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PQlaScintilla intervista Massimo Nesti

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un artista che dipinge le forme del corpo umano avvolte e spezzate da vortici e linee di forza che ne scandiscono il ritmo.

Massimo Nesti, un pittore nel pieno della sua maturità artistica, vive e opera aMassino_Nesti_TouchArt Senigallia, nelle Marche, dove organizza corsi di disegno, pittura, grafica, illustrazione, design e fumetto lavorando a stretto contatto con la sua compagna Cristina Verdelli. Qui, promuove e propone progetti didattici e formativi, seguendo con professionalità e passione i giovani studenti o gli adulti che vogliono avvicinarsi al settore della comunicazione.<<Mi occupo della gestione e dell'organizzazione dei corsi di Arti figurative nello “Spazio Artistico NV.ART di Senigallia>>, mi dice al telefono, quando lo contatto per un’intervista.

Nato a Milano nel 1967, Massimo Nesti ha frequentato il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti di Brera, laureandosi in pittura nel 1991. È ormai un artista affermato e quotato; ha esposto a Tokio, Strasburgo, Milano, Innsbruck e in molte prestigiose gallerie nazionali; le sue opere sono state apprezzate da pubblico e critica e sono incluse nel Catalogo Generale dell’Enciclopedia d’Arte Italiana, in annuari, giornali e riviste nazionali.

Massimo, quando hai iniziato a dipingere?

<<Ho scoperto l'acquerello, la tempera, l'acrilico e le matite alle scuole medie, ma già da piccolo ero attratto dal disegno e dalla pittura. Purtroppo, durante le elementari non ho avuto un valido supporto da parte della maestra>>.

Quali furono i tuoi studi successivi e come hanno accettato in casa la tua scelta?

<<Quando decisi di frequentare il Liceo Artistico Statale a Milano la risposta dei miei genitori fu perentoria e decisa: "Massimo tu lo fai e lo finisci senza essere respinto neanche una volta">>.

E naturalmente fu così, anche se ti sarai dovuto piegare a duri sacrifici!

<<Sì, certo; ma furono gli anni più belli della mia vita: avevo trovato, oltre che dei compagni di classe, anche dei validi amici che ancora oggi, a distanza di 35 anni, sento e vedo di frequente; eravamo una classe eterogenea ma unita. Mia madre e mio padre mi sono sempre stati vicino, spronandomi e sostenendomi nei momenti più difficili della mia vita; li ringrazio e sono grato per tutto l'aiuto morale e materiale che ho ricevuto>>.

È da allora che hai deciso di frequentare l’Accademia di Brera?

<<Sì: al liceo avevo imparato a rafforzare le mie conoscenze, approfondendo molto la copia dal vero, le tecniche, la storia dell'arte, ma anche altre materie come chimica, biologia, matematica e anatomia. Scegliendo poi l’Accademia, ho trascorso anni di creatività, di arte, di colore, di scoperte e di confronti>>.

Ho notato che tra i docenti di Brera hai avuto Saverio Terruso (Monreale, 1939 – Milano 2003), un Maestro di fama che conoscevo e apprezzavo, come mai questa scelta?

nesti 1<<Perché sono sempre stato affascinato dalla pittura figurativa, dall'arte dell'Umanesimo e del Rinascimento; dalla Scuola dei Carracci, di Guido Reni, di Caravaggio con la sua luce e dei caravaggeschi; da Frans Hals e da Rembrandt. Il professor Terruso esigeva da noi tanti disegni, studi del corpo umano e copie dal vero; nello sfogliare le mie prove durante il primo anno di accademia, mi disse: "hai un bel segno, continua a lavorare così, migliorerai sicuramente e raggiungerai un tuo stile personale". Terruso mi ha dato molto, perché insegnava seriamente e la sua pittura, così ricca di colore e gradazioni tonali accese, ha decisamente influenzato la mia sensibilità cromatica. Dal 1986 al 1991 ho vissuto l'accademia e il suo ambiente in modo propositivo>>.

Sarai stato incuriosito anche da altri programmi e docenti di corso.

<<Un altro docente al quale sono riconoscente per la sua disponibilità e per le sue preziose indicazioni e consigli è il professor Maurizio Volpi, che tuttora insegna all'accademia di Carrara. Amo il figurativo ma ho consegnato una tesi con il professor Francesco Poli sulla pittura di Ennio Morlotti e l'informale in Italia. Anche il modo morlottiano di stendere il colore, a colpi di spatola e con pennellate dense di materia, ha influenzato il mio stile>>.

Parla della tua ricerca.

