno degli artisti, i veri protagonisti di una bellissima storia che da tanti anni ci accompagna e che si chiama “Catalogo dell’Arte Moderna”>>.

Giuseppe Possa

gppos

 

 

 

Al Museo della Permanente di Milano: “Percorsi”

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Espongono Carlo Catiri, Giulio Crisanti e Alfredo Mazzotta fino al 20 gennaio 2019

CatturaSarà visitabile fino al 20 gennaio 2019 la mostra “Percorsi”, dedicata ai tre soci che hanno fatto parte nel 2017/2018 della Commissione artistica annuale della Permanente. Catiri, Crisanti e Mazzotta, presenti con una quarantina di lavori, tra sculture, dipinti e disegni, mettono in risalto ai visitatori (ho notato un pubblico da grandi occasioni all’inaugurazione di venerdì 14 dicembre 2018, presentata dal presidente Emanuele Fiano) i loro differenti “percorsi”.

Alfredo Mazzotta propone le sue “Sequenze sinuose (da Brera a Brera)”, una serie di85447-Alfredo_Mazzotta_Figura_in_contorsione_-_2010_-_Bronzo_patinato_cm_45h_x_60_x_30 opere dagli anni Settanta a oggi. Sono figure flessuose in contorsione, lavorate con maestria, grazia e rigore. La sapienza artistica di Mazzotta si concretizza proprio in queste composizioni raffinate di sinuoso effetto spaziale; in esse sono idealizzate e trasfigurate le forme, in una visione plastica ed elegante, in cui sono pure evidenti alcuni vincoli sentimentali e intellettuali. C’è una fantasia creatrice contemporanea, in questo autore affascinato da pensieri culturali, ma anche mitici, che evocano emozioni personali e lascia ai fruitori una gamma di significati in cui possono spaziare con la loro fantasia. Nato nel 1951 in Calabria a Nao, Alfredo Mazzotta, conclusi gli studi all’I.S.A. di alfredoVibo Valentia, si è stabilito a Milano diplomandosi all’Accademia di Belle Arti di Brera, in scultura con il Maestro Minguzzi (1973) e in pittura con il maestro Purificato (1977). Frequenta contemporaneamente il corso di cromatologia tenuto da Luigi Veronesi e di tecnologia dei materiali sotto la guida di Romano Rui. Per diversi anni è stato assistente dello scultore Eros Pellini sia al Liceo Artistico di Brera che in Studio. Dal 1975 al 2011 ha insegnato discipline plastiche al Liceo Artistico Statale di Brera. Numerose le mostre personali e collettive. Vive e opera a Milano.

Giulio Crisanti è nato nel 1932 a Frascati, ma completa gli studi e si forma2837 artisticamente a Roma. Espone dagli anni Sessanta e ha ottenuti diversi premi e riconoscimenti; è, inoltre, presente in molti musei pubblici e privati. Vive attualmente nella Brianza lecchese, dove ha ricoperto incarichi di Direttore Artistico di Fondazioni; è membro di importanti giurie e coordina la Raccolta museale “Spaziomandic curare con arte” a Merate, da lui stesso realizzata. Per vent’anni ha collaborato con le scuole statali del meratese. <<La mia ricerca - ci informa – è tutta tesa a individuare e rappresentare lo spazio dell’esistenza dove ogni piccolo e insignificante evento scatena il coinvolgimento e crea immagini… è la mia necessità interiore che mi crisantispinge a esprimere il mio sentire, a confrontarmi e comunicare per essere compreso>>. Pittore, scultore e ceramista, da sempre si è impegnato con la sua pittura a mettere in rilievo le disuguaglianze, i dolori, le incomprensioni, le ingiustizie e i conflitti sociali. Qui alla Permanente, Crisanti - considerando egli la storia e la cronaca come fulcro del suo fare artistico - analizza in “14 agosto 2018 – Zona a Traffico Interdetto”, il crollo del ponte Morandi a Genova, con la conseguente tragedia umana.

Carlo Catiri espone una serie di alberi all’interno di una natura silente, in cui i41La-nascita-di-Venere-2014-olio-su-tela-cm_80x100_modif-971x768 riguardanti si emozionano a contemplare una quiete avvolta in colori poetici che vibrano sulle composizioni con guizzo personale e con variabili rifrazioni luminose. Sono il sunto di una ricerca in cui l’artista si è impegnato in questi ultimi 10 anni, nell’osservare il nostro ambiente circostante in costante e rapido mutamento. L’autore, però, non si sofferma su una trasformazione negativa, bensì la elaborcatiria con una fantasia dagli effetti seducenti, a cui imprime un tocco lirico d’incanto. <<La nostra sensibilità - afferma - rimane disorientata e interdetta. Nulla o poco delle emozioni che percepiamo si sedimenta nella nostra memoria. Tutto rimane in superficie e i sensi si confondono in questo continuo fluire… Pertanto cerco una dimensione in cui il silenzio e la quieta contemplazione prendano il sopravvento>>. Carlo Catiri vive e opera a Milano, dove è nato nel 1953. Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Brera, ha poi insegnato Storia dell’arte allo IED di Milano, svolgendo in contemporanea la sua attività di pittore e critico d’arte.

Giuseppe Possa

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Presentazione del libro “IL MATTOBOSCO” di Stefano Paiuzza e Sylvia Matera (Alhena Editore, Torino)

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Sabato 22 dicembre 2018, ore 18, al “Caffè Rosmini (Arte e Caffè)” di Domodossola (via Rosmini 7) – Presenterà il volume il critico Enzo Nasillo.

48408401_10213821925606599_2941188527649456128_nLa serata d’incontro con gli autori è curata da Wide-Art V.C.O. diffusioni culturali e Caffè Rosmini (a concludere: cocktail’s delight by Piero Natalini, taste food by Cafè Rosmini e soundtrack di Funkj Tony dj e Listener dj). Presenta il grazioso volume "Mattobosco", molto curato graficamente, Enzo Nasillo di Torino, editore, critico d'arte, giornalista e Presidente di “Orizzonti Contemporanei” che nella prefazione scrive: <<Il Mattobosco ideato e prodotto in tandem da Stefano Paiuzza (autore della storia) e Sylvia Matera (che ne ha illustrato la vicenda), ripercorre attraverso i moduli della più fervida fantasia, quelli che sono le difficoltà che molti silentemente affrontano quotidianamente nella società contemporanea. Appoggiandosi all’artifizio letterario dIMG_E9074[1]el sogno, gli autori delineano parallelamente, tanto per mezzo della parola, quanto servendosi del supporto visivo, una vicenda aforismatica, all’interno della quale gli originali ed oltremodo particolari protagonisti divengono per il tramite del loro nome e del relativo comportamento, metafora di una condizione esistenziale, di uno stato d’animo, di una attitudine necessitanti di una più ampia comprensione>>.

La lettura è adatta a tutti, ma in particolare ai bambini e ai ragazzi, per la storia piacevole, scritta con un linguaggio semplice ma accurato e per le illustrazioni ben ambientate, disegnate con cura e precisione, che rendono il libro anche un’ottima strenna natalizia, in questo periodo imminente delle feste.

Ambientato nel “mattobosco” ai confini del mondo, come nella migliore tradizione delle IMG_E9071favole si narra di animali (wombat, cigno, tasso, volpe, istrice, orso ed altri) che sembrano manifestare gli stessi difetti di noi umani, sempre più depressi, narcisisti, schizofrenici, bipolari, iperattivi, aggressivi e così via. Tutti sembrano avere bisogno dello psichiatra della foresta: <<tutti coloro che sentono irrisolta la loro esistenza, complicate le loro relazioni, tutti coloro che sentono paura, ansia, inadeguatezza e tormento…>>. È la metafora del nostro strampalato mondo, in cui quando una persona ha qualche patologia, invece di essere aiutato a integrarsi è considerato strano, diverso o addirittura folle. Il tutto è visto, nel racconto, con ironia, con un sottile umorismo, perché non c’è salute del corpo senza salute della mente, ma <<chi non è pazzo non è normale>> afferma sorridendo lo strizzacervelli, allievo di Sigmund Fox.. e la "volpe" (il nome dice già tutto) poteva avere una parte migliore in questa gradevole favola, nella quale ogni lettore potrà trarre un proprio insegnamento, per affrontare le difficoltà dell’esistenza odierna nella nostra società?

(Se le illustrazioni sono tutte belle, una delle più simpatiche si trova a pag. 22, con l’orso bianco disteso sul bancone del bar che invita un wombat imbarazzato a bere qualcosa, mentre lì accanto un leprotto e una marmotta sono intenti a darsi teneri baci).

Stefano Paiuzza, autore del testo de “Il mattobosco”, è nato nel 1978 a Domodossola,stefano paiuzza.JPG dove vive e opera. È un educatore professionale in una comunità psichiatrica. Da sempre è appassionato alla scrittura e attratto dal cinema di genere e dalla “toy photography”. Ha collaborato con il mensile “Horror Time” e con il sito “Horror.it”. Nella sinergia fra musica, arte visiva e parole, prende vita e colore il suo blog “Il vco è un’espressione geografica”, nato da una sua omonima pagina su Facebook, dove pubblica racconti e piccole storie ambientate nel VCO, ma pure in altre città o luoghi di fantasia.

Sylvia Matera, autrice delle stupende illustrazioni de “Il mattobosco”, è nata a Parigi nel 1978 da una famiglia di origine italiana. Ha conseguito presso la capitale francese il diploma di modellista nell’ambito del design creativo collegato all’abbigliamento. Da ragazza veniva in villeggiatura a Santa Maria Maggiore, nella casa del nonno, che era originario della Valle Vigezzo, e qui ha incontrato il marito Carmine Gabriele (a lui la pittrice nel libro dedica parole amorevoli: “senza il suo determinante aiuto non sarei arrivata dove sono, conscia e grata del fatto che, quando la strada si fa insieme, il cammino non solo risulta essere meno tortuoso, ma decisamente più esaltante”).

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Sylvia è un’artista autodidatta, ma con una grande passione per il disegno, attitudine coltivata fin da bambina, che nel suo percorso di vita l’ha portata prima al lavoro di modellista nel settore abbigliamento a Milano e in seguito alla pittura. Dopo aver esposto in collettive importanti, ha allestito alcune personali ed è stata insignita del primo premio ai concorsi di Trontano e di Pettenasco nel 2015. L’artista, attualmente residente a Crevoladossola (VB), ha trovato nell’iperrealismo la forma di espressione più efficace per rappresentare i suoi soggetti nel minimo dettaglio: ritratti, paesaggi dalle atmosfere ammalianti, scene di vita, nature silenti, oggetti inanimati. A prima vista sembrano il lavoro di un abile fotografo, ma in realtà sono opere realizzate con varie tecniche (matite, acrilici, pastelli) solo con la propria mano ferma e talentuosa, in immagini di un verismo nitido e preciso, esaltate e calibrate con geometrica precisione, sia nella stesura della rappresentazione ottica sia nella riflessione speculare della realtà.

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In questi ultimi periodi ha ottenuto, tra gli altri numerosi riconoscimenti, il Premio “Vette d’Arte” con il dipinto “Alfetta GT” e contemporaneamente il premio della “Giuria popolare” con il disegno “50 sfumature di grigio” a Sestriere (TO). Ha vinto, inoltre, un concorso su internet indetto dai fumettisti Don Alemanno e Boban Pesov, con una foto artistica che è stata riportata all'interno del loro ultimo fumetto satirico "NaziVeganHeidi". In questo mese è stata invitata come disegnatrice ufficiale al Lingotto Fiere durante l'evento "Xmas Comics" a Torino. Ha partecipato alla 5 Fiera Internazionale "Xmas Comics 2018" e alla Rassegna Artistica Internazionale "Magic Art 2018". Abile e talentuosa a dipingere su qualsiasi superficie, Sylvia Matera è stata inserita nel ristretto novero degli artisti scelti per il Calendario 2018 di “Orizzonti Contemporanei” (Alhena Editore) con la tela intitolata “Alfetta GT”: “nella quale maestria e padronanza tecnica riconducono la fedeltà delle cromie nell’alveo del segno”.

Giuseppe Possa

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G. Possa in un disegno a matita di Sylvia Matera

Chiara Pelossi Angelucci: “Un’improbabile cacciatrice d’indizi” (Gabriele Capelli Editore, Mendrisio - CH)

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C’è un avvincente “giallo”, anche se non è stato commesso alcun delitto, in questo nuovocover-pelossi-web-gce romanzo di Chiara Pelossi Angelucci, ricco di intrighi, colpi di scena, ambigui segreti e doppi giochi,

Succede che Ilde, detective improvvisata, si trovi a indagare su un caso misterioso di lettere diffamanti, scritte per screditare un’attrice sulla via del successo: ma spedite da chi e per quale motivo? Un intreccio complicato, che sarà districato proprio da lei, la protagonista di “Un’improbabile cacciatrice d’indizi - lettere misteriose. Ilde è un’ultratrentenne single, un po’ pasticciona e sognatrice, con lavoro precario e non ancora pienamente realizzata nella vita, in continuo conflitto coi genitori “elicottero”, ma che si trova ad ereditare dallo zio Nello una piccola agenzia investigativa. La giovane decide di accantonare le sue inconcludenti ambizioni e di mutare le proprie abitudini, per impegnarsi con determinazione, seppure priva d’esperienza, in questa professione, senza la più pallida idea di come ci si muova in un simile ambiente. A conclusione, però, il lettore si troverà davanti a un finale da lei risolto a sorpresa, con sul banco non solo i fatti, ma anche la loro interpretazione, con un colpevole del tutto inaspettato e un epilogo teneramente comico.

schermata-2018-11-12-alle-09-05-26Abilissima nel catturare il lettore nella storia e brava a “dipingere” le persone fisicamente ed emotivamente con quel suo inconfondibile tono ironico, senza contare la capacità descrittiva dell'ambientazione, l’autrice racconta in modo esilarante simpatici e stravaganti personaggi: a partire da  Carmen, amica e confidente di Ilde, o da Alan, attraente e scanzonato, davanti a cui Ilde sente tremare non solo le vene e i polsi, fino a Suor Ignazia che svolge la sua missione tra arzilli vecchietti e attempate signore pettegole e saccenti; da Aldo, intrigante in tutti i sensi, con quel suo intercalare “se mi capisci”, a Gaia Montani su cui cadono non pochi sospetti, solo per citarne alcuni. Fino alla conclusione, le pagine risultano vive e scorrevoli, sempre deliziose, irte di battute spassose e con “stuzzicanti” spunti di riflessione, sostenute da un umorismo a volte allegro a volte spiritosamente inquieto.

Chiara Pelossi Angelucci è nata a Domodossola nel 1974, ma da più di trent’anni vive in Svizzera a Tenero col marito Massimiliano e i figli Noa e Anna. Aveva già dato allevendo-libri-chiara-pelossi-angelucci-1103007813 stampe due romanzi, scritti con un sorriso disarmante durante il dramma della sua piccola, colpita appena nata da una lunga malattia: un calvario che è stato superato con la tenacia, la speranza e un umore brioso, nonostante il grande dolore dei genitori. La storia, che aveva improvvisamente sconvolto la sua famiglia, fu poi romanzata nel libro autobiografico “Cento lacrime mille sorrisi”, pubblicato da “Sperling & Kupfer Editori” che ha avuto un grande successo di pubblico e di critica. Prima di questa fatica letteraria, “Un’improbabile cacciatrice d’indizi - lettere misteriose”, era apparso in libreria, sempre per i tipi di “Sperling & Kupfer”, “La felicità mi aspetta (e questa volta non farò tardi)”, scritto con brillante ironia e sottile umorismo. Chiara coltiva anche la passione per la cucina naturale (“pasticcera della natura” come si definisce) e sotto questa veste è impegnata come foodblogger, insegnante, autrice di ricette e speaker radiofonica.

Giuseppe Possa

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(G. Quaglia, C. Pelossi, G. Possa)

 

Per Informazioni:

www.gabrielecappellieditore.com info@directions.ch http://www.chiarapelossi.com www.cavoliamerenda.ch

Il calendario 2019 della Autoservizi Comazzi con le fotografie di Carlo Pessina

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E' un calendario d’alta qualità e realizzato con autentica professionalità, quello calendcomazziapprontato per il 2019 dalla Società Comazzi, con sedi a Domodossola, Omegna, Borgomanero. Facilmente consultabile perché di ampio formato con i mesi e i giorni della settimana ben in evidenza, la pubblicazione è plastificata e accompagnata con suggestive immagini, le quali oltre a rendere un buon servizio pubblicitario per questa Azienda di Autoservizi, mettono in risalto le bellezze del Verbano Cusio Ossola e del novarese.

 

Occorre dare atto all'imprenditore Carlo Galli (terza generazione alla guida dell’Impresa familiare, di cui è presidente e amminicarlo_galli_carlo_pessinastratore), che ha dato alle stampe questo calendario, ha una lungimiranza e una grande passione per il territorio, poichè in esso promuove, attraverso un viaggio di 12 tappe più la copertina, anche lo splendido scenario sul quale viaggiano i suoi moderni pullman aziendali. Attraverso le stupende e professionali inquadrature di Carlo Pessina, mese dopo mese, passano sotto i nostri occhi e si lasciano ammirare - oltre la presenza costante dei bus portati appositamente per essere inseriti nelle scenografie - località caratteristiche e scorci paesaggistici in ambienti suggestivi della natura, colti nel clima del mese cui si riferiscono, come le cascate del Toce, la Galleria del Sempione, il Castello di Proh o l’isola S. Giulio a Orta e altre meraviglie dei nostri luoghi.

Le istantanee sono state prese da terra o dall’alto, nelle quattro stagioni, ognuna coisempione com propri colori e le proprie atmosfere da un maestro della fotografia che di quest’arte ha fatto la sua lunga professione e, infatti, questo calendario può anche essere considerato da “raccolta”. Carlo Pessina, è nato a Domodossola nel 1939, dove risiede e opera dal 1955. Nel corso degli anni ha creato un archivio immenso di immagini in bianco-nero, a colori e poi in digitale. Ha collaborato a riviste, giornali ed Enti; ha ottenuto premi e riconoscimenti. Pessina, inoltre, per dare maggiore impulso e professionalità, con riprese più incisive e uniche, alla sua arte fotografica, nel 1972 ha conseguito il brevetto di pilota Aviazione Italiana.

Lo scorso anno, per celebrare i cento anni, dal 1917 al 2017, dell’attività creata dalla sua copertgalli1famiglia, Carlo Galli e il figlio Nicolò avevano pubblicato un corposo volume (sempre con le immagini del decano dei fotografi ossolani), <<Comazzi Srl (dalle risaie ai laghi alle alpi in viaggio da cent’anni)>> che - oltre a documentare, con suggestive immagini, la storia di una celebre Azienda di Autoservizi e della propria “ragnatela” di linee per corse giornaliere e per quelle di viaggi organizzati - appare come un catalogo delle bellezze del Novarese e del Verbano Cusio Ossola, lungo le strade delle valli alpine, dei laghi e delle risaie percorse dai bus della Comazzi. Inoltre, una volta l’anno la Società distribuisce un periodico di bordo,IMG_91201-1.jpg “Comazzi: Bus la rivista” (Direttore Responsabile: Raffaele Frassetti), che informa e illustra la propria attività con le fotografie di Carlo Pessina. Al primo numero hanno collaborato Teresio Valsesia, Lucio Pizzi, Giandomenico Albertella, Manuela Miglio, Lara Pessina e Christian Chierico. L’Amministratore Delegato Carlo Galli nella presentazione asserisce che: “Lo scopo della rivista è di portare a conoscenza i nostri clienti delle novità e degli sviluppi aziendali, e naturalmente pubblicizzare le zone dove operiamo, troverete alcune interviste rilasciate da amministratori locali, amministrazioni scolastiche e aziende del territorio, ma soprattutto per scelta tanto materiale fotografico”. Il periodico è distribuito gratuitamente agli esercizi turistici, agli enti e naturalmente nei porta riviste e nei retro schienali degli autobus.

Giuseppe Possa

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C. Pessina e G. Possa
Sopra Carlo Pessina è con Carlo Galli

Armando Tomasi: all’orizzonte, luce

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Alla memoria del padre, scomparso nel 2015, il figlio Marco ha curato il catalogo, con testi di Martina Corgnati, che ha accompagnato la rassegna (un’importante mostra antologica) dedicatagli dal Comune di Roè Volciano (BS), paese in cui nacque e operò l’artista, figura significativa dell’astrattismo italiano.

image Quando a vent’anni (era nato a Roé Volciano nel 1940), Armando Tomasi entrò all’Accademia Carrara di Bergamo aveva già un bagaglio pittorico notevole. Talento naturale, da ragazzo frequentò lo studio di Gregorio Sciltian e di Piero Manenti che lo prese a “bottega”, insegnandogli la tecnica dell’affresco e della pittura murale. Fu, poi lui, a indirizzarlo all’Accademia, sotto la guida di Trento Longaretti (con cui, in seguito, collaborerà alla realizzazione di numerosi affreschi) e dove seguì le lezioni di Pizzigoni e Angelini.13912851_1372579182756622_8782872693620104769_n.jpgDalla fine degli anni Sessanta entra in contatto con molti dei più noti artisti italiani (tra gli altri: Carpi, Funi, De Chirico, Korompay, Fontana, Kodra, Crippa, Vago, Reggiani, Giunni) e inizia la sua proficua attività, con una vasta produzione di opere che gli hanno permesso di ricevere numerosi premi e riconoscimenti. Elencare le personali, le collettive e le numerose pubblicazioni dedicategli, nella sessantennale carriera artistica, è impensabile in questa sede, dal momento che nel corposo volume antologico (con i testi di Martina Corgnati e i saggi di alcuni tra i migliori critici italiani) occupa ben otto pagine (ricordo, comunque, che con “Maestri del mondo” espose a Roma, Parigi, Tokio, Osaka, Londra e New York).

All'inizio, padrone di tecnica e di un personale stile, Tomasi segue la tradizione e il rigore della pratica, del mestiere, senza speculazioni intellettuali. Dipinge paesaggi,13770312_1368600213154519_8244436651679468435_n.jpg nature morte, ritratti, sperimentazioni sulle figure e sul nudo, in modi classici, ma semplici e liberi da elementi pleonastici, con cromie sovente opache, spente, sebbene non manchino i colori brillanti e luminosi. Un primo spiraglio per allontanarsi dall’atmosfera di studio, gliela offre un viaggio a Parigi. Nel fermento di quegli anni, la capitale francese gli mostra un’altra visione dell’arte che gli fa cambiare e modificare la prospettiva della propria ricerca. La strada dell’astratto, dell’informale, lo spinge verso una sua pittura di forme che restano nel vago, prendono luce e si allontanano dalla natura. Pur tenendola, nei primi momenti, in filigrana, aspira a riflettere più sulla “natura” interiore delle cose. Sarà così spinto a strutturare superfici in cui le forme materiche sembrano vagare nello spazio, come uomini perennemente tesi all’infinito.

Terminata la fase sperimentale, negli anni Settanta (ormai trentenne, già sposato e con Elisa in arrivo, la prima di 5 figli) la sua attività espositiva, coronata da riconoscimenti di critica e 13697240_1358448744169666_4876960823099194386_ndi pubblico, si fa intensa. Non si allontanerà mai, però, dal paese d’origine (dove morirà, dopo breve malattia nel 2015) per stare accanto alla famiglia, salvo in occasioni di mostre e convegni o manifestazioni e incontri artistici. Collabora con “Arte Struktura” ed entra a contato con le avanguardie e con le tendenze astratto-geometriche. In questi connubi con altri artisti, critici e operatori culturali, egli trova grandi stimoli per creare nuovi lavori in una “stagione concreta”, basata sulla realizzazione e sull’oggettivazione delle proprie intuizioni. <<Ogni quadro>> come scrive la Corgnati, <<presenta una superficie monocroma, alcune linee e piccole figure geometriche (quasi sempre quadrati), declinati in composizioni semplicissime e rigorose ma dove equilibri, luce, spazio e persino grazia trovano una sintesi completa e vorrei dire perfetta>>.

Sono questi caratteri, uniti alla forma-pensiero delle sue opere stese in un equilibrio14138760_1400874693260404_432911074584207604_o.jpg armonico, a farlo notare alla critica. I nuovi quadri di Tomasi sono di chiara visione astratta-geometrica, con alcuni segni ed elementi simbolici, ma privi di freddezza e di calcoli intellettualistici. Si notano, invece, spazi “accarezzati” da effetti plastici, accordi di colori piatti, però caldi e pacati, mai rarefatti sulle superfici. In questa sua stagione felice, crea pure raffinati acquarelli, immediati nella stesura dei toni all’interno di forme asimmetriche, stese in modo fulmineo, estratte dalla realtà, attraverso un processo di riduzione formale che le rende, comunque, ben definite e concentrate.

Forte, ormai, degli apprezzamenti e dei diffusi consensi ottenuti, nei decenni successivi, il pittore bresciano proseguirà a perfezionare le sue ricerche di rigore compositivo, dando sempre più spazio a una luminosità viva e diffusa, caricando le sue immagini di valori formali, contenuti esistenziali e sentimenti intimi, emozionali. Pur producendo meno opere di prima, si dedicherà di più alle esposizioni e all’insegnamento, restando sempre legato alla sua personale linea pittorica, su carta, tela o tavola, eseguendo anche collage, qualche scultura, murales e affreschi, non disdegnando collaborazioni con altri artisti.

Armando Tomasi, che ho conosciuto personalmente negli anni Novanta, soprattutto in occasione di esposizioni al Museo della Permanente di Milano, lo sto apprezzando maggiormente ora nello sfogliare questo volume antologico. In esso è stata rivisitata la sua creatività e il suo interessante percorso (grazie ai contributi e alla collaborazione della Famiglia, della curatrice Martina Corgnati, dell’Amministrazione Comunale di Roè Volciano e dei critici coi lori saggi). È questo un vero e proprio atto d226276i “riconoscimento” a Armando Tomasi, un artista razionale e intuitivo, sia nei primi quadri figurativi, sia in quelli in cui la forma è consumata, in una compenetrazione cromatica, nella luce. Il suo figurativismo giovanile è di un classico nitore, che prende avvio da un disegno convenzionale. Negli anni poi le sue forme si sono via via ridotte, prosciugate, fino a una struttura grafica di trascendenza plastica, per divenire alla fine astratte, in superfici prive della minima profondità. La produzione migliore di Tomasi è quella dipinta con pure forme geometriche espresse in modo disteso e colorato. Sono esse a svelare l’essenza della misura umana di questo autentico artista, che in dimensioni lucenti e con immaginazione senza tempo ha saputo creare opere di alta tensione spirituale ed estetica, simile alla musica e alla poesia.

Giuseppe Possa

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ROBERTO SIRONI: Pittore, ma non solo.

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img_e9222[1]Artista milanese poliedrico: uomo di spettacolo, scrittore, autore di canzoni e di teatro, regista, blogger e pittore, questo insolito “Gentil homme italien” (come lo ha definito la stampa internazionale) ha ottenuto, in ogni campo in cui opera, premi e riconoscimenti con unanime consenso di critica e di pubblico. Con Elizabeth Boudjema (sua compagna) e altri artisti ha dato vita all'Associazione "Un artista in bicicletta - Cultura Mobile & Arti Sostenibili" e a vari progetti creativi di ricerca in diversi ambiti culturali.

Non conoscevo di persona Roberto Sironi fino ad oggi. Avevo sentito parlare di lui come pittore e in diverse occasioni mi era capitato di ammirare alcuni suoi dipinti, ma solo quando ho consultato il suo sito mi sono reso conto della poliedrica e talentuosa attivitàvisionemetropolitana-acrilicosutela-100x100-robertosironi di questo artista milanese. Uomo di spettacolo, scrittore, autore di canzoni e di teatro, regista e blogger, questo insolito “Gentil homme italien” (come lo ha definito la stampa internazionale) ha ottenuto, in ogni campo in cui opera, premi e riconoscimenti con unanime consenso di critica e di pubblico, tanto da essere considerato un punto di riferimento nell’attuale panorama musicale e artistico europeo. Oltre alle numerose collaborazioni, ha al suo attivo nove Album e una lunga serie di tournée in Francia, Germania, Svizzera, Belgio e Inghilterra dove ha partecipato con Ennio Morricone al Festival “Only Connect” al Barbican Centre di Londra. Nel 2007, Roberto Sironi ha realizzato il suo primo lungometraggio “Film di notte” che è stato proiettato durante il “Festival Internazionale del Cinema di Cannes 2008”. Come raffinato scrittore ha pubblicato interessanti opere letterarie.

È il pittore, però, che con questa intervista voglio far conoscere. Dopo gli usuali convenevoli - sono nel suo studio con Max Caramani, direttore editoriale della rivista “Effetto Benessere” che me lo ha fatto conoscere - e subito mi confida: <<Dopo aver scritto canzoni e pièce teatrali, indagato la musica e frequentato ogni tipo di palcoscenico, mi sono trovato nella necessità passionale e artistica di investigare la materia ed è con questo spirito che ho cominciato a dipingere. Il mio incontro con la pittura, mi sono avvicinato intorno al 2004, è avvenuto in quelle penombre, dove si annidano le più incomprensibili tonalità>>.

Cosa ti ha ispirato?

<<Fascino, intrigo e ricerca albergano e si nascondono in quello che noi abitualmente chiamiamo talento o creazione! Più che di ispirazione parlerei di un’avventura attraverso la materia, un viaggio nell’intuizione, un afflato di incoscienza multicolore, che con la sua forza di persuasione visiva ha generato questa mia passione per la pittura>>.

Hai avuto maestri o a chi ti sei ispirato?

img_e9224[1]<<Sia in pittura che in musica sono un autodidatta! Nella mia vita artistica non ci sono stati Maestri in particolare, solo un insieme di persone, personaggi e protagonisti del mondo dell’Arte in generale che hanno abitato per anni nei meandri della mia crescita culturale, nelle pieghe del mestiere, accompagnandomi, giorno dopo giorno, lungo il mio percorso artistico. L’Arte, per quello che mi riguarda, è indiscutibilmente un affascinante enigma; preferisco, perciò, lasciar le cose come stanno e lasciarmi andare in ogni direzione nel magma sfuggente e indecifrabile della materia>>.

Come e cosa dipingevi all’inizio?

<<Mi considero un collezionista di immagini e sono attratto dalle folle, dal “mondo deglilibertango-acrilicosutela-28x35-robertosironialtri”, quindi inevitabilmente nella mia opera pittorica questo tema è principale, non l’unico, ma sicuramente è una colonna portante e fondamentale del mio lavoro. Nel tempo ho scambiato il mio ruolo di “performer” con quello dello spettatore, scendendo dal palcoscenico per salire su di un metaforico palco per assistere al più grande spettacolo del mondo: la gente! La mia pittura è iniziata in questo modo: tele, colori e grande affetto per l’umanità>>.

Sto constatando che raramente utilizzi il pennello. O sbaglio?

<<È proprio così, perché ho la sensazione che questo strumento sia solo un braccio artificiale che potrebbe negarmi, appunto, l’incontro più selvaggio con la materia! Utilizzo spatole da muratore, stracci e qualche volta solo le mani! Sì, in effetti come si suol dire, mi piace sporcarmi le mani con quello che faccio, soprattutto, e in pittura accade spesso, quando una libertaria e anarchica confusione di colori si trasforma, per imperscrutabili ragioni, in Arte, in una nobile e attraente fonte di godimento>>.

Quando ti sei accorto che eri anche un bravo pittore, oltre che musicista, regista, scrittore e altro ancora?

robertosironi1<<Vedi, quando sei sul campo di battaglia non hai il tempo di contare i nemici, li affronti e basta! Io amo quel campo e soprattutto amo la battaglia! Certamente non mi considero un artista guerriero, ma un creatore di provocazioni artistiche, quello sì. Nella mia visione del mondo, l’Arte è ovunque, bisogna solo riconoscerla, provocarla, qualche volta sfidarla, quasi sempre eccitarla. L’ho fatto scrivendo canzoni, libri, testi teatrali, un film e da qualche anno, più o meno una quindicina, dipingendo… Ora mi sento anche pittore>>.

Quindi la pittura per te è più di una passione.

<<Certo. Come puoi constatare, non è solo la passione che mi porta a creare, c’è anche un furore romantico, una voglia insaziabile di oltrepassare un confine, una febbre interpretativa, un amore per la bellezza in tutte le sue forme. Ho bisogno di spazi e quegli spazi sono i territori del mio essere artista>>.

Dall’inizio fino a oggi, è stato un susseguirsi di mostre, in Francia, Svizzera, Germania, in Italia, tra le altre, a Milano, Torino, Pavia. Quali sono state le tue ricerche e i tuoi cicli pittorici?

<<Più che cicli direi processi creativi, che di volta in volta si trasformano in tematiche. Come ho già detto, ho trattato le folle, ma anche il mondo del Vino e quello della “Metronomicità” della Bicicletta! L’universo della Musica e l’Oriente, la Moda, l’Immigrazione e il Mare! Ho persino creato un progetto intitolato “Un biglietto del tram”, nel quale ho dipinto sino a ora più di 5000 biglietti dell’ATM di Milano, raccolti nelle strade, nelle metropolitane e sui marciapiedi della città. Il mio viaggio nella pittura, credo, proseguirà in una continua ricerca, un’avventura infinita tra colori, colpi di scena e di spatola!>>.

Oggi da dove trai ispirazione e stimoli per la tua creatività?

<<Ovunque si presenti un’occasione. Potrebbe essere nella quotidianità di un gesto, nella banalità di una parola, in un’immagine, in un pensiero! Riesco a troimg_9208[1]vare stimoli persino nella corsa - tutti i giorni corro per dieci, dodici chilometri - e non si può immaginare, in quella ipnotica gestualità, quante idee, progetti e intuizioni si possono nascondere. Quando corri, nella parte più silenziosa dell’anima, in casuali meditazioni, puoi trovarci illuminazioni stupefacenti, idee straordinarie, riflessioni che qualche tempo dopo diventano opere artistiche… In fondo un artista è un corridore per eccellenza, che deve muoversi in continuazione per sopravvivere in un mondo molte volte ostile, disattento e qualche volta “ignorante”, nel senso che ignora l’Arte, la dimentica, non la considera. Forse un artista nasce per “correre” ed è forse per questo motivo che raramente è al passo con la propria contemporaneità, ma sempre oltre>>.

Come definiresti la tua pittura?

<<Mi piace pensare che ogni mio quadro sia una finestra aperta sul mondo! Considero le mie opere dei “movimenti immobili” essendo un grande estimatore del movimento in tutte le sue accezioni, valori e significati>>.

Come e quali soggetti stai dipingendo oggi?

lanavedeifolli-acrilsutela-50×70-r.sironi<<Come puoi notare, tecniche, ricerca e intenzioni sono sempre quelle! Dall’acrilico, all’olio, alle tempere, il codice genetico della mia pittura rimane invariato. La sfida con la materia continua senza esclusione di colpi. Ogni quadro sarà sempre una parte di me che, nella sua conclusione, lascerà il mio mondo per entrare nella vita di qualcun altro. E quale riconoscimento più bello ci può essere per un pittore? Le opere non sono mai del solo artista, ma di tutto il mondo che lo circonda e portano in sé, e comunque, parti infinitesimali di un universo condiviso>>.