<<Come ti ho già anticipato, la mia ricerca ha quali pilastri fondamentali la luce nellanesti 3 pittura del Seicento (Caravaggio, Rembrandt, i Carracci), le gradazioni tonali di un figurativo espressionista, le linee di forza che determinano la dinamica e l'equilibrio della composizione e la fisicità della materia rilevata e ritrovata in un artista informale come Ennio Morlotti, che ebbi l'immenso piacere di conoscere alla galleria Bergamini di Milano. La mia pittura attuale è figurativa ed espressionista con alcuni rimandi allo stile seicentesco, da cui non riesco a liberarmi facilmente, anzi mi lascio attirare in maniera instancabile e con “devozione”. La mia azione si focalizza nel calibrare bene spazio, segno, luce e colore all’interno delle mie composizioni, in modo da comunicare un certo tipo di figurazione contestualizzata ai giorni nostri, ovvero attuale, con emozioni odierne, pregne della rapidità dei mezzi contemporanei.

Quali sono stati i tuoi cicli pittorici?

<<Posso per ora definirne due: la ricerca delle “tonalità del paesaggio informale”, e “Uomo nesti 6e Materia”. Tutto iniziò con la scoperta di un bellissimo testo che ho approfondito insieme ad altri libri per un esame con il Prof. Roberto Sanesi, allora docente di Brera; il testo in questione è “The Waste Land” di T.S. Eliot che Sanesi mi fece conoscere e studiare alla perfezione. In questo primo ciclo, ho rappresentato la visione di un uomo moderno sempre in lotta con sé stesso e con gli altri, il quale però riesce a riscattarsi dalla sua dimensione con la forza interiore della sensibilità, di fronte alla bellezza del colore e della luce. Il secondo ciclo è una riflessione sul Paesaggio Informale, costruito sulla memoria e sui ricordi di immagini della natura, in cui riprendo e, seppur con diversi obiettivi, recupero lo stile e il modo di dipingere di Ennio Morlotti, approfondendo la tematica di una rappresentazione della natura vista nella fisicità della materia>>.

Cosa dipingi ora e come classifichi la tua pittura attuale?

<<Ora sto lavorando a una rappresentazione della visione dell'uomo in lotta nel terzo millennio e a una ricerca di salvezza basata su una realtà interiore costituita da cromie in armonia fra loro e con l'ambiente circostante. È un approfondimento sulla bellezza che parte da una base classica e che si trasforma per mezzo della materia e delle linee di forza nesti 2in una nuova dimensione libera ma, nello stesso tempo, ordinata ed equilibrata. Le mie opere non nascono a caso, ma tendo sempre a usare un metodo classico di schizzi preliminari, studi e disegni preparatori che mi indicano chiaramente come procedere per la scelta degli spazi, delle tonalità, dell'equilibrio dei soggetti e delle linee di forza che determinano il movimento e la velocità nello spostamento interno dei protagonisti della composizione. La base è figurativa e i dipinti molto spesso sono rappresentazioni di battaglie, lotte, corpi in lotta, combattimenti dove, in alcuni casi si scorgono elementi dell'età antica (elmi, frammenti di corazze, stendardi e scudi) e le cromie chiaroscurali si sciolgono lentamente in tonalità espressioniste, dove segno e colore predominano e la materia del colore si nota nel suo agglomerarsi in varie superfici della tela. Nelle mie opere la comunicazione è fondamentale, primaria: non voglio nascondere, desidero che lo spettatore entri nell'immagine e si ricordi dell'emozione e dell'intensità che prova in quel momento; la sensazione deve essere una percezione di benessere, libera da qualsiasi vincolo, positiva, la quale sappia trasmettere una percezione salutare che scalzi sentimenti negativi e distruttivi! Tra la pittura del passato e il mio modo di espressione esiste un legame ben stretto: è un legame fondato su un lavoro quotidiano di ricerca instancabile e di scoperta, basato su temi della pittura innovativa del Seicento e della scomposizione del colore dai divisionisti, come Previati e Segantini, ai macchiaioli toscani, fino ad arrivare alla dinamicità delle linee di forza e delle scomposizioni di piani cromatici>>.

Che significa essere artista oggi?

<<Significa riprendere in “mano” completamente il mestiere; aggiornarsi con le altre forme d'arte ed espressioni come il fumetto, l'illustrazione, la scultura, il disegno d'animazione nesti 4(quindi provare le tecniche, i nuovi materiali che si usano in quelle discipline). Secondo me, oltre al proprio Studio, occorre “creare”, quando si è acquisita un’ottima professionalità, anche una “Bottega Moderna", che diventi un punto di riferimento per neofiti, amanti dell'arte o professionisti, in modo tale da divulgare l'arte, i suoi segreti e le sue tecniche e creare “community” per la realizzazione personale e artistica di ognuno. Oggi un artista è un intellettuale, un comunicatore, è una persona che sta insieme alla gente per capire le esigenze e i problemi della gente; è un insegnante, uno sperimentatore; è una persona che deve avere la possibilità di esprimere la sua arte in modo globale e in tutto il mondo. Ci sono molti giovani assai motivati che frequentano la nostra “Scuola d'arte-NV.art” a Senigallia e noi insegniamo loro a lavorare senza sosta, non cedendo a nessuna incertezza o sfiducia, coltivando una libertà di esprimersi anche interiore (per informazioni: www.nvart.it)>>.