Hai abbinato musica e pittura in qualche occasione?

<<Da un po’ di tempo a questa parte non faccio altro! Dove c’è un concerto c’è sempre una mia mostra di pittura e viceversa. Quando presento un mio libro non manca mai un po’ della mia musica e qualche mio quadro. Cerco di proporre eventi dove le mie opere si fondono e si confondono in un solo evento, in un happening multicolore e letterario con tanto di colonna sonora>>.

Accenna brevemente ai tuoi progetti futuri.

<<Sto preparando una nuova tournée musicale che partirà in marzo, con un mio concerto al quale sarà associata una mia mostra dedicata alla musica, più precisamente al jazz intitolata “Jazz’Art”. Un nuovo viaggio, un’altra avventura sulla strada dell’Arte, l’unica strada che pare senza fine! Non è forse questo un indizio di continuità?>>.

Contaminazione nella musica, dunque. Che si tratti di immagini “suoni”, di scale musicali, di strumenti e di mani, talentuose come le sue, che “vibrano” di note e di quelle atmosfere? In fondo il jazz è il linguaggio musicale più autentico e riconosciuto del Novecento, sviluppatosi in fumosi locali, dentro atmosfere grigie di conflitti interiori, ma anche di colori sfavillanti.

Finora, la sua pittura è sempre stata pregnante: da quella legata al periodo deisprint-acrilicosutela-65x90-robertosironi "movimenti immobili" che riportano al mondo orientale, a quella legata alla passione per la musica o per le biciclette. Nelle sue opere, Roberto Sironi dialoga con una gestualità astratta e pur nell’adesione a una poetica informale, senza una costruzione geometrica, ma con una grande libertà espressiva carica di emozioni interiori, egli esibisce quasi sempre echi di presenze figurali o, comunque, grafiche. I timbri cromatici sono sovente vividi e caldi, spesso con bagliori luminosi. Nei suoi cosmi di colori vengono registrati contenuti in un’aura di mistero, con inserimento di totemiche rappresentazioni di società coi loro problemi, fino a quello attuale dell’immigrazione. In ogni suo processo creativo, Sironi propone tematiche stimolanti: visioni utopiche, figure concettuali proiettate in spazi senza tempo, con la stessa fluidità della musica, o su strade luminose cavalcate da due ruote o da altri mezzi, da pedoni o in palpitanti e magmatiche irradiazioni energetiche.

Giuseppe Possa

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           G. Possa e R. Sironi


MARIO PASQUALINI espone al Formont di Villadossola, fino al 28 febbraio

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Villadossola e dintorni visti con occhi un po’ diversi” è il titolo della mostra fotografica di Mario Pasqualini, organizzata dal Formont di Villadossola e dalla Cinefoto di Domodossola. L’esposizione è stata inaugurata il 15 gennaio e sarà visitabile fino al 28 febbraio 2019 (il martedì e il mercoledì, giornate d’apertura al pubblico del ristorante didattico del Formont).

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Mario Pasqualini, noto fotoamatore di Villadossola,  con gli scatti di questa mostra vuol far “vivere” la sua città e i dintorni “con occhi un po’ diversi”, cogliendo scorci particolari, spazi emozionanti, tramonti o aurore, in cui si stagliano le chiese del Piaggio, della Noga o di S. Bartolomeo, o altri ambienti in cui si scorgono luoghi caratteristici o edifici quali La Fabbrica, oppure prendendo al volo alcune particolarità atmosferiche, come un istantaneOLYMPUS DIGITAL CAMERAo arcobaleno o un fulmine che improvviso scintilla sopra la città. Sempre, però, utilizzando intuizioni personali per ottenere risultati migliori, evadendo la routine degli amatori di quest’arte, un tempo definita minore, ma che al contrario oggi sta ottenendo sempre più importanza, con ampi consensi di critica e di pubblico. Pasqualini, a mio avviso, cerca un modo, attraverso le sue fotografie, per vedere la realtà davvero in maniera diversa quando cattura atmosfere paesaggistiche o effetti fiabeschi nei fiumi Ovesca e Toce, che riescono a trasmettere emozioni profonde non solo nell’autore, ma ugualmente in chi le osserva. Di certo questo è uno dei suoi “obiettivi”: vedere gli ammiratori delle sue opere affascinati, sorpresi e incuriositi, se non addirittura stupiti nello scorgere lampi di poesie in quegli scatti più riusciti.

Non servono parole per ottenere questi risultati, occorrono passione, pazienza e attenzione; inoltre necessitano conoscenze tecniche e di visione che alla fine fanno la differenza tra un semplice scatto o una “fotografia” che esprime sentimenti. Tutto queste caratteristiche, Mario le possiede fin dagli anni giovanili, quando OLYMPUS DIGITAL CAMERAdipingeva. Tant’è vero che è possibile intravedere qui l’eleganza di alcuni tagli o improvvisazioni scenografiche colte nelle vedute, tipiche della pittura. In tal modo, egli interpreta e magari evita certi elementi di “disturbo”, ora allargando lo sguardo o allontanandosi dal soggetto, ora avvicinandosi ad esso, ma sempre per completare una propria visione delle cose e del paesaggio urbano, le cui forme e peculiarità ben si adattano a materializzarsi sotto forma di immagini “diverse”. Questo soprattutto quando Pasqualini, esaltando geometrie antiche e composizioni di spazi antropizzati, in cui l’uomo è intervenuto sull’ambiente naturale, sembra sperimentare e giocare con la luce e le ombre, esplorare immagini e significati, cercando di rappresentare anche visivamente il taglio fotografico che prima già era nella sua immaginazione.

Giuseppe Possa 

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G. Possa e Mario Pasqualini (foto Carlo Pasquali)

Mario Pasqualini è nato a Milano nel 1947 ma risiede in Ossola da circa quarant’anni. Ha iniziato ad appassionarsi alla fotografia una cinquantina d’anni fa usando una Reflex analogica, poi la passione per la pittura ha prevalso sulla fotografia, alla quale è però tornato a dedicarsi con l’avvento del digitale. Inizialmente si è ispirato ai fotografi paesaggisti contemporanei della scuola anglosassone, ma col tempo ha seguito un proprio percorso di ricerca e di lenta evoluzione estetica.

<<Se è vero che una fotografia di paesaggio o più in generale una fotografia di natura non deve essere la rappresentazione oggettiva della realtà bensì l’interpretazione soggettiva di OLYMPUS DIGITAL CAMERAessa, Mario Pasqualini ci offre, con le sue immagini, la dimostrazione evidente di tale asserzione; infatti le sue foto sono il risultato della particolare relazione emozionale che si crea tra fotografo e natura nel momento dello scatto. Potremmo definire le sue immagini “intimistiche”, in quanto filtrate dalle emozioni e dagli stati d’animo dell’autore. Questa interpretazione soggettiva della realtà Mario la ottiene già in fase di scatto, utilizzando per la ripresa dei suoi sottoboschi fiabeschi, obiettivi particolari che creano sfocati pittorici oppure, per la ripresa dei suoi paesaggi, servendosi di appositi filtri che esaltano i colori e i giochi di luce. Anche l’uso di focali “lunghe” contribuisce, in alcune sue foto di paesaggio, a comprimere le prospettive, creando interessanti effetti grafici>>.


(la mostra  “Villadossola e dintorni visti con occhi un po’ diversi è stata inaugurata, il 15 gennaio 2019 dalla direttrice del Formont Luisella Colangelo, dal presidente della Cinefoto Ferruccio Sbaffi e dall’autore delle immagini, Mario Pasqualini)


inizia a nevicare
Villadossola: Chiesa di S. Bartolomeo

Danilo Ursini: pittore e fotografo ossolano che vive e si fa onore in Canada.

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Danilo Ursini è un artista assai fantasioso e onirico che sembra prendere ispirazione dal12075001_10206670553954463_6256603536848349006_n suo subconscio, creando lavori curiosi, enigmatici e stravaganti (basta dare un’occhiata al suo sito: www.ursiniart.com). Le sue opere, facilmente riconoscibili, sono dipinte di getto, con mano libera e capacità inventiva. “Il piccolo Dani” - come simpaticamente lo chiamavamo - è un giovane ossolano (è nato a Domodossola nel 1979) che vive da un decennio in Canada, ottenendo successi e riconoscimenti importanti. La prima rassegna a cui ha partecipato è “Giovani Artisti Ossolani” del 2004 e nello stesso anno, con Hermann Prigann, è stato coinvolto in un progetto d’estetica ambientale; mentre nel 2006 ha partecipato alla mostra “Le opere d’arte hanno fatto centro” a Domodossola.  In seguito, più che a esporre si è impegnato a migliorare lo stile, sviluppando le sue opere in bianco e nero che ha presentato al castello di Vogogna, ma ufficialmente alla “Biennale di Firenze” 2009.images.jpg  Ha esposto, inoltre, con Vogue Italia, al Louvre Carousel di Parigi e in alcune gallerie dell’America del Nord. Ha intrapreso lunghi viaggi in Spagna e in Bosnia; ha soggiornato a New York. Da quando vive oltreoceano (<<Non sapevo bene cosa andavo a cercare e cosa trovavo>>), si è distinto nella comunità artistica di Toronto per il suo talento creativo. All'Artist-in-Residence dello Spoke Club ha eseguito un'installazione live per Scotiabank nuit blanche 2013 ed è risultato vincitore dello SNAP! (concorso fotografico). Danilo, infatti, negli ultimi tempi si dedica pure a quella che un tempo era considerata arte minore, la fotografia, ma che al contrario oggi sta ottenendo sempre più importanza, con ampi consensi di critica e di pubblico. Ha conseguito anche numerosi premi e le sue opere sono state inserite in vari cataloghi e pubblicazioni d'arte, con recensioni di autorevoli critici.

Lo incrocio casualmente in centro a Domodossola: è in vacanza ed è venuto a trovare i2670907_orig genitori.  Ci sediamo a bere un caffè, come ai vecchi tempi. Non lo incontravo da anni, praticamente, da quando si è trasferito oltreoceano, seguendo una ragazza italo-canadese, con la quale convive e da cui ha avuto un figlio e una figlia. Nel 2009 ricordavo che partecipò con successo alla biennale di Firenze. Poco dopo si è trasferito a Toronto, dove ora vive stabilmente e così ci siamo persi di vista. Insisto per porgli qualche domanda, ma non gli piace farsi intervistare. Ci è riuscito Cristiano De Florentiis per la Rai nel 2015 che ha raccontato la storia di questo italiano diventato un artista molto apprezzato in Canada.

Iniziamo così a chiacchierare del più e del meno e poco alla volta gli strappo risposte senza dare l’impressione di fargli domande. Mi dice : <<Vedi questo link?>>

http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-ccba7bbe-0447-401e-b2e4-3cbb1dc0c557.html

e intanto mi mostra sul cellulare un video, poi prosegue: <<troverai un ottimo riassunto 1_mg_3280di me… facendo questa intervista ho scoperto che non ci tengo a rilasciarle, in quanto detesto la comunicazione verbale.  Come sai, sono un pittore, un artista figurativo, dipingo dalle tre alle cinque ore al giorno, quindi mi viene più facile e naturale esprimermi tramite le forme e le figure, non mi piace parlare verbalmente della mia arte… se devo chiarire una mia opera con le parole, significa che non sono riuscito nel mio intento, non ti pare?>>. Nota in me una certa perplessità e allora precisa: <<Un bel dipinto si deve apprezzare senza spiegazione, ma cogliendo le emozioni che si provano nell’ammirarlo. Sta a noi pittori rendere naturali e comprensibili le immagini per l’osservatore, curando i vari livelli tecnici e i diversi concetti mentali, sviluppando i volumi, le luci e stendendo alla fine i colori: questo, a mio avviso, deve fare l’artista… non fornire interpretazioni... Ci sono i critici per interpretare, leggere oltre, vedere i significati…>> e guardandomi sorride.

Colgo l’occasione al balzo e ne approfitto per chiedergli di parlarmi delle sue tecniche:jg_danilo_ursini <<In questo ultimo periodo dipingo a olio, usando i colori, con gesto impulsivo e di getto, anche se poi lo concludo con le velature. Era da anni ormai che usavo esclusivamente il bianco e nero, ma ultimamente mi sentivo chiuso, troppo limitato, e anche se all’inizio i miei curatori e i clienti abituali storcevano il naso e lo storcono ancora, ho già ripreso a vendere… sebbene non abbia ancora terminato la mia prima serie a colori. Non rinnego, ovviamente, la produzione in bianco e nero, è stato l’inizio di tutto, e sono legato ancora a molti di quei dipinti>>.

Come mai questo inizio?

<<Fu tutto per caso, un mio amico mi chiese di eseguirgli gratuitamente un murales in bianco e nero. Ovviamente mi acquistò i materiali, dei grandi pannelli e litri e litri di questi colori. A opera conclusa, mi rimasero dei barattoli di bianco e nero, così con quelli iniziai a dipingere i miei primi quadri, e li esposi poco tempo dopo a Villadossola, Vogogna, e infine li portai alla Biennale di Firenze nel 2009. La biennale fu un piccolissimo passo per me, ma mi mise in contatto con molti artisti. Fu così che passai dalla passione, o se vuoi hobby, della pittura alla scelta di dedicarmi all’arte professionalmente, abbracciando pure la fotografia e la fumettistica>>.

img_1155A questo punto, cerco di farlo parlare nel dettaglio di questa sua tecnica: <<Come ti ho detto, dipingevo in bianco e nero, o con piccoli strappi di colore. I miei personaggi nascevano dal sogno, ma poi li sviluppavo col pensiero. Erano fantastici, tenebrosi, ricchi di pathos e d’azione. Osservando le loro figure piatte, puoi notare che interagiscono in maniera surreale al contesto, spesso estranee alla realtà. Ora uso l’acrilico, e il gel su tela, sviluppando i miei scorci dove la luce la fa da padrona. La prospettiva è quasi reale, rivisitata solo per un appagamento ottico, le pennellate sono dure e a piccoli tratti. Combino le figure tra astrazione e forma senza tempo, con motivi contemporanei. A volte utilizzo pure tecniche miste. Tutto ciò per rendere, a chi guarda, il senso caotico, poco razionale, del futuro incerto e già arcaico che ci attende e non sappiamo se sarà bello o brutto, dolce o amaro, bianco o nero… forse colorato come in un sogno o più probabilmente grigio come in un incubo>>.

Per conoscere cosa ne pensa dell’arte, lo incalzo con richieste colloquiali.

Ma secondo te, a che punto è l’arte contemporanea?

<<È a una svolta… in una fase - anche se pur timida e iniziale - di Rinascimento. Credo che l’arte sia morta poco prima dei tagli di Fontana. Fontana ha solo fotografato l’arte con i suoi tagli… quasi per dire che abbiamo fatto già tutto…>>.

Ritieni che ci siano condizionamenti che agiscano sull'arte?

<<Viviamo in una società bombardata da immagini, cartelloni, tv, internet, social e da infinite App. In ogni istante, siamo sotto condizionamento… prigionieri anche dei nostri sogni>>.

A tuo parere, l'arte può contribuire a trasformare la società?

<<Non so se abbia un simile potere, ma in questo momento credo che l’arte abbia il dovere di portare il bello in ogni sua forma e ovunque. Il mondo ha un estremo bisogno di bellezza>>.

Le ricerche artistiche contemporanee sono contro la tradizione? O tu pensi che ad essa si devono ispirare, o da essa partire, per creare il nuovo?

50715953_10215807036880826_749211324860334080_n<<L’Arte - in questo momento storico, tra crisi economiche, dei valori ecc. - come specchio della società è confusa… pensiamo ai vari periodi storici, tutti erano solcati da movimenti artistici: un Giotto aveva uno stile diverso da un Leonardo e un Caravaggio da un Picasso. Se entri in un museo a colpo d’occhio, puoi dare una data specifica, anche non conoscendo l’autore… solo dallo stile. Oggi nelle diverse mostre collettive o fiere “contemporanee” si nota un guazzabuglio di stili tutti con la stessa datazione. Personalmente - per le mie realizzazioni di questi ultimi tempi - guardo ai “maestri” tra il XV° e il XIX° secolo che più m’ispirano>>.

Valore commerciale e valore estetico delle opere devono andare di pari passo?

<<In una società civile, globalizata e senza guerre, sì. Tuttavia, nella nostra, governata esclusivamente dal denaro, “una Merda d’autore” di Manzoni può essere battuta all’asta per 220.000 euro, mentre un bel dipinto viene venduto in una bancarella per poche centinaia di euro con cornice. Capisco l’opera di Manzoni, e personalmente mi piace anche, posso pure capire perché sia quotata con un così alto valore economico, ma non rientra più, a mio parere, nel concetto di Arte, ma in quello vicino al collezionismo, legato all’antiquariato>>

Critici, galleristi, collezionisti che potere hanno nel mercato dell'arte?

<<Penso, ci siano diversi livelli nel mercato dell’Arte e a ogni livello i poteri economici variano. In quello più basso, per gli artisti che iniziano, il potere maggiore è “battuto” dai clienti collezionisti, che iniziano a comprare per il valore dell’opera e non dell’opera legata all’autore. Per gli artisti di fama, sono i galleristi che vendono le opere non come opera d’arte, ma come investimento. E poi ci sono molte vie di mezzo, in cui i due livelli si fondono, dove i galleristi riescono a vendere le opere di un’artista perché ha già un proprio mercato>>.

Pensi ci siano differenze tra arte locale e arte universale?

39501239_10214743954864440_6817803185562845184_n<<Nessuna. Se non di opportunità economica. Ti posso garantire, conoscendo l’arte ossolana e vivendo in nord America, che se si visitasse una collettiva in Ossola e una a Toronto, esteticamente… quasi quasi… non potrei notare grandi differenze. Ci sono bravi artisti ossolani, e ne conosco molti, che non sono noti a livello internazionale, o per lo meno non hanno quello che dovrebbe essere riconosciuto loro, solo perché logisticamente e territorialmente vivono ai margini, rispetto alle grandi piazze. Inoltre, la crisi in italia si sente, e mi rendo conto che non si investe abbastanza sull’arte contemporanea, sia perché scarseggia il denaro, sia perché l’Italia e già satura di Arte>>.

In questo contesto dove collochi la tua arte e che valore ha sul mercato?

<<Non saprei dirti… ho molti dipinti che tengo in grande considerazione, ma non credo di aver ancora dipinto il mio capolavoro. Il “valore economico” che chiedo per i miei lavori varia da quadro a quadro. A me non piace valutare un’opera per la misura in centimetri o per il tempo che si impiega a realizzarla, ma per il risultato finale conseguito>>.

Nel frattempo, mi mostra la fotografia del quadro appena dipinto. In questo lavoro noto una strana aria di delicata forza e, contemporaneamente, una fascinazione per una naturale, quotidiana, “immagine”, in un curioso mix di stili incrociati tra il classico e il neopop. Appare, o traspare (a mio giudizio ovviamente, magari immaginando anche di 1dun21copyxxxxxxriconoscermi in quel viso, proprio mentre vengo colto dall’improvviso raptus di eliminarmi la barba che porto da ormai mezzo secolo), appare o traspare, dicevo, un volto “solcato” e consunto in maschili faccende eseguite con plastico ed elegante movimento su uno “spirito” sognante. Una pittura lontana da manierati compiacimenti, in cui l’uomo (che pare ancora giovanile, ma ce lo immaginiamo ormai avanti con gli anni per quel “bianco” che coinvolge maglietta, capelli e schiuma da barba), incastonato su un ristretto fondo neutro, compie questa quotidiana azione, come se fosse sempre in attesa di qualcosa di piacevole, che deve accadere o che lui sta per realizzare, con la stessa aria incantata di quel “fanciullino” che è dentro ognuno di noi. Dico questo, perché in effetti Danilo Ursini sembra, attraverso il colore rosa puerizio creato dalla lametta, dimostrarci che la pelle (intesa come spirito) dell’uomo sembra essere sempre quella di un bambino! E sta in questo espediente originale l’acutezza dell’artista! Insomma, il “piccolo Dany” ci mette di fronte a uno “specchio”, sta poi a noi ricevere quelle emozioni che ci invitino a riflettere sul nostro mattino di speranze o di sogni da realizzare.

Giuseppe Possa

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Antonio Ciminiera: poeta dell’amore e della vita

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Per apprezzare i poeti non è necessario conoscerli di persona; infatti, dei tanti che ci 51956021_10213329216216670_5315000798776655872_nhanno emozionato, quanti sono morti ancora prima che noi nascessimo? Quindi, a mio parere, è sufficiente leggere i loro dati biografici, qualche avventura o disavventura esistenziale che ne hanno caratterizzato la personalità, ma soprattutto bisogna approfondire con una lettura attenta i loro versi, meditarci sopra e riflettere, lasciandoci commuovere dai contenuti e dalla musicalità delle strofe. Occorre esaminare gli stili e assimilare i componimenti soffusi di profondo umanesimo che questi cantori, attraverso un costante tirocinio lessicale e contenutistico, hanno prima conservato per qualche anno nei cassetti e, in seguito, dati alle stampe. Questo, ovviamente, quando i poeti sono validi, degni di nota, con radici innovative, però abbarbicate alle proprie tradizioni culturali che li fanno sentire se stessi in un’identità personale, superando vanagloria e narcisismo. È il caso di Antonio Ciminiera, che non ho mai incontrato, ma che attraverso i “social” ne ho via via ammirato l’anelito per quell’aspirazione ai valori umani, dall’amore alla libertà di pensiero, dal dolore alla gioia di vivere, che spesso si accavallano nel nostro quotidiano, fino alla sua chiara autonomia di espressione da ogni ideologia. Anzi è il solo impulso artistico, almeno a me pare, la matrice, il substrato poetico, che lo spinge a scrivere, ispirato ai più alti sentimenti che non si circoscrivono nel tempo e nello spazio, ma che hanno valenza universale.

Antonio Ciminiera nasce a Potenza nel 1953. Ha appena un anno quando la famiglia (ha una sorella di sette anni più grande) si trasferisce a Marsiglia, dove il padre lavora comeciminiera 1234 artigiano edile, ma dopo qualche anno (a causa degli eventi bellici tra Algeria e Francia) ritorna con moglie e figli in Italia e trova occupazione a Riva Presso Chieri (TO). Qui, il giovane Antonio inizia la scuola e ben presto si appassiona alla lettura, quella dei poeti in particolare. Ed è interessante sapere che già sul finire delle elementari ha mostrato una precoce inclinazione a scrivere versi lirici. Terminate le scuole d’obbligo, però, per collaborare al sostentamento della famiglia, inizia a lavorare.  Tuttavia, sente il bisogno di continuare ad acculturarsi; prosegue così i corsi serali, coltivando anche la sua passione per la poesia, su una linea ermetica e neorealista: <<ho studiato di notte/ come fanno i poveri cristi/ le mani ancora sporche di colla/ nemmeno il tempo di lavarmi/ nemmeno il tempo di pisciare>>.

Nel 1985 pubblica “L’ultima estate” (Ed. Pentarco – Torino), la sua prima raccolta di liriche (premio Lunigiana 1986). Con la scrittrice Fulvia Gambaro, con cui aveva già iniziato una cospicua collaborazione artistica, fonda nel 1987 il Premio di Poesia Palazzo Grosso e per 11 anni ne è stato presidente di giuria. Negli anni Novanta si appassiona alla poesia spagnola della prima metà del secolo, da Hierro ad Alberti, da Prado a Ramòn e altri. Da questo nuovo bagaglio culturale, in aggiunta alle precedenti esperienze letterarie, acquisisce un più maturo linguaggio lirico e uno stile del tutto personale. Nel 2014 pubblica “La stagione dell’amore assurdo”, per la casa editrice “La vita felice” di Milano e due anni dopo “Tutto esaurito ma io non mollo” (Ed. Sillabe di sale – Condove). Antonio Ciminiera è autore anche di alcuni testi teatrali (tra gli altri: “I conti tornano”, “Il sosia”, “El seugn ‘d barba Vigin). Opera come membro di Giuria in alcuni prestigiosi concorsi letterari; ha vinto numerosi premi ed è presente in diverse antologie. Della sua attività letteraria si sono occupati giornali, riviste e pubblicazioni varie, ottenendo l’interessamento di noti critici.

Sono evidenti le qualità liriche di Ciminiera, perché dalla lettura delle opere, sotto 51984833_10213328003546354_7120831618129854464_nl’aspetto linguistico e contenutistico, si può sintetizzare che la sua poetica non è né troppo tradizionale, né avanguardista, ma si sviluppa (ovviamente a mio avviso) con una tecnica del tutto personale, per la fisionomia individualistica ma dalla visione universale e per l’originalità espressiva. Versi liberi, sciolti e brevi si alternano a quelli più distesi, fino al dettato largo capace di ampi respiri lirici che hanno alle spalle un lungo lavoro di lima e di riflessione… mica come quei poeti: <<che scrivono a stento/ ma trovano sempre,/ chissà come fanno,/ la scala più corta/ la porta più grande>>. Ciminiera scava, con un misto di tenerezza e di piacere, dentro il proprio “privato” e va dritto al cuore delle cose, al sangue (e alla carne) dell’amore e al suo conseguente insorgere commosso o al suo distacco disilluso, lasciando trapelare il sentimentalismo ferreo e profondo di chi, per esso, ha gioito o sofferto. La tensione umana e lirica che si riscontra nel pensiero di Antonio è dovuta al ricordo di una donna reale o idealizza nella sintesi di quelle amate o che gli hanno toccato il cuore e che sono diventate, nel momento rievocativo, motivo di interiori e nuovi desideri o di inquietudini che sgorgano dal più profondo dell’animo del poeta, mentre tenta di metabolizzare dentro di sé ogni gioia o delusione: ora abbandonandosi all’amore, ora macerandosi nella ferita che brucia.

Egli, nell’insieme della sua produzione, tuttavia non si limita a “parlar d’amore”, ma facendolo traduce anche quella “umana avventura” dell’esistenza nelle sue svariate sfaccettature. Sono le stesse dell’uomo immerso nella dura realtà della vita, del suo interrogarsi o del suo interrogare. Infatti, nell’immagine del poeta si riflette l’intera collettività, nella bellezza o nella fatica dell’esistere. Una tematica di forza questa, sviscerata in ogni aspetto, in un amalgama di colori, di emozioni, di scavo psicologico, dentro cui Antonio riesce sempre a cantare con robustezza di versi nati nell’animo da improvvise intuizioni, da rapidissime suggestioni che sa realizzare sulle pagine con resa di bellezza poetica.

A ben leggere, è una lezione profonda di coraggio intellettuale sempre più raro nei nostri tempi, perché il suo non è soltanto un viaggio virtuale dentro sé stesso, negli inferi, nei paradisi o nei meandri di impulsi passionali, ma pure nelle emozioni, nella profondità delle ansie quotidiane, in cui veniamo a trovarci nei momenti cruciali dell’esistenza.

 “Le stagioni dell’amore assurdo” – Sono raccolte in questa silloge più di ottanta poesie,10516815_10202856017073237_3261873944375742343_n suddivise in due sezioni. La prima da il titolo al libro, la seconda è “Condannato per insufficienza di prove”. Dopo un’introduzione del regista Guido Chiesa, il volume si avvale di un’attenta e dettagliata prefazione di Antonino Caponnetto che, tra l’altro scrive: <<I lettori che come me (o prima di me) si sono accostati alla sua poesia avranno certo notato come esista nei versi di Antonio un “tu”, assai spesso femminile, cui il poeta si affida o contro cui lancia la propria sfida in un confronto serrato come con la propria anima, con la propria donna o con una propria trasfigurazione della donna. Oppure invece, ed è questo il caso più ricorrente, io credo, con la sua problematica esigentissima eppure capricciosa amante, la… Poesia>>.

Per comprendere questo “viaggio”, come sostiene il prefatore, nel “tu” femminile all’interno di un percorso d’amore poetico e tormento, si leggano questi versi, in cui ci sono parole amare. Il poeta sente prepotente il bisogno di stenderle tra i versi, sebbene desideri ancora baci da chi ormai lo ha dimenticato: <<il ricorso di un amore/ non è un nutrimento per la morte/ ma tu trapassami di lacrime/ e adornami di baci/ come se fossi memoria di sangue/ un sepolcro innocente/ ma non pulsa più il mio nome/ nel tuo cuore d’amianto/ o forse si nutre di mille ragioni/ come per non lasciarti andare>>. Le liriche di Ciminiera sono incessantemente un attestato d’amore che lambisce, che cammina sulla pelle con l’intenzione di penetrarla per raggiungere il cuore e farlo sussultare, scuoterlo fino alla passione (<<È una stagione assurda e la terra geme/ di un amore innocente>>) e al tempo stesso un urlo di dolore contenuto (<<con nessuno divideremo l’inchiostro del nostro dolore>>).

In esse, l’autore rivela se stesso e trova accenti e ritmi in cui noi troviamo scintille e sensazioni che sono le sue stesse. Soprattutto quando le attese d’amore (non solo idealizzato ma pure fisico) rendono più urgente il bisogno di comunicare, con accenti delicati, la voce interiore del poeta: <<…dammi le tue labbra amore…/ socchiuse e mature di brina/ scosse da una voglia remota di baci…/ le tue labbra, le tue labbra amore/ che muoio>>. Il suo messaggio diventa allora accorato: <<cercami/ non avere paura/ so contenerti in un sospiro>>. Altrove egli descrive la propria delusione dopo una spasmodica attesa: <<Non voglio più rincorrerti/ lasciami dormire almeno questa notte>>. Anche se la perseveranza lo fa ancora sperare: <<ho voglia di starti dentro il cuore/ come il riccio nella tana questa notte/ finché la terra non sanguini>>. In ogni caso la lontananza gli fa gridare: <<morirò nel colore/ dei tuoi occhi/ e non saprò mai/ il senso di questa lontananza/ il lutto che mi ha generato/ la voragine aperta/ di ogni giorno che passa/ e intanto annego/ in questo mare anemico/ in questa assurda profondità/ che non conosco>>.

Ma la poesia di Ciminiera non è solo pathos d’amore; c’è nei suoi versi un costante afflato mistico-spirituale, forse un pretesto di vivere oltre il crudele destino. Ci sarebbero poi altri aspetti interessanti da scandagliare del suo libro complesso e articolato su risvolti che sono più intensi nella seconda parte, dove s’intravede un’anima abbeverata di umanità, <<come se portassi dentro al cuore/ il fardello di tutte le tempeste>> scrive, ma lascio il compito al lettore. Antonio non giudica, trae considerazioni per sé e per gli altri, ma racconta anche miserie e debolezze che ci sono pure nei poeti: <<sono fragili i poeti/ privi di ossa/ e di scudo/ e lievitano di solo dolore/ come la notte>>.

“Tutto esaurito ma io non mollo” – Anche in questo volume – oltre ottanta poesie e un’apcimin. 3pendice dedicata al paese delle sue origini, pubblicato da “Sillabe di sale” nel 2016 (con una postfazione dell’editore Piero Partiti) – Antonio Ciminiera prosegue con la costante, attenta, coerenza al suo linguaggio limpido e di disinvolta agilità lirica. C’è, però, costante, una malinconica (ma pungente) ironia di fondo in “Tutto esaurito ma io non mollo”, che si rivela al lettore con la caratteristica genuina dell’autore che ha maturato il suo canto alla realtà dell’esistenza e con un fervore creativo nato dall’istintivo, imperioso, bisogno di effondere i propri sentimenti: <<Vuoi mettere la soddisfazione di scriverti poesie/ e immaginarti con la testa tra le mani/ ad aspettarti l’ultima piallata al cuore>>. Egli si protende, pure qui, a trasfigurare in bellezza poetica ogni attimo dell’umano vivere, anche quando questo è minacciato dalla morte, perché <<tutto si specchia nel fuoco, / tutto qui nasce e qui muore/ come la nebbia>>.

La visione del mondo del nostro autore è di natura essenzialmente poetica, non filosofica, e acquista varietà di toni per quel suo possedere il senso doloroso dell’esistere (<<perché soltanto nel dolore noi saremo vivi>>), presentandosi sotto forma di testi più separati e autonomi, rispetto al precedente volume, ma ancora più sciolto nel linguaggio: <<più dialogico e quotidiano, con dei ‘che’, ma anche con dei vivaci intercalari il cui valore semantico è tale da dar senso linguisticamente fondante anche alla cosiddetta parolaccia, che nel parlare è sempre liberatoria, o alla sgrammaticatura, o del dialettismo, che fa dell’amore “l’ammore”, tutti elementi, questi, del parlato familiare o amicale, del colloquiale…>>, come sostiene Antonino Caponnetto nella prefazione.

Infatti, proprio uno dei temi presenti pure in questa silloge è l’amore che pare diventare pretesto di vivere e, con versi sottili, ne rievoca le sembianze, la grazia e l’ardore, contro il crudele destino: <<E’ che mi nutro ancora d’illusioni/ e sono stanco./ Che cosa mi trattiene in questa inutile città,/ nessuno sa chi sono/ nemmeno tu che un giorno mi chiamasti amore./ Ammore,  che stupida parola/ Ammore Ammore mio, sarà eterno il bacio/ sarà eterno l’uragano che mi covi dentro>>. E sembra usare la propria esperienza esistenziale quale tensione emotiva per esprimere l’amore individuale di fronte all’universalità seduttiva.

Attraverso questi componimenti, inoltre, scorgiamo quello che è stato il divenire interiore di Antonio: la vita con i suoi dolori, le delusioni, le amarezze, ma colmo di51742032_10213329217816710_789241463736107008_n speranza: <<vivo la mia vita senza ossigeno/ ma con il cuore al di sopra dei miracoli>>; l’inquietudine così sottile che si maschera nella nostalgia e nel ricordo; il desiderio di dare e l’impotenza per non averlo potuto fare sempre.  Ecco, allora, tra le altre, poesie qua e là con titoli emblematici: “Lettera di un clochrad a una prostituta” (<<…una donna s’acquatta/ nel suo letto di stracci/ in questo mondo di carta/ non ha più senso l’amore>>; “La prigione sul fiume”; “Giuditta e la luna”; “Voi che mi giudicate e non sapete” (<<…amo cantare le eclissi, il sole che non tramonta mai,/ l’epopea degli umili>>); “Mammoni”. I versi in esse contenute, tutti tirati sulla corda dell’eleganza stilistica, possiedono grande garbo e una leggera densità celeste dell’anima abbeverata non solo di passione, di desiderio e di cuore, ma anche di compassione nel cogliere le difficoltà e le necessità dei sofferenti, di coloro a cui la società dovrebbe prestare aiuto.

Sono molte di più le interessanti tematiche di questa silloge che andrebbe analizzata più a fondo: in ogni caso, a me pare, che Antonio Ciminiera non sia solo un cantore di emozioni o stati d’animo, ma soprattutto un cantore che sa cogliere il proprio tempo. “Tutto esaurito ma io non mollo” è un titolo che sintetizza, in una società decadente, la speranza che l’autore pone nella fiducia e nella forza divampante del futuro, anche se: <<il terreno del futuro è impermeabile ai sogni>>.