Giuseppe Possa

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Pubblicata la rivista annuale 2019 della Comazzi Bus

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Dopo il successo del primo numero pubblicato nel 2018, anche quest’anno la Società ComazziIMG_0801 distribuisce un periodico di bordo, “Comazzi: Bus(Direttore Responsabile: Raffaele Frassetti), che informa e illustra la propria attività con le fotografie “artistiche” (non solo promozionali) di Carlo Pessina. Infatti, puntuale a Giugno 2019, è uscito il nuovo numero dell’interessante iniziativa editoriale e bisogna subito dire che riviste patinate, belle, di oltre 120 pagine, come questa, in tempo di piena crisi, tirate in 5000 copie e distribuite gratuitamente è difficile trovarne in giro.

Ciò dimostra che l’Amministratore Carlo Galli, con il figlio Nicolò, ha fiuto, buon gusto e un occhio al territorio in cui opera l’azienda e di cui è proprietario con la famiglia. LaIMG_E0806 graziosa pubblicazione si trova negli esercizi turistici, negli enti, nelle scuole e naturalmente negli uffici e nei retro schienali degli autobus Comazzi. Carlo Galli nella presentazione asserisce che: “Obiettivo del progetto è di portare a conoscenza i nostri clienti delle novità e degli sviluppi aziendali, e naturalmente pubblicizzare le zone dove operiamo. Si trovano, inoltre, alcune interviste rilasciate da amministratori locali, amministrazioni scolastiche e aziende del territorio, ma soprattutto per scelta tanto materiale fotografico”.

Scorrendola, oltre alle stupende immagini di Pessina, colte in un percorso che va “dalle risaie ai laghi alle alpi”, si possono leggere servizi interessanti. Le pagine iniziali, più di IMG_0808trenta - firmate da Beba Schranz - sono dedicate all’intero territorio, in un viaggio che va da Novara alla Val d’Ossola, attraverso l’Alto Vergante, i laghi (Maggiore, Orta e Mergozzo) passando dal Mottarone. Seguono le interviste ai sindaci Sergio Bossi di Borgomanero (crocevia per laghi, montagne, pianure e una realtà economica, sociale e culturale di ampio rilievo) e l’On. Alberto Gusmeroli di Arona che invita i lettori con buoni motivi ad andare a visitare la città e i suoi dintorni. Proseguendo poi a sfogliare la rivista, Pierantonio Ragozza, Preside del Liceo Giorgio Spezia di Domodossola, mette in luce la storia di una scuola prestigiosa, istituita nel 1972 come Liceo scientifico e che oggi ha anche nuovi corsi: Liceo classico, Liceo linguistico e Liceo economico sociale.

galli 1 e 2Seguono, infine, alcuni articoli con riferimenti più turistici e naturalistici, come “I parchi naturali Veglia, Devero e Valle Antrona” di Carlotta Beltrami; “Ossola outdoor center trekking” di Andrea Burgener che fa scoprire, nell’anno del turismo lento, le bellezze del nostro territorio senza utilizzare l’auto; e ancora Marco Calzone scrive dei 70 anni di Palzola, una moderna azienda casearia di Cavallirio (NO), fondata nel 1948 da Renato Paltrinieri e oggi amministrata da Sergio Poletti. Per concludere, Chiara Pagani, ci racconta la storia, quasi una fiaba, della Fondazione Ruminelli, istituita nel 2017 con il lascito di Paola Angela Ruminelli, spentasi all’improvviso nel 2016, che con eccezionale generosità offrì alla città di Domodossola per la conservazione e diffusione della cultura ossolana.

Giuseppe Possa

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Alessandro Chiello espone all’Acli di Villadossola

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Inaugurazione venerdì 23 agosto alle ore 17,30. Per la prima volta i quadri dello scrittore ossolano, noto soprattutto per aver dato alle stampe numerosi romanzi giallo-noir, sono presentati al pubblico. Una succinta antologica che racchiude figure, paesaggi o scene di vita, con evidenti richiami alle proprie passioni e ai propri miti giovanili, in un vibrante astratto-informale.