Giuseppe Possa

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Licia Fusai: “Sapori su tela”

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(di Giuseppe Possa)

Un’artista milanese che attraverso i suoi quadri, insoliti e intriganti, esalta tutti gli elementi, o ancora meglio gli “alimenti”, che copiosa la Natura offre.

Il ristorante Bianca di Milano, in via Panizza 10, un locale candido, rilassante,img_e94231.jpg dall’atmosfera calda e accogliente, nato dalla passione per la cucina, ha ospitato una mostra interessante di Licia Fusai, “Sapori su tela”, che ben era intonata con l’ambiente. L’artista milanese (ma lei prima che artista preferisce definirsi “trasformatrice di materie”) con i suoi quadri, insoliti e intriganti, esalta tutti gli elementi, o ancora meglio gli “alimenti”, che copiosa la Natura offre. Le sue opere sulle pareti mi si sono presentate davanti come se scorressero attorno a me su un “carrello”, quali portate di stuzzicanti materie prime per piatti prelibati, di forza attraente, che alimentano gioia, danno speranza, invitano a nutrirsi con un’alimentazione salutare. Un piacere per gli occhi, una fonte di “benessere”, perché le creazioni di Licia sono eseguite con i medesimi ingredienti che si usano generalmente per preparare o dare sapore e colore alle ricette di cucina.

Sono lavori unici su tele, cartoni riciclati o compensati, in cui l’autrice pone, mischiandoli, cereali, sementi diverse, chicchi di caffè, spezie, senape, chiodi di garofano, bacche, frutti di bosco, piccole foglioline, fili d’erba, petali o un’infinità di altri prodotti  della terra, mischiati e tenuti insieme da resine bianche su sfondi scuri, e li stende con le mani (raramente aiutandosi con spatole), facendo scorrere le dita sui supporti come in una danza dagli intensi ritmi musicali. Ogni opera è irripetibile, perché la forma è stata modellata davanti agli occhi dell’ideatrice come per magia, con tonalità basse e profonde, dove qua e là spuntano rossi, gialli, blu o altri cromatismi che brillano improvvisi, creando movimenti di forme misteriose che affascinano.

IMG_E9420[1]La predisposizione alla manualità, Licia la possedeva già a scuola nelle attività creative, alle quali si dedicava con passione, ma poi ha intrapreso un percorso lavorativo del tutto diverso che l’ha portata a collaborare con studi di architettura e importanti brand di moda. Fin da giovane si è dedicata al “benessere” del corpo e dello spirito interessandosi di macrobiotica e di pratiche orientali.  Sposata, due figlie, ha trovato nella famiglia la forza per superare le conseguenze di un incidente automobilistico che nel 2001 l’ha tenuta ferma per parecchi mesi, permettendole di interrogarsi più a fondo sul forte legame che unisce l’uomo alla natura e all’alimentazione: da qui, meditando e applicandosi, è scaturita questa nuova esperienza artistica: <<mi sono avvicinata così ai rimedi della naturopatia>> come ora afferma, <<iniziando un percorso personale che ha trovato compimento in questa mia forma espressiva, che ritengo un cammino terapeutico. Per me l’arte è diventata la conseguenza necessaria del desiderio di condividere emozioni>>.

Rivendicando l'autonomia del gesto come procedimento che libera l'inconscio e consente all'arte di non essere più il fine, bensì il mezzo con il quale si sprigiona una diversa img_e94251.jpginventiva, che sale dal profondo con straordinaria intensità, Licia si è mossa oltre l'inerzia del ripetitivo, per attuare un processo creativo che si esprime secondo modalità impreviste, sottoposte a regole imponderabili, le quali le hanno portato in superficie emozioni del sé profondo. Lavori informali, di astrattismo geometrico, con rudimenti figurali, sono i suoi; “inni” gioiosi, quali doveroso omaggio alla Natura capace di ispirarla in continuazione con le sue molteplici varietà di forme e cromie, nate, come afferma lei stessa: <<dal desiderio di esaltare, anche da un punto di vista estetico, tutti gli elementi che contribuiscono a dare sapore ai nostri cibi… così il rosa del sale dell’Himalaya, il nero o il verde del pepe, il grigio o il beige dei semi, il rosso della paprica o del peperoncino, il giallo dello zafferano si trasferiscono  sulla tela per dar vita a quadri fantasiosi e creativi che ci avvicinano in parte alla natura che per prima li ha creati>>.

Non ci sono speculazioni di tipo concettuale o filosofico nelle sue composizioni ludiche, ma la ricerca del bello, di un sentire interiore, dove tutto è ricondotto all’istinto primordiale dell’essere vivente, ovvero il cibo. Ed è proprio da qui che scaturisce la forza comunicativa delle opere di Licia, le quali mutano il loro valore convenzionale per assumere una nuova energia, una forza magnetica che diviene un coacervo di concetti, pensieri, sensazioni e soprattutto speranza di vedere il mondo vegetale, animale e la nostra società in armonia. E’, quindi, un invito a tutti, il suo, affinché si diventi più coscienti nell’utilizzare le potenzialità della natura, cercando di capire che non si deve distruggere il nostro pianeta ma rispettarlo e soprattutto che occorre vivere in felicità e non in tristezza.

Per concludere, voglio anche esprimere un giudizio critico sulle opere, al di là di ogniIMG_E9439[1] considerazione precedente. Senza supporto di alcun disegno prestabilito, lasciandosi però sospingere unicamente dall’istintualità del gesto rappresentato da una percezione soggettiva, Licia Fusai compone le sue creazioni con l’ispirazione dell’inconscio e con lo spirito dei sentimenti più reconditi, stendendo elementi naturali su un’improvvisazione geometrica e cromatica che si riflette, poi, sulla forza evocativa di un movimento in continua evoluzione, fino alla realizzazione definitiva. È un’arte gestuale estemporanea, ma che evidenzia una stesura emozionale, la quale riflette un’informale non completamente astratto dalla possibilità di forme e figure casuali (come capita d’intravvedere tra le nuvole), in un plastico intensificarsi dei colori dai toni metafisici. L’autrice s’immerge completamente nel suo fare e diventa lei stessa parte dell’opera, quasi in un cercato incontro tra l’essere e la natura.

Ogni composizione risulta lirica, con combinazioni cromatiche solide, convincenti e compatte, rivelandosi altresì, con misurato senso tattile, nella giusta tonalità di accostamento e nella purezza del personale stile espressivo. L’arte di Licia è un chiaro messaggio che esce dirompente dal suo animo, segno di una grande forza interiore. I suoi quadri sono poesie in cui specchiarsi per ritrovare noi stessi nell’armonia della natura: è un vero e proprio omaggio alla terra che ci dona sapori preziosi, dei quali talvolta non conosciamo l’esistenza.

Giuseppe Possa

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G. Possa e L. Fusai

Gladys Sica: "Il sogno, la luce e la parola”

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Sabato 6 aprile 2019, alla "Galleria degli Artisti" di Milano, via Nirone 1, l'artista italo-argentina Gladys Sica, dopo numerose personali, per i suoi quarat'anni d'intensa attività pittorica e scultorea, allestirà la prima antologica. In esposizione, oltre a una scelta di lavori pittorici e scultorei, disegni, incisioni e cartoni intagliati.

di Giuseppe Possa

L'unità dell'amore - tecnica mista su cartone - cm20x30Dopo numerose personali tra l’Europa e l’America del Sud, Gladys Sica (artista italo-argentina che ora vive a Milano) si propone per la prima volta con una mostra antologica, in cui espone alcuni suoi lavori pittorici e scultorei, disegni, incisioni e cartoni, realizzati nell’arco di quattro decenni: a partire dalle opere prodotte durante la formazione accademica (“Sogno incantato”, “La mia amica Patrizia”, “Rottura”, “Ciclo vitale”, “Gli ultimi ritorni”) a quelle della maturità (“Visione furtiva”, “Donna senza vestito”, “La rabbia”, “Rusty”, “Minaccia trattenuta”, “Immobilizzato dalla luna”), fino alle più recenti (“Tracce”, “Preannuncio”, “Nessuna parola”, “La decisione”, “Sfida multipla”).  Ciò che, tuttavia, è rimasto sempre immutato in lei è la passione per l’arte, vista nongladys sica solo come rappresentazione figurale, ma pure come ideale; attitudine a cogliere il bello e il sentire profondo; tensione a lasciar trapelare, rendendocele intatte nelle opere, le sue emozioni liriche (infatti, Gladys è altresì una brava poetessa che ha pubblicato raccolte di liriche e ha vinto importanti primi premi; quest’anno per il romanzo inedito “Il viaggio dell’anima”  ha ottenuto il terzo premio al Concorso “Versusulmona”). Le sue composizioni, proprio per questo, paiono sgorgare da una serenità meditativa e dalla volontà di indagare il reale, di scrutare gli angoli più grigi della vita per dar loro colore e armonia.

La succinta antologica, qui presentata, è allestita per “tecniche” espressive, dove emerge la pittura a olio su tela o su carta, oppure su supporti lignei. Tutti i suoi quadri sono lavorati a spatola, passando dal colore più nero a cromie più vive, tra astrazione degli sfondi e forme figurali al centro, dai toni a volte espressionisti, a volte più lirici e sereni, Gladys Sica, La forza della crescita, Scultura in vetroresina selezionata, Museo Sivori, Salòn Manuel Belgrano, 1998, Buenos Airesa suggerire profondi significati contenutistici, con sensibilità etica ed estetica.  La pittrice, in alcune tele, non disdegna di inserire il suo mondo poetico, con la proposizione visiva di suoi versi (“Dove va tutto l’amore non dato?” “Tracce antiche”, “Il nostro incatturabile, abissale, cuore”, “Domenica, poesia, tango e poi...”, “Cosa faremo allora”); in altre, appaiono aspetti paesaggistici assai armonizzati (“Sguardo indiano” “Ritmi boffaloresi”, “Fiume Chitravathi”, “Visita a Santa Caterina del Sasso”, “Il treno delle nuvole”). Da notare certe interferenze o intersecazioni di larghe o più sottili linee, simili a sguardi inconsci per separare immagini di sogni ancestrali o misteriosi, così da lasciare alla raffigurazione, nel suo insieme, più possibilità interpretative (“Travolto dal tunnel”, “Dove inizia il silenzio”, “Avvertimento”, “Viaggio in India”, “Il mare che unisce”).

La sua pittura è, comunque, sempre realista, ma artisticamente trasfigurata, in cui appare pure evidente un’influenza scultorea (ancor prima che pittrice, Gladys nasce scultrice, come comprova il suo attestato di studi, Prof.ssa di Storia dell’Arte e Scultura, conseguito in Argentina, suo paese di nascita, dove dall’Italia erano emigrati i suoi genitori).

Naturalmente in mostra, non mancano le sculture, quelle di piccole dimensioni (“In coppia”, “Prima del grande passo”, “Sculturina di donna”, “Donna inginocchiata”, “Le parti di un corpo”) visto che le più grandi, non facilmente movibili, sono conservate a Buenos Aires. Le sue creazioni scultoree, plastiche e vigorose, in misurato equilibrio e calibratoIl corpo del silenzio - cemento - cm 56x66x30 rapporto, spaziano dal gesso, argilla o sapone in blocco, da cui poi sono ricavate le fusioni in bronzo o cemento, alle sculture in marmo lavorate a scalpello e alle sperimentazioni con il filo di ferro e il gesso diretto, fino ai bassorilievi. E fra questi ultimi si possono inserire anche quei pannelli a rilievo, tecniche miste (che si avvicinano all’arte povera, minimalista), su cartone ondulato di scarto, intagliato, elaborato per strati e dipinto con colori scuri, illuminati con effetti più vivi nelle linee o nelle scannellature (“Contemplazione vitale”, “L’unità dell’amore”, “Nudità al tramonto”, “Camminata…”). Un modo tutto suo, originale, oserei quasi dire unico, di lavorazione (che può essere considerata pure come arte di riciclo), per lo “scavo” fisico impresso, che s’accomuna alla profonda “macerazione” interiore dell’irrequietezza umana (“La terra della scordanza”, “La distanza che salva”, “Bambino dell’India”).

Rappresentata nella mostra è anche la sua arte grafica e incisoria. Dai disegni su carta, alle tecniche miste a china o a biro, dalle xilografie su legno o linoleum, fino alle acqueforti, acquetinte su zinco, punte secche su lastre radiografiche. Tutte queste opere sono frutto di un rigore percettivo, ottenuto con leggerezza di luci e libertà di segni, in una dinamica di sottintesa tensione, ma che testimoniano un modo di concepire l’arte improntato al sentimento di avventura e ricerca di fronte alla vita (“Sogno all’alba”, “Quale è la domanda che trattieni”, “Morte nel ventre”, “Vittoria divina”, “Gravidanza”).

Se si dà uno sguardo all’intero corpus della sua produzione artistica presente nell’esposizione, al di là delle tecniche espressive usate, si possono rintracciare Coesione - olio su tela - cm 70x100ispirazioni di varie matrici del Novecento, riconoscere echi di suggestioni europee e sudamericane, perfino influenze mistico-orientali, ma nell’insieme possiede un’impronta del tutto personale. Infatti, i suoi lavori racchiudono un misto di figurativo e informale, con forme geometriche e cromie così particolari da risultare immediatamente riconducibili all’autrice. Forse questo anche perché l’atto creativo (sia esso sulla tela, nella materia scultorea, sui fogli disegnati o nelle incisioni) in lei non è sollecitato da alcuna intenzione cosciente, né da alcuna sensazione programmata, poiché l’autrice si lascia assorbire, durante la realizzazione delle opere, dall’ispirazione del momento e da quel senso di mistero che da essa trapela. Ragionevolmente, il risultato ottenuto, contiene un messaggio, oltre che inconscio, razionale, di ampio impulso, su cui ognuno, poi, coglierà magari aspetti e significati differenti.

C’è, sicuramente, anche un senso liberale di giustizia sociale in alcuni suoi quadri, proveniente da ataviche situazioni, dall’ansia di un abbraccio cosmico, dalle tensioni d’istanze personali, che aprono varchi alla speranza di una civiltà migliore e più tollerante. Non si può, tuttavia, comprendere a fondo la sua arte se nonRitmi boffaloresi - olio su tela - cm70x80 si coglie dalle sue immagini - pure da quelle soffuse dall’attualità dei problemi di vita, di cui appaiono prepotenti metafore - la straordinaria, misteriosa e invisibile energia, generata da uno stato meditativo spontaneo dell’autrice. Gladys durante il processo creativo è nell’intimità della propria coscienza (come se non fosse a tavolino o al cavalletto) e sente dentro se stessa qualcosa di impellente, di universalmente riconosciuto, da esprimere con aperta fiducia ai fruitori delle sue opere. Alla fine, è da esse (e anche dai loro titoli appropriati) che trapela quello che noi ammiriamo: il nostro ambiente circostante, fatto di natura, ma pure di umanità e di sentimenti, da cui si evince la sua attenta e lucida visione del mondo contemporaneo. Infatti, per la nostra artista è importante la presenza dell’essere umano, non importa se uomo o donna, e di tutte quelle entità viventi che occupano il pianeta, con le quali si potrebbe (anzi si deve, sembra suggerire lei) vivere in armonia senza sopraffazioni di alcun genere… ognuno con il proprio istinto, pensiero, anima, con la propria vitalità intellettuale e spirituale, aiutandosi vicendevolmente nei momenti di dolore e gioiendo tutti insieme nei momenti felici dell’esistenza.

Tracce antiche - Disegno a biro - cm50x70Così dipingendo, Gladys Sica riesce, con la sua pittura, a darci, nel contempo, opere insieme commoventi e stimolanti, che sembrano voler equilibrare le energie presenti nella natura con gli impulsi passionali del genere umano e non solo. Un messaggio di tipo ecologico: un invito a rispettare e salvaguardare, integrandosi coscienziosamente in esso, il nostro pianeta (“L’abbraccio della natura”, “La forza della natura”, “Alberi”, “La magia delle rocce-sculture”, “Danza con la natura”). Ancora: con simili quadri Gladys costruisce paesaggi e soggetti visionari, proiezioni del fantastico che si nutrono di luce, forme astratte o leggibili, ma spesso dirette al cuore del trascendente, per l’impellente bisogno del suo spirito o per un’urgenza interiore.

Infine, certe figure sinuose contenute in alcuni lavori (“Il ballo del mondo”, “TangoPersonale Galleria dell'Angolo, 1999 d’amore”, “Tango infinito”) paiono affidate artisticamente alla sensualità degli effetti musicali, identificando il sensuale con lo spirituale; sovente, esse sono trasformate in scarni corpi nudi o volti, i cui tratti, però, sprigionano un’energia incomprensibile, una nuova o rinnovata vitalità, nonostante siano dipinti in maniera così “prosciugata”.A potenziare la dimensione arcana dell’arte di Gladys Sica, per concludere, contribuiscono pure un segno a volte virulento e dinamico; il colore intenso, con i rossi, i blu, i bianchi, i neri o i viola; le emozioni sprigionate dai contenuti delle opere, colte in un silenzio assoluto, poetico, che avvolge il tutto in un’inconfondibile aura di magia, di mistero, di gioia.

Giuseppe Possa

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G. Possa e G. Sica

Alessandro Chiello: “Per sempre” (Eclissi Editrice, Milano – pg 225 - € 12)

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Proposto dalla "Libreria La Pagina", sarà presentato da Danila Tassinari, venerdì 15 marzo, ore 21, all’ex Biblioteca (Teatro La Fabbrica) di Villadossola (VB).

"Per sempre" è il titolo del nuovo, avvincente, romanzo di Alessandro Chiello, edito53310342_659821601104529_4760202302441127936_n da Eclissi di Milano, nota casa editrice di gialli. È un racconto un po’ diverso dai suoi precedenti dedicati al noir. A indagare sulla scena dei delitti non c’è più il commissario Gegè, a cui i lettori ossolani si erano affezionati (ma tornerà presto in una storia tutta ambientata in Ossola e che partirà da Tappia), inoltre qui, i crimini avvengono in modo più rapido, in condizioni meno violente, ma inquietanti, con finali imprevedibili e a sorpresa. Comunque, il vicequestore Camposanti, irreprensibile nell’ufficio delle sue funzioni, ma scapolo sregolato, fuori dalle righe, nella vita quotidiana e la sua assistente Lina Gatti, nubile, sicura di sé, illuminata dalla fede in Dio e molto devota, hanno tutte le capacità investigative che servono (e un’attrazione tra i due in cerca di una “scintilla”) per rapire il cuore dei lettori. Poi, ci sono altri protagonisti: una fotografa di opere d’arte, giovane single, internazionalmente nota per la qualità dei suoi servizi e un giornalista, svogliatamente fidanzato, esperto di cinema, ambedue originari di Villadossola, che s’incrociano casualmente a Firenze. Che strano, a volte, il destino delle persone: bastava che uno dei due avesse scelto un ristorante diverso! Nel frattempo, in un appartamento non molto lontano, si è appena consumata una tragedia familiare. Marito e moglie sono rinvenuti cadaveri; a dare l’allarme una vicina, avvertita dal loro figlioletto di 5 anni, sopravvissuto alla strage. Sembrerebbe un omicidio-suicidio eppure ci sono altri indagati, a cui attribui9446702_3781106re un possibile movente: un condòmino violento, un socio d’affari, o più semplicemente un Killer compulsivo? L’intricato caso sarà risolto da Lina in modo inaspettato. Contemporaneamente, viene alla luce e sgominato un losco traffico di droga con cadaveri… e un nuovo, macabro, assassinio, senza testimoni, accade in pieno giorno nella città. E i due ossolani? Sarà sempre la fedele assistente del vicequestore a trovare il bandolo della matassa, lasciando però, rispettosamente, al suo capo l’onore dei meriti. Tutto concluso? Eh, no, altrimenti cosa ci starebbe a fare quel “per sempre”, che si va ripetendo nel male e nel bene? Non certo come ci s’immagina da lettori. La bellezza di questo romanzo, tuttavia, oltre che nella capacità di Chiello di creare suspence, sta nel suo saper descrivere in modo affascinante i luoghi d’arte fiorentini, inseguendo Ramona nel suo lavoro fotografico, e nel mettere in luce quegli ambienti che sono stati set, divenuti “icona”, di film famosi, i quali attraggono innumerevoli fan come il giovane Mino, che li sta per raccontare nei suoi reportage per il quotidiano su cui scrive.

Giuseppe Possa

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Recensione apparsa anche su "Eco Risveglio Ossolano"

"Preludi" di Claudio Zella Geddo

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Tra premi e pubblicazioni, la produzione letteraria di Claudio Zepreludilla Geddo prosegue con un nuovo romanzo, “Preludi” (Ed. Mnàmon, Milano – in copertina foto di Michele Frasca), che riserverà felici sorprese ai suoi affezionati lettori. Pubblichiamo la prefazione del libro a cura di Giuseppe Possa.

“Preludi”, questo ultimo romanzo di Claudio Zella Geddo, è suddiviso in libri e capitoli secondo un'architettura che richiama, ambientate in epoche diverse, oniriche atmosfere tra classico, gotico e illuminismo, unitamente a riflessioni irrazionali sulla vita e sul declino delle società; sempre, però, sul filo dell’ironia o della parodia. Racconta il percorso iniziatico (o il sogno deragliato?) di J.H. un giovane moderno, disadattato, solitario, il cui vero nome si scoprirà solo a lettura ultimata.

zella claudio geddo Riuscirà il protagonista, nel tempo, a sviluppare e conservare le proprie energie fisiche e mentali per affrontare, superandole, tutte le prove e le traversie che lo attendono nel suo surreale cammino (ha l’opportunità e la possibilità di attraversare diversi periodi storici), così da accedere al totale dominio del Mondo, che sta per aprirsi davanti a lui? Saprà esserne il “Reggitore” in un divenire di nuove ere, buie o illuminate che siano, senza venire sopraffatto dagli sconvolgimenti che si accavallano tra guerre, violenze e rivoluzioni?

L’imperscrutabile personaggio sarà, però, costretto, “malgré soi”, a lottare in tre epoche diverse, scontrandosi prima con loschi figuri della Roma militare ai tempi della rivolta di Spartaco; poi, nel Basso Medioevo dovrà sapersi confrontare con l’emergere della stampa a torchio e l’infierire di gruppi esoterici che si credono a contatto con potenze ed entità soprannaturali; infine, lo attende il periodo del Grande Terrore durante la Rivoluzione Francese, in cui sperimenta la pienezza dell’amore, ma pure il dover elargire la morte, senza pietà, per supremo interesse. Nel frattempo, è accompagnato da personaggi stravaganti, al limite del raziocinio, se non addirittura folli, che lo incontrano, lo seguono o lo cercano, a volte anche per ucciderlo.

Il senso ultimo dell’intero romanzo va, forse, individuato in una sorta di ricerca del benessere e della felicità, legata a una specie di nirvana scevro di emozioni e passioni. Lo si coglie, soprattutto, nell'incontro tra l’ambizioso J.H. e le presenze evanescenti delle persone attorno a lui, che sono soltanto alla ricerca di un’esistenza semplice e felice, per rinascere dalle ceneri catastrofiche del passato e restare parte della società in cui vivono, senza cercare la folle ambizione del potere e della volontà di dominio, ma anche senza ridurre il tutto al disincanto sregolato del piacere e della voluttà.

Giuseppe Possa

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Tania Micaela Cordone: “Dragon's Legacy, tra luce e tenebra”

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Questo primo romanzo della giovane scrittrice ossolana sarà presentato alla "Fabbrica di Carta" di Villadossola il 27 aprile alle 15,30.

E’ nata52997972_2362539043777254_7517299215999959040_n a Domodossola e vive a Villadossola la giovane Tania Micaela Cordone, che di recente ha pubblicato un corposo romanzo dal titolo “Dragon's Legacy tra luce e tenebra”, e afferma di aver svolto lavori diversi: <<Dalla barista, alla consulente e alla commessa - dichiara sorridendo - cosa che vedo come un vantaggio, perché mi piace conoscere sempre cose nuove, mentre al momento sono un’istruttrice di autodifesa, nel particolare insegno Krav Maga, un sistema di difesa che ha dato una svolta alla mia vita, infondendomi il coraggio di tentare la pubblicazione di questo primo libro>>.

La passione per la scrittura non è recente, l’accompagna fin dalle scuole elementari, e ora finalmente ha pubblicato questo interessante libro; nel frattempo ha realizzato un altro sogno: si è laureata in psicologia a Pavia.

Copertina libro CordoneLa storia inizia sul Lago di Averno, dove anticamente si credeva fossero nascoste le porte dell’Ade, un punto caldo come lo definisce Raphael, vampiro e discendente della stirpe umana dei Draghi, condannato da un’antica profezia a una scelta da cui dipendono le sorti del mondo. Saranno due donne (da un lato Alexandra, un’istruttrice militare ribelle, orgogliosa e follemente attraente; dall’altro Katrina, posata e docile, immagine della compagna ideale) eredi delle razze estinte dei Draghi e delle Viverne (creature leggendarie rappresentate simili a rettili alati) a contendersi, nelle notti dove il pensiero non riesce a spegnersi col calare del sole, il suo cuore immerso tra luce e tenebra. Ma questa difficile scelta d’amore, quando ormai dentro a Raphael si è scatenata la stessa follia del padre Dracula, dove lo condurrà? Alla salvezza o alla propria distruzione e condanna? Amore, passione, odio, morte, draghi, dei e oscuri segreti s’intrecciano, infine, in una Romania dove le leggende pare siano realtà.

Il romanzo è disponibile in cartaceo nelle librerie e in formato digitale negli store on-line.

Giuseppe Possa

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Recensione apparsa anche su Eco Risveglio

Giuseppe Prinzi, artista tra tradizione e sperimentazione.

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Giuseppe Prinzi opera, a mio avviso, con un gesto tra l’impulso istintivo eSDC10925 l’incantamento, sia quando dipinge, sia quando scolpisce o modella, così che i suoi lavori, tra scavo dell’animo ed essenzialità primordiale, appaiono appartenenti, nell’autonomia delle emozioni, a ogni luogo e a ogni tempo. Nel mondo globalizzato di oggi, la sua arte ha un’ispirazione del fantastico legato ancora a quelle atmosfere della tradizione, che ci fanno riassaporare il piacere della meraviglia, e a una tensione poetica di portata universale. Infatti, nelle sue opere pittoriche, ceramiche dipinte, sculture tra il gioioso e l’inquietante, tecniche miste, appaiono volti dagli sguardi intimi ma simili a maschere, spesso affastellati nel loro doppio. Trapelano pure figure ed elementi decorativi che si compongono come fossero fotogrammi caleidoscopici, in un percorso di memorie evocate da riflessi onirici o richiamate da una fantasia meditata.

In queste immagini istantanee, alcune istintive, altre costanti, pur nelle loro variazioniSanto Stefano di Camastra_777-12-21-02-6493 emozionali evocate da un pathos intimo, sono animate da cromie vive, intense, in un gioco compositivo di forme geometriche e di combinazioni naturalistiche. Tra i temi iconografici prescelti, per altro tra i più riusciti, compaiono facce accattivanti dagli effetti metafisici o quasi in dissolvenza, a volte in bilico tra il figurativo realizzato con estremo realismo e un’opzione un po’ più astratta. Il virtuosismo tecnico di Prinzi, in una ricerca personale sempre aperta alla sperimentazione, eccelle pure nella stesura emotiva dei colori, nella sapiente realizzazione delle sfumature e nella resa plastica dei volumi che danno vita alle sue composizioni dinamiche.

Giuseppe Possa

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Giuseppe Prinzi, nato a Mistretta (ME) nel 1962, è pittore, scultore e ceramista. Inizia a dipingere a undici anni, quando la madre Angela gli regala una cassetta di colori ad olio e alcuni cartoncini telati. Frequenta l’istituto d’arte di Santo Stefano di20170719_112654-1-01 Camastra e nel 1979 consegue il diploma di maestro d’arte. Contemporaneamente segue con successo il corso di pittura per corrispondenza dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Nel 1981 ottiene il diploma di maturità artistica, presentando uno studio personalizzato sulle Avanguardie storiche, in particolare (Cubismo, Futurismo e Surrealismo). Dall’anno seguente prende contatti con gli ambienti artistici e inizia a partecipare a mostre ed esposizioni, riscuotendo da subito notevoli consensi e apprezzamenti da addetti ai lavori e collezionisti. A partire dal 1983, partecipa a 10 edizioni della “Mostra Internazionale della Ceramica” di Santo Stefano di Camastra. Prende parte alla “Mostra Itinerante” patrocinata dalla Regione Siciliana nel 1987, con esposizioni nelle maggiori capitali internazionali, tra le quali: New York, Tokio, Singapore, Parigi, Londra, Sidney, Berlino, Hong Kong. Si susseguono negli anni personali e collettive; nel frattempo, ottiene premi e riconoscimenti. Pubblica nel 1991 un catalogo delle sue creazioni, dal titolo “Maioliche d’Autore”. Nel 2004 realizza alcune opere in ceramica refrattaria, che andranno a costituire una collezione permanente di un palazzo Baronale ottocentesco, a Sinagra sui monti Nebrodi, trasformato successivamente in Hotel-Museo, unico nel suo genere. Realizza una tavellina in ceramica, per l’Associazione culturale “Il cielo d’Italia” dsc01254.jpgpatrocinata dal Senato della Repubblica, che verrà esposta nel 2015 all’Expo di Milano. Nello stesso anno è presente alla “Prima Biennale Stefanese” nello storico   Palazzo Trabia e viene selezionato dalla giuria Internazionale, per partecipare alla “X Biennale Internazionale d’Arte contemporanea di Firenze”, nella suggestiva Fortezza da Basso, dove esporrà 5 opere a olio su tela. Nel giugno del 2016 realizza un grande murales ceramico, dal titolo "Medusa" di cm. 240x240, esposto in occasione della manifestazione nazionale "Buongiorno Ceramica" e a "L’Inceramicata Stefanese". A fine 2017, nell'ambito delle celebrazioni del 150° anniversario della nascita di Luigi Pirandello, espone a palazzo "Armao" di Santo Stefano di Camastra un "trittico" in ceramica e legno, dedicato al grande drammaturgo siciliano. Alla mostra era esposta anche una China acquarellata, raffigurante cinque volti di Pirandello, realizzata dal figlio Giovanni.

Alessandro Chiello: “All’ombra dei cipressi. Viaggio tra le tombe dei grandi” (Ed. La Pagina, Villadossola – pg 200 – € 15)

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Non lasciatevi fuorviare dal titolo, poiché il viaggio dell’autore tra le tombe dei grandi,copertina libro chiello non ha nulla di macabro, né di perverso. A stimolarlo, negli anni, a visitare i cimiteri più importanti d’Europa, è stata la passione per la storia, che dall’interno dei loro sarcofaghi marmorei possono raccontare. Tutto è cominciato a Parigi: “Una guida turistica inseriva, tra le attrazioni da non perdere, una visita al cimitero di Père-Lachaise” racconta Alessandro Chiello, ormai noto scrittore ossolano di gialli, ma non solo, perché alcune sue pubblicazioni spaziano tra arte, musica, cinema, sport e perfino politica: tutte attività da cui è stato attratto fin da giovane, “La cosa mi sorprese, avevo appena vent’anni, non riuscivo a concepire una passeggiata in un camposanto come qualcosa di attraente. Leggendo ne compresi il motivo: il tour riguardava le personalità famose che vi erano sepolte”.


Si scopre così, scorrendo le pagine di “All’ombra dei cipressi. Viaggio tra le tombe dei grandi” (Ed. “La Pagina), che le spoglie di chi ha creato grandi opere in ogni campo dello foto Chiello cimiteroscibile umano durante la vita non restano anonime e banali dopo la morte, anzi attraggono turisti, indomiti fans, visitatori di ogni tipo. Non sempre, però, i personaggi storici e famosi, in esso descritti, sono celebrati con statue o monumenti giganteschi o belli da ammirare. Molti hanno loculi modesti o lapidi e cippi molto semplici; alcuni, come Mozart, sono racchiusi in cenotafi che non ne contengono i resti, in quanto, per circostanze diverse, sono stati dispersi nelle fosse comuni. Eppure tutte queste tombe nascondono tocchi di mistero particolari, con vicende curiose da scoprire, da Jim Morrison a Totò, da Beethoven a Charlie Chaplin, da Modigliani a Oscar Wilde, o a Meazza e a numerosi altri, quasi tutti noti al pubblico e scelti dall’autore tra quelli che più lo entusiasmano. I personaggi, le curiosità, gli aneddoti, che Alessandro ci racconta sono davvero innumerevoli.

Pertanto, posso solo consigliarvi di leggere il libro, anche perché le rievocazioni di vite e imprese accennate, non sono da lasciare cadere nell’oblio, anzi devono diventare occasione di riflessioni profonde. Chiello coglie qui anche l’occasione per ricostruire brevemente le biografie e le storie di questi personaggi, facendoci partecipi pure dei suoi personali giudizi sul loro operato. Ci sono anche i cimiteri dell’Ossola con Contini e Tami. A conclusione, non manca un toccante epilogo, in ricordo di tutte le persone comuni assenti dai libri di storia: ecco allora la visita alla tomba della nonna materna, una meravigliosa donna d’altri tempi: il cui ricordo, nella semplicità della sua esistenza, è davvero emozionante.

Giuseppe Possa

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Mostra di Sergio Bertinotti: "Via Vitis"

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Sabato 25 maggio, alle ore 17.30, nella Sala mostre del “Teatro La Fabbrica” di Villadossola sarà presentata da Maurizio De Paoli la mostra “Via Vitis” di Sergio Bertinotti, quattordici tele (oltre una di epilogo e un'altra di prologo) raffiguranti lecopertina via vitis “tappe” del singolare percorso, originale e unico nel suo genere,  che l’artista di Mergozzo ha dedicato alla vite e al vino. Nel contempo sarà presentato anche il catalogo di queste opere, con le riflessioni di Mons. Giovan Battista Gandolfo, gli scritti di Pier Franco Midali e di Giuseppe Possa (che per l’occasione parlerà del pittore e dei suoi cicli artistici). Durante la serata, Midali e Renato Boschi illustreranno, poi, il percorso “Via Vitis” che, qualora realizzato, unirebbe idealmente tutti i comuni viticoli dell’Ossola e diverrebbe un tragitto turistico che associa l’arte alla viticoltura. La mostra gode del patrocinio del Comune di Villadossola e sarà introdotta dal sindaco Bruno Toscani. Pubblichiamo qui di seguito la prefazione al catalogo di Giuseppe Possa e la postfazione di Pier Franco Midali.

SERGIO BERTINOTTI: "VIA VITIS"

(dalla prefazione di Giuseppe Possa)

Dopo aver dipinto alcuni importanti cicli della sua pittura - dalle Storie di S. Francesco sulla “via della povertà” alla “Via Crucis”, dalla “Via Lucis” alla “Via della Fede” (senza dimenticare un piccolo volumetto dedicato alla “Via della misericordia”), tutti raccolti in preziosi cataloghi pubblicati da “?ncora” di Milano - Sergio Bertinotti presenta ora la “Via Vitis”, un racconto sulla vite e sul vino, in una contemplazione artistica legata sempre al sacro. Si tratta di un percorso scenografico, con composizioni ricche di tensioni emotive, che ben si adattano al racconto per immagini, in un itinerario visivo e visionario facilmente assimilabile pure da un osservatore comune.