VILLADOSSOLA - Ci sono pittori che scrivono e scrittori che dipingono, tra questi ultimi in Ossola c’è Alessandro Chiello (nella foto di Beppe Fusè), noto soprattutto per i numerosi romanzi giallo-noir pubblicati. Ora ha deciso di proporre al pubblico anche i suoi quadri che fino a oggi ha sempre dipinto solo per diletto e ciò che sente non ciò vede. Infatti, in concomitanza con i festeggiamenti di S. Bartolomeo, proporrà una serie di opere all’Acli centro, via Marconi 1, di Villadossola. La mostra, visitabile negli orari di apertura del circolo (domenica chiuso), sarà inaugurata Venerdì 23 agosto alle 17,30 dal presidente provinciale Acli Carlo Poli, con interventi di Pier Franco Midali e del sottoscritto. Seguirà un rinfresco conviviale, con ingresso libero a tutti.  

“Colori oltre il giallo noir” è il titolo della rassegna che pare avvolgere in un cromatico alone di mistero la passione principale dell’autore: quella letteraria. La sua ricerca, tra figurativo e asVUEN5423[1]tratto, è di certo influenzata dalle conoscenze che possiede, essendosi laureato in Storia dell’arte, e dalla pubblicazione di alcuni suoi volumi dedicati alla lettura di importanti opere esposte nei principali musei. Questa succinta antologica racchiude figure, paesaggi o scene di vita con evidenti richiami alle proprie passioni e ai propri miti giovanili, oltre ad altri sviluppi contrassegnati da sperimentazioni e suggestioni impressioniste, surrealiste o informali. Tutte le tele sono animate da un gesto segnico immediato o di libertà espressiva e da intensi, vibranti, accordi cromatici, che comunicano emozioni attraverso linee e trame dalle impercettibili vibrazioni. I suoi colori s’intrecciano in un groviglio di elementi impregnati da una pulsante energia istintiva e interiore, ma nello stesso tempo sospesi in una struttura formale di mirabile coSSSN8568erenza. A caratterizzare in modo peculiare la dimensione visionaria di queste composizioni, oltre alle figurazioni, ci sono simboli e metafore che si fondono armonicamente in sperimentazioni originali.

Alessandro Chiello, classe 1970, vive a Domodossola e si è laureato in Storia dell'Arte. Ha già pubblicato sedici libri, tra saggi e romanzi, da quello giovanile, “Il re di Parigi”, ai gialli noir della serie del commissario Gegè, fino ai recenti “Per sempre” (ed. Eclissi) e “Viaggio tra le tombe dei grandi”. Interessante il suo volume “Emozioni”, una personale descrizione e interpretazione di venti capolavori che hanno reso esaltante il percorso della storia della pittura attraverso i secoli. Tutti i suoi volumi sono reperibili alla “Libreria La Pagina” di Villadossola.

Giuseppe Possa

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https://pqlascintilla.wordpress.com/2019/03/09/alessandro-chiello-per-sempre-eclissi-editrice-milano-pg-225-e-12

https://pqlascintilla.wordpress.com/2019/04/25/alessandro-chiello-allombra-dei-cipressi-viaggio-tra-le-tombe-dei-grandi-ed-la-pagina-villadossola-pg-200-e-15

https://pqlascintilla.wordpress.com/2018/05/24/alessandro-chiello-il-vagabondo-che-amava-mozart-ed-la-pagina-villadossola

https://pqlascintilla.wordpress.com/2017/03/16/alessandro-chiello-morti-a-venezia/#more-1221

Al Balabiòtt di Domodossola espone Michele Scaciga

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Al gastropub "Balabiòtt" di Domodossola, in via Binda 16, alcuni quadri del pittore e geniale artista Michele Scaciga, resteranno esposti fino a fine agosto. Il personale tratto informale, dinamico e sicuro, rendono esclusive le sue creazioni.

Michele ScacigaIMG_E0886[1], padrone del disegno, delle tecniche gestuali e cromatiche (dopo il diploma di geometra, ha frequentato a Milano la “Scuola di Fumetto” in via Savona e al Castello Sforzesco la “Scuola di Arte e Messaggio”), è stato il primo pittore ossolano - e allora era giovane - ad accorgersi che il mondo delle arti visive stava cambiando rapidamente, “contaminato” dai nuovi mezzi di comunicazione e di fruizione delle opere.  Così ha pensato bene di usufruire di queste recenti - in quel periodo - modalità epocali, diventando uno dei professionisti locali, ma non solo, più apprezzati e ricercati. Nel contempo, tuttavia, ha sempre dipinto anche con tavolozza e con mezzi o strumenti tradizionali, alla maniera classica, mosso da una grande passione. In pittura ha lavorato su temi che riguardano la sofferta vita dell’uomo, ne ha indagato i malesseri esistenziali, testimoniando, in particolare nel suo primo decennio, un reale disagio e rilevando le inquietudini contemporanee.

In seguito, non sono mancati soggetti più distesi, con animali, miti e archetipi