La vite è un tema rilevante in tutte le colture e fa parte di ogni cultura, anche la nostra cristiana, che attinge alla Bibbia, a partire da Noè. Ed è appunto al Nuovo e al Vecchio Testamento che s’ispira questo recente “percorso” di Bertinotti.

IMG_E8242[1]Tutto è iniziato durante un “convivio” tra noi amici, quando a un certo punto Pier Franco Midali iniziò a parlare del ritorno alla coltivazione della vite ossolana in questi ultimi anni, che in gran parte era stata abbandonata dopo la guerra. Sosteneva che tornare a produrre un vino di qualità, in un contesto territoriale di turismo, può rappresentare la nuova frontiera, alla quale dedicarsi per contribuire a rilanciare l’immagine dell’Ossola, che rivendica un passato di autentica operosità contadina, oggi purtroppo in via d’estinzione. Io, rivolgendomi al pittore Sergio Bertinotti, che era con noi, e di cui già conoscevo i successi artistici precedenti, gli dissi: <<Ecco, Sergio, cosa potresti dipingere: una “Via Vitis”>>.

L’idea fu all’istante presa a cuore da Midali, che entusiasmandoci, propose un’iniziativa con questo titolo. Bertinotti si è subito lasciato da lui coinvolgere, preparando prima una serie di 14 bozzetti delle “tappe”, poi i quadri definitivi (che sono diventati 16 per l’aggiunta di un prologo e di un epilogo).

Come si sa, frutto della sapienza e saggezza popolare, la vite affonda le proprie “radici” negli albori della storia, nelle leggende e nei miti. Il vino, inoltre, accompagna tutti i percorsi delle culture, dalle origini alla mitologia babilonese, da quella biblica a quella egizia, dal culto di Dioniso-Bacco, fino all’aspetto sacrale nel cristianesimo e a quello laico nel simposio romano, perdurando ancora oggi, oltre che come bevanda, quale elemento aggregante, aspetto rituale delle nostre tradizioni, simbolo con il quale si 03 via vitis 2° stazionecelebrano occasioni speciali, si rinnovano amicizie, si sancisce l’esito di una buona trattativa. Tuttavia, qui l’artista ha voluto proseguire sulle sue “vie” precedenti, così - coadiuvato da Midali e da Mons. Giovan Battista Gandolfo (che già l’aveva supportato, con concise e profonde meditazioni, nelle esperienze precedenti) e con la collaborazione di Luigi Codemo esperto di arte sacra, unitamente a qualche mio marginale suggerimento - ha voluto dipingere questa “via” sulla vite, conferendole ancora una volta uno “stampo” sacro, rinunciando al profano,  lasciando, comunque, ampio spazio alla “natura” e alla riflessione.

Se il vino, con le attività legate alla sua produzione e alle occasioni in cui viene consumato, è stato fin dai tempi più antichi oggetto della rappresentazione artistica, mai, però, questo tema è stato affrontato in un unico “percorso”, occhieggiante alla sorgente del divino e del sacro, con una logica concatenazione nel tempo e nella peculiarità delle vicende, come l’ha dipinto il pittore di Mergozzo. Nella “Via Vitis” di Bertinotti, i soggetti dei singoli quadri hanno valenza di “icone” mediate dalla sapienza religiosa, unita all’antica saggezza popolare, e proprio per questo si può tranquillamente affermare che nel suo insieme l’opera, con la personale cifra stilistica e cromatica dell’autore, è originale e unica nel suo genere (non risulta, infatti, che in qualche parte del mondo siano mai state create, da un solo autore, quadri simili in un’unica sequenza pittorica, denominata “Via Vitis”).

Con una pennellata vibrante e pulita, dai colori lucenti a creare sovente un’atmosfera gioiosa, l’artista, per restare in sintonia coi cicli precedenti, ha raffigurato queste tele nello stesso formato e nel medesimo taglio espressivo. Le immagini, sempre aderenti al soggetto nelle selezioni iconografiche, non appartengono a rivisitazioni tradizionali del passato o a catalogazioni di tendenze, ma sono capaci di sollecitare, nella loro semplicità e originalità, l’immaginario e la spiritualità di ogni osservatore.

Perdurano anche qui alcuni elementi simbolici di Bertinotti: come certe strutture architettoniche a forme geometriche; l’utilizzo di figure stilizzate, sobrie, a campiture piatte, senza le fattezze del viso; o come lo splendore del sole-luna, cerchio illuminato sempre presente in tutti gli episodi a rappresentare una “luce” soprannaturale che, per i credenti, è la sorgente divina che illumina il percorso della storia. Qui, però, l’artista non inserisce più le vicende in un cielo nero, ma in una modulazioneBLRJE7031[1] violacea più intonata al nuovo contesto. Pure in questa “via”, Il reale è ridotto all’essenzialità, spoglio di ogni elemento superfluo; inoltre, alcuni lavori hanno come sfondo paesaggi a campo lungo, scene bucoliche con profondità prospettica, ritmi atmosferici di adesione effettiva al racconto. Le ombre appaiono lineari e carezzano persone, luoghi o edifici senza tempo. Questi ultimi paiono simili a scrigni che ospitano avvenimenti raccontati, in ambienti o in trasposizioni dal ritmo teatrale, dentro cui l’autore blocca i personaggi. Essi paiono diluirsi in un racchiuso “corollario”, con immagini a volte affidate all’esigenza dello spirito, in altre occasioni a gesti di stupore o ad arcani eventi di speranza, oppure a frammenti di momenti della vita e dei suoi frutti (interessanti quei dipinti che mostrano il susseguirsi dei ritmi rituali contadini delle civiltà agropastorali).

L’insieme delle “tappe” e la loro cronologia risultano già definite nel piccolo formato, sia dal punto di vista formale che esecutivo, ma acquistano maggior valore artistico nei quadri definitivi, in cui Bertinotti propone tutta una serie di stimolanti capolavori. Tra questi: “Le nozze di Cana”,L’ultima cena” o piccoli “gioielli” come “L’aceto offerto a Gesù in croce”, Io sono la vite e voi i tralci”, “I cavalieri dell’Apocalisse”, ricchi d’accenti universali che mettono in luce, in modo allegorico, gli eventi, così come li affronta la percezione pittorica dell’artista. Anche questi lavori, composti in modo scenografico, coinvolgono a volte più azioni narrative e in strutture che ne mettono in risalto la trascrizione geometrica, dentro cui i colori si scompongono nelle tinte chiare, raggianti e ricche d’emozioni. Se prendiamo un episodio emblematico, notiamo - per esempio, ne IMG_E8246[1]Le nozze di Cana” - vibrazioni prismatiche e luminose, dove il prodigio di Cristo, che trasforma l’acqua in vino, appare come un naturale accadimento di luce. Il conseguente spazio-colore sembra cospargere, sul luogo della scena, energie naturali e celesti per accogliere l’evento miracoloso. In altri episodi, come nel Noè ubriaco e deriso dal figlio Cam”, l’arca in lontananza dà chiarezza all’episodio, altrimenti non facilmente intuibile. O quando, ne “L’ultima cena”, “fotografa” il momento in cui Cristo solleva il calice, mostrandolo in piedi (in un atteggiamento un po’ dissimile dall’iconografia tradizionale). Originale è pure la rappresentazione di “Io sono la vite e voi i tralci”, interpretata con un estro mistico e di magico realismo che affascina.

Infine, Bertinotti non ha variato, rispetto al passato, i suoi colori che restano in effusioni emozionali di luce, dove ogni suo racconto per immagini è ben connesso nella testimonianza, non tanto del mito di Bacco (qui appena accennato), ma del rito col vino, che ha mantenuto invariata la sua valenza metaforica nei millenni, di volta in volta, abbinato all’ebbrezza, alla forza, allo spirito, al sangue sacrificale, all’amicizia, all’allegria. Ecco, allora, le opere disvelarsi a chi le guarda nelle stesse intenzioni che il pittore-poeta si era posto nel realizzarle.

Sergio Bertinotti - che vive e opera a Mergozzo, dove è nato nel 1938 - a partire dagli anni Ottanta, ha iniziato a dipingere paesaggi e quadri surreali dalla forte carica simbolica, con certe figure oniriche e mitologiche racchiuse, sovente, dentro ambienti dalle architetture metafisiche. Sebbene fosse infervorato dai colori già da ragazzo, sibertinotti 2 dedicò alla sua passione, fino a quegli anni, solo nei ritagli di tempo (Il pittore, oltre ad aver esercitato la propria attività lavorativa, è stato per anni Amministratore e Sindaco del suo paese. Sposato con Lidia nel 1965, avrà 3 figlie, Elena, Emanuela e Paola). In seguito, si perfeziona con lo scultore e grafico Mario Molteni (1935-1999) docente all’Accademia di Brera, con il quale dal 1988 ha condiviso lo studio di Candoglia sino alla prematura scomparsa del maestro, arricchendo la propria pittura di metafore e di mistero, sconfinando pure in un mondo lirico e ludico. Dopo la sua prima personale a Palazzo Visconti di Verbania-Pallanza nel 2001, Bertinotti ha allestito mostre a Ferrara, Firenze, Padova, Milano, Novara e in altre località, esponendo anche all’estero (soprattutto in Francia e in Austria) in numerose collettive. Di lui si sono interessati, su giornali e riviste, noti critici (tra gli altri: Marco Rosci, Giorgio Segato, Gianni Pre, i padri Vincenzo Coli ed Enzo Fortunato, Mons. Giovan Battista Gandolfo, Luigi Codemo). Un primo catalogo dei suoi dipinti è stato pubblicato dalla Edas di Padova, diretta da Carla Surian.

A partire dal Duemila, finalmente svincolato dagli impegni di lavoro (geometra libero professionista), la sua arte prende una svolta decisiva. Dipinge il ciclo delle “Storie di S. Francesco” (in cui ha raffigurato i momenti più significativi dell’esistenza del Santo, raffigurandone, in ogni scena, l’avvenimento, lo svolgimento e l’ambientazione, con naturalezza e con quella semplicità, spogliata del superfluo, conforme alla scelta di vita “in povertà” di S. Francesco) che fu esposto nel 2005 ad Assisi nel chiostro della Basilica del Santo; nella Basilica Santi Apostoli e a Castel Sant’Angelo di Roma; in seguito a “La Fabbrica” di Villadossola e in altre città. Per l’occasione, è stato stampato un volume con queste opere dall’Editrice “?ncora” di Milano. Nell’ottobre dello stesso anno, l’artista è stato invitato al programma “A sua immagine” su RaiUno, dove ha dipinto in diretta “S. Francesco e l’umiltà” e a fine trasmissione si è parlato anche del suo libro, dedicato alle storie del santo umbro, sulla “via della povertà”. Mentre nel 2008 la mostra con queste opere ha inaugurato la cappella, restaurata per l’occasione, del “Cantico delle creature” al Sacro Monte di Orta.

Bertinotti, nel frattempo, conclude la “Via Crucis”, dipinta conbertinotti via c molti personaggi, in una spazialità scenica e attorno a un paesaggio vasto, dove le singole “stazioni” sono affrontate con un tocco personale, sebbene narrate secondo la consuetudine della Chiesa, ma senza forzare il racconto in senso espressionista, anzi cogliendo, in un’atmosfera moderna, la passione di Cristo nella sua spiritualità e misericordia. La “Via Crucis” (che è anche oggetto di un volume edito da “?ncora”) è stata presentata e lasciata in mostra durante la Pasqua del 2008, nella Basilica S. Croce in Gerusalemme (presso la stessa Basilica, nel Museo di Nennolina, Beata Antonietta Meo, sono esposti in permanenza due suoi quadri dedicati alla Beata). Nel 2012 il libro, con risonanze musicali, immagini e recitazione, è stato inserito nel programma “Passio Novara 2012”.

È del 2010 la realizzazione di una coinvolgente “Via Lucis”, costruita su un racconto figurato di alta e intensa portata artistico-creativa, ispirata da un’estatica illuminazione interiore e che fu esposta al Sacro Monte Calvario di Domodossola. Questo “percorso” proposto dalla Chiesa in tempi recenti, è già stato affrontato da altri artisti, ma in una configurazione di tipo classico, mentre Bertinotti ne modernizza la struttura, con impostazioni grafiche e cromatiche che meglio aderiscono a una cultura contemporanea, nella doppia valenza religiosa e laica di cammino nella luce su questa terra e di speranza nella vita eterna.  Queste sue opere furono esposte al Convegno Eucaristico Nazionale tenutosi ad Ancona dal 3 al 10 settembre 2011, mentre il libro “Via Lucis” (sempre edito da “?ncora”) è stato musicato da Sergio Scapini e Giovanni Sardo (fisarmonica e violino) con proiezione delle diapositive dei dipinti in Basilica. Alle pareti della Sala della Meditazione dove è stato accolto per l’occasione il Papa, sono stati esposti i dipinti delle 14 stazioni della “Via Lucis”, ricavati dalle diapositive e stampati a misura reale (cm. 50x60).

Papa Benedetto XVI proclamava il 2012 “Anno della Fede” e l’Editrice “?ncora” chiedeva81GKeFjUAzL a Bertinotti se era disposto a dipingere episodi a essi correlati, così da pubblicare un volume analogo a quelli precedenti. Egli si consultò con Mons. Gandolfo che ritenne il consiglio essere la “via” da seguire, anzi gli suggerì pure come impostare le “stazioni”, non essendoci di questo “percorso” ricerche precedenti. Così Bertinotti preparò le tavole della “Via della Fede”, ponendo in luce in modo allegorico gli eventi, come li sentiva la sua percezione pittorica, nel rappresentare un mistero non spiegabile con la comprensione umana, ma la cui rivelazione ne coinvolge emotivamente la coscienza. Nell’ottobre 2012 al convegno nazionale UCAI a Roma, il libro è stato musicato, sempre da Sergio Scapini e Giovanni Sardo, con la proiezione delle diapositive dei dipinti. L’evento si è ripetuto nella Basilica dei Santi Martiri Vittore e Corona a Feltre, in provincia di Belluno.

In seguito alla prematura scomparsa della moglie, nell’aprile 2011 dopo una lunga malattia, l’artista aveva un po’ allentato la sua attività pittorica, ripresa in questi ultimi anni con la “Via Vitis”, nel 2019 oggetto di un’esposizione a “La Fabbrica di Villadossola”, della stampa di questo catalogo e di altre iniziative.

In generale, esaminando le sue opere nel complesso, si può concludere che la pittura di Sergio Bertinotti riesce a cogliere e a esprimere, in modo efficace e comprensibile, il senso del mistero che, nell’emozionante estetica della pittura, prende un vero e proprio valore artistico, attraverso un credo espresso nella serenità e nella gioia, dentro cui l’osservatore può ritrovare, con le sue emozioni e con le sue differenti percezioni di fede, la tessera di un proprio mosaico spirituale o semplicemente una personale riflessione intellettuale.           (Giuseppe Possa)

VIA VITIS: VIGNA, VINO E ARTE… VIAGGIO IN TERRA D’OSSOLA

(dalla postfazione di Pier Franco Midali)

Bevi del buon vino e lascia andare l’acqua al mulino. Chissà quante volte, nel corso dei secoli, abbiamo sentito ripetere questo detto popolare in terra d’Ossola, dove il territorio scosceso delle nostre valli è plasmato tra le rive terrazzate coltivate a vite e l’acqua dei torrenti che ruotava le macine dei mulini.  Pane e vino, ossia gli alimenti necessari a sostenere genti laboriose e infaticabili. Nasce da questa semplice constatazione l’idea di realizzare la “Via Vitis”, un itinerario legato alla vite e al vino dell’esperienza viticola di questa terra e insieme metafora e sostanza dei giorni nostri.  Tempi moderni in cui la viticultura sembra aver scoperto chissà quali prerogative, mentre in realtà altro non può che continuare l’antica arte enologica coltivata da appassionati viticultori.

Mi piace l’idea della metafora, cioè qualcosa che va a sostituire l’essenza o la funzione dellaIMG_E8241[1] moderna enologia sovrapponendola, se non sostituendola, con un’immagine forte e carica di espressività; un percorso tra le località ossolane, in cui la vite e il vino hanno segnato sia la storia delle borgate sia i volti rugosi dei vignaioli nostrani. E lungo questa parabola o questa metafora, c’è il lavoro paziente, motivato, intrepido e coraggioso di tanti agricoltori. Persone che hanno saputo tramandare l’arte antica della viticultura sino a farle meritare, da queste parti, l’appellativo di “eroica”. Un lavoro manuale, artigianale, quasi mai sostenuto da macchinari o attrezzature agricole automatiche, impossibili da utilizzare sulle rive terrazzate contornanti i villaggi alpini.  Un impegno scandito semplicemente dai ritmi della natura e dal susseguirsi delle stagioni che segnano l’esistenza di uomini e vitigni. Un lavoro che diventa arte, sia in cantina, sia nei vigneti.  Condito soltanto dalla naturale concretezza delle genti ossolane, che per secoli hanno saputo farlo diventare solida base su cui costruire un’economia familiare di sussistenza, una fonte di guadagno, uno straordinario modo di concepire e pianificare il territorio.  In definitiva, azioni quotidiane che ripetute per secoli si sono rivelate propizie a favorire la vita e garantire la permanenza su queste terre avare e difficili.

RZPC6797[2]Perché il lavoro si compie con le mani, infilandole dentro la natura, tra i sassi dei terrazzamenti e la terra umida in cui inserire le radici delle barbatelle. E si esprime anche con la voglia, direi con la volontà di interrogarsi continuamente sulla possibilità di migliorarsi e affinare il prodotto finito, il vino, rimettendo insieme le due metà del cielo: la terra e il progresso, la memoria e il presente, i ricordi e la modernità, per dare un’immagine vincente al proprio lavoro e farlo diventare “vino di qualità” o più semplicemente “vino ossolano”.

L’idea della “Via Vitis”, che a prima vista poteva sembrare una "boutade" o nulla di più di una frase spiritosa incapace di attirare l’attenzione di camminatori e addetti alla sentieristica, dovrebbe invece diventare oggetto di dibattito e di studio. Soprattutto dovrebbe avvicinare l’arte al vino e la pittura al patrimonio enologico locale. L’iniziativa entusiasmò il pittore di Mergozzo, Sergio Bertinotti, esperto realizzatore di cicli pittorici monotematici, e lo convinse a concretizzare, in un ristretto arco temporale, dapprima una serie di bozzetti con le tappe del percorso legato al vino e in seguito i quadri definitivi. Una serie di piccoli capolavori da incastonare in luoghi prestabiliti del cammino culturale-turistico-enologico della “Via Vitis”. Opere che dovrebbero essere posizionate nelle località del territorio ossolano, dove gli antichi torchi, le cantine a volta, gli edifici di culto o le osterie sanno ancora parlare del vino e della sua storia millenaria. 

I capolavori raffigurati, all’interno del libro che stringete tra le mani, bene si collocherebbero tra i reperti storici dell’enologia ossolana, oggi purtroppo soffocati da moderne costruzioni attigue o sostituiti dagli attuali arnesi di acciaio e vetroresina. In realtà, queste testimonianze, sono ancora in grado di regalare ricordi e sensazioni legate a un passato tuttora fecondo dal punto di vista estetico e incantevole per come sia potuto arrivare fino a noi.

KOFAE8715[1]L’idea è quella di coinvolgere il camminatore in un tragitto che sappia generare sensazioni, impressioni ed emozioni forti.  Un itinerario che possa appagare la curiosità grazie all’incontaminata bellezza dei luoghi e dei paesaggi e quella degli antichi edifici in pietra e dei reperti di legno.  Testimonianze ancora in grado di esprimere, nonostante le precarie condizioni di manutenzione o addirittura l’accantonamento, stupore per la semplicità con cui furono costruiti e incredulità per la praticità connessa al loro utilizzo. Questo tragitto altro non è se non un po’ di chilometri snodati tra siti storici e culturali di sicura, provata importanza e fortunatamente ancora a stretto contatto col nostro vivere quotidiano.

La “Via Vitis” è un itinerario enologico lungo le strade ossolane del vino, ancora mancante tra le innumerevoli proposte di sentieri “dedicati” di cui l’Ossola dispone. Ancor oggi si registra, infatti, un’insufficiente valorizzazione delle località del vino e dei reperti enologici, frutto della secolare esperienza viticola delle sue genti.  Con quest’idea si vorrebbe porre rimedio.  Se adeguatamente segnalato e promosso, il sentiero della “Via Vitis” potrebbe rappresentare un nuovo stimolo per la promozione e la commercializzazione dei prodotti ossolani derivanti dall’uva: vino, grappa, acquavite, liquori, elisir … A proposito di quintessenze, vi consiglio di sfogliare il libro con assoluta calma. Tra le pagine più belle troverete sicuramente l’esito del percorso della “Via Vitis” in forma “distillata”.

Perché la speranza di continuare a far conoscere e apprezzare l’arte di Sergio e la bellezza dei paesaggi vitati ossolani vi sorprenderà. E sicuramente ne varrà la pena… Non so se riusciremo a far sì che il camminatore consideri il vino come prodotto fondamentale della terra ossolana. Ci proveremo con costanza, ma soprattutto affiancando l’arte alla viticultura, perché, in fondo, il vino è il settore privilegiato della nostra aIMG_E8244[1]gricoltura e l’arte, l’essenza del territorio ossolano. È un mezzo in grado di attivare relazioni, consolidare amicizie, è un facilitatore culturale, un’occasione di unione, una ricarica per lo spirito e per l’allegria dei cuori. Se solo si riuscisse a far comprendere questo messaggio, cioè come il vino non sia solo un’occasione di degustazione ma un mezzo per trasportare il turista tra l’arte e la cultura ossolana, avremmo ottenuto il miglior successo in assoluto nella storia della viticoltura e del turismo di questa terra. Cultura e agricoltura, turismo e gastronomia, territorio e paesaggio, altro non sono che elementi di un binomio che mette in relazione la città e la campagna, l’agricoltura di montagna e i suoi modelli di sviluppo.

La vigna e il vino… una sorta di sale della terra d’Ossola.  Sono un passaporto in grado di traghettare il camminatore tra la bellezza del paesaggio e i sapori indissolubilmente legati a questo lembo di terra, incuneato tra i Cantoni elvetici del Ticino e del Vallese.

GFLS6728[1]Un antico proverbio ci ricorda che chi ha buon vino in casa, ha sempre molti amici alla porta… quindi non dovrebbe stupire se l’Ossola diventasse il territorio, in cui persone affezionate frequentino le osterie e i ristoranti posti lungo il percorso della “Via Vitis”. Del resto, nella cultura occidentale, la storia dell’uomo è sempre stata accompagnata da quella della vite e del vino.  Il nettare di Bacco, o il Vino della Nuova Alleanza, non è solo una bevanda inebriante, ma l’essenza stessa della gioia, della vita, della festa, della felicità. Un itinerario legato alla coltura della vite non può, quindi, preterire dalla riscoperta dei luoghi ossolani, dove il vino aveva un carattere sacrale. Da queste parti quasi tutte le famiglie lo producevano e la bevanda, quotidianamente, era presente sulla tavola.

La “Via Vitis” dovrebbe prendere origine nel comune di Villadossola in località Gaggio, nel luogo in cui i vigneti ancor oggi coltivati tra muri a secco e terrazzamenti, “schengian” e “palancher”, parlano ancora una lingua antica. Prima di attraversare il fiume Toce e raggiungere il Comune di Beura Cardezza, l’itinerario percorre i sentieri della collinetta dello sport facendo incontrare il vino con la cultura e il divertimento. Risalendo i tratti di strade romane ancor presenti, la Via Vitis attraversa i vigneti di Cosasca per raggiungere Trontano, il cuore della viticoltura ossolana.  

La ridente frazione di Pello è considerata la località ossolana più idonea, per clima ed esposizione al sole, alla piantagione della vigna. Masera e Montecrestese, i comuni successivi a essere interessati dal passaggio della “Via Vitis”, hanno una storia vinicola degna di nota con reperti ancor visibili atti a documentarla. Oira, frazione di Crevoladossola, fa da spartiacque tra la parte di sentiero che raggiunge l’istituto agrario Fobelli di Crodo, nella valle Antigorio, e quello che attraversando le frazioni alte di Crevola ci porta a Monteossolano, in val Bognanco.

Domodossola, con i vigneti delle frazioni di Vagna, Calice, Crosiggia e Anzuno, non puòIMG_E8243[1] essere esclusa dalle regioni ossolane interessate dall’itinerario turistico legato al vino. Il capoluogo ossolano è, inoltre, la località dove il vino ha i migliori spazi espositivi e di vendita. Il tragitto riporta poi il turista a Villadossola attraverso i Vigneti di Tappia, un tempo comune autonomo e oggi ridente località del secondo centro ossolano.  Attraverso le frazioni Noga, Boschetto e Casa dei Conti, luoghi in cui le cantine ancor oggi visibili meravigliano per lo stile architettonico, si arriva a Varchignoli, la zona dove l’archeologia del vino è così evidente da lasciar trasparire tutta la storia della sua coltivazione.  

L’ultima tappa della “Via Vitis” incontra i terrazzamenti di Viganella, oggi frazione di Borgomezzavalle, e l’esperienza vinicola delle sue genti, le uniche in Ossola che pensarono di mettere il simbolo della vite nello stemma comunale.  Ogni “stazione” del percorso, qualora il progetto decollasse nella sua versione definitiva, sarà contrassegnata da una delle opere dipinte da Sergio Bertinotti e mirabilmente descritte all’interno del volume.

Mi è piaciuto moltissimo ragionare con Sergio e Giuseppe le ipotetiche tappe artistiche della “Via Vitis”. Ricercare nella mitologia, nel vecchio e nuovo testamento, nel libro dell’Apocalisse e nei classici le “immagini” da imprimere sulla tela è stato come compiere un viaggio nella storia dell’uomo e del suo pensiero religioso. Ci siamo inoltrati in un territorio solitamente di competenza di storici e teologi, ma lo abbiamo fatto con la leggerezza di chi, “sapendo di non sapere”, cammina nei tempi e nei luoghi del lontano passato, alla ricerca del divino nel mondo del vino.

IMG_E8245[1]Gli studiosi assicurano che la vite era conosciuta dall’uomo già trecentomila anni fa. Così non è stato difficile trovare le “immagini” da rappresentare sulla tela, per descrivere la storia della vite e del vino. Tutte le civiltà antiche, infatti, collegavano il vino alle loro mitologie e ai loro pensieri filosofici o religiosi. Inoltre, la vite entrava spesso in scena dopo un grande diluvio, a seguito del quale la divinità la offriva agli uomini quale ricompensa per la loro bontà e come patto di una nuova alleanza. La bevanda era il mezzo che consentiva all’uomo di diventare simile agli dei.  

“Il vino è la poesia della terra” scrisse Mario Soldati, e questo motto ci riporta in terra d’Ossola, richiamando lo stretto legame che la civiltà contadina di queste Valli ha con la vite e con il vino.  I paesi toccati dalla “Via Vitis” profumano di laboriosità. Sono luoghi dove la terra coltivata a vigneto è intimamente legata all’agricoltura, al paesaggio, alla cultura e alla storia delle loro genti.

Con un vecchio proverbio ho voluto iniziare questa dissertazione e con un altro detto popolare la chiudo: “Vangami nella polvere, incalzami nel fango, io ti darò buon vino”. Chiedete ai viticoltori nostrani l’intrinseco messaggio racchiuso nella citazione. Chiedetelo quando li incontrerete lungo il percorso della “Via Vitis” e scoprirete l’anima della Terra d’Ossola, quell’intimo che rischiamo di perdere. (Pier Franco Midali)

Intervista a Pier Franco Midali sul percorso ossolano della "Via Vitis" https://pqlascintilla.wordpress.com/2018/10/24/la-via-vitis-di-sergio-bertinotti-intervista-a-pier-franco-midali/#more-2853

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“Boschi dipinti”: mostra di MARIO PASQUALINI a Domodossola

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L’esposizione delle sue fotografie è visitabile allo Studio Quadra di Domodossola (via Marconi 26) fino a fine agosto (orari d’ufficio: da lunedì a venerdì: 8.45 - 12.45 e 15.00 - 18.45; sabato: 8.45 - 12.45). I suoi sono boschi incantati con immagini dal taglio per lo più verticale, realizzate con la tecnica del mosso intenzionale, ottenuto facendo oscillare la fotocamera durante il tempo di posa, così da ottenere l’effetto del movimento. Ne parliamo con la professoressa Anna Brambati.

La mostra di Mario Pasqualini è stata inaugurata a metà maggio, dalla prof.ssa Anna Brambati. Con questi scatti il fotografo di Villadossola vuol far “vivere” i suoi “boschi dipinti” cogliendoli in scorci o spazi emozionanti, in particolarità atmosferiche, utilizzando intuizioni personali, ma muovendo il mezzo fotografico verticalmente, ma anche orizzontalmente, in modo intenzionale così da ottenere un effetto di movimento della natura. Alla presentatrice abbiamo posto alcune domande.

Prof.ssa Brambati, ci parli innanzi tutto dell’autore.

<<Mario Pasqualini è un fotografo-artista “ossolano” - nato nel 1947 a Milano, vive e operaPB173978web a Villadossola (VB) - che si è fatto notare sulla scena artistica grazie alle numerose mostre personali e collettive e alla partecipazione a vari concorsi, nei quali ha spesso vinto o ha comunque ottenuto risultati eccellenti classificandosi ai primi posti, anche in concorsi di carattere internazionale. E ci spieghiamo chiaramente questo “primato”, perché le sue fotografie sono davvero belle: di altissima qualità tecnica, e soprattutto di grande impatto emotivo>>.

Quali sono le sue qualità.  

<<Gli scatti di Mario esprimono sempre il suo mondo interiore sognante, poetico, affascinato, proprio di colui che sa guardare la realtà con occhi stupiti che cercano una nuova prospettiva, un punto di vista diverso dal comune, perché Mario sente che dietro l’apparenza del reale si cela qualcosa di più profondo. Proprio quest’ultimo significato intrinseco diventa il vero protagonista delle opere dell’artista, il quale si avvicina ai suoi soggetti “in punta di piedi”, con il massimo rispetto, come un osservatore incuriosito che scopre la novità, la freschezza che comunicano anche gli oggetti più semplici e che noi, con uno sguardo superficiale, talvolta diamo “per scontati”>>.

Che invece Mario Pasqualini ben coglie nei suoi lavori, sia in quelli passati, più classici, sia in quelli recenti, più moderni.

P6036356web<<Infatti l’artista, ha sviluppato presto la passione per la fotografia e inizialmente ha realizzato immagini di tipo classico, ispirate alla natura. Troviamo allora stupendi primi piani di fiori di campo (crocus, mughetti, narcisi, genziane…), paesaggi dall’ariosa profondità e di grande nitidezza colti in diversi momenti dell’anno (penso alle immagini di Devero, Veglia, Sempione, del fiume Toce…), animali (dai gatti domestici o randagi alle marmotte e agli stambecchi montani). Già questi primi soggetti naturalistici sono indagati da Mario con grande delicatezza e attenzione, che si manifestano nella resa formale attraverso la cura della composizione spaziale, delle luci, del taglio della scena: tutta questa perizia determina un ottimo equilibrio compositivo>>.

Questo per quanto riguarda il passato, mentre oggi?

<<La passione che lo animava all’inizio del percorso artistico non è mai venuta meno, tanto che il fotografo ha voluto cimentarsi con tecniche diverse e nuove idee, allontanandosi un po’ dalla maniera tradizionale per sperimentare una fotografia maggiormente “personale”, in cui l’elemento visivo viene interpretato in modo più soggettivo. È possibile che su questa “nuova maniera” abbia influito anche l’esperienza pittorica, a cui l’artista si è dedicato per alcuni anni. In particolare, le fotografie esposte allo Studio Quadra mostrano i risultati ai quali Pasqualini è pervenuto, e sono esiti di alta qualità e grande capacità comunicativa>>.

Prof.ssa Brambati, qui troviamo una grande varietà di immagini. Ci può evidenziare le caratteristiche principali?

<<Come può notare, ci sono elementi in primo piano, come tronchi d’albero singoli o in gruppo che campiscono lo spazio centrale dell’opera; taluni sono animati da un impeto dinamico e sembra che ci vengano incontro correndo, staccandosi da uno sfondo autunnale dai toni marroni e verdi. Scopriamo stradine e gallerie di alberi dalla chioma verde, simili a tunnel che immettono l’osservatore verso qualcosa di misterioso: siamo guidati dalle linee compositive in direzione del fondo dell’immagine, quasi alla ricerca di un segreto (il sentiero ci conduce lontano e noi non sappiamo cosa ci sarà oltre l’ultimo albero o dietro la curva…); il corso di un fiume riflette la natura circostante definendo una cornice arborea alle sue acque. È una cornice morbida e vibrante che attira lo sguardo incantato e oscillante dell’osservatore tra acqua e cielo>>.

Noto che in alcune fotografie il mosso intenzionale è più intenso.

<<Esatto, allora, pur intuendo la forma, la nostra mente è portata a dimenticarla per unPA193186web attimo: ci concentriamo di più sulle macchie cromatiche per lasciarci trasportare in un’atmosfera di sogno, dove tutto può accadere. In altri casi, le chiome pendenti degli alberi ci ricordano i filamenti colorati dei fuochi d’artificio: spettacolari fontanelle luminose, che dopo l’esplosione ridiscendono verso terra. Infine, merita attenzione la foto di locandina: bellissima! La fotocamera questa volta si è mossa in obliquo generando un effetto pittorico, come se si trattasse di pennellate che vanno dal basso verso l’alto e da sinistra a destra. Da un tappeto in primo piano di morbida erba secca prendono vita le forme di alcuni alberi, tra cui un sempreverde e una pianta dalla chioma ingiallita dall’autunno>>.

Emerge anche, mi pare, la conoscenza che Mario ha del mondo della pittura?

<<In lui, la lezione dei maestri impressionisti si fa sentire nella capacità di cogliere il momento, nella brillante luminosità, nella vibrante resa dei soggetti e nel lieve disfacimento dei contorni. Bianchi, verdi, grigi, gialli, azzurri nelle loro diverse gradazioni animano questa fotografia che propone un sereno paesaggio, percepito dal fotografo poeticamente, per comunicare quel senso di calore e armonia che si può provare passeggiando in un bosco in una tiepida giornata autunnale>>.

La prof.ssa Anna Brambati ci invita, per concludere, a lasciarci allora guidare dalle immagini di suggestiva bellezza del fotografo Mario Pasqualini, chiudendo per un momento fuori dalla porta i rumori del quotidiano ed entrare nel suo mondo incantato, dove forme, luci e colori vibranti ci sapranno emozionare.

(a cura di Giuseppe Possa)

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(foto Carlo Pasquali) - Pasquale Natale (St. Quadra), Anna Brambati, Mario Pasqualini
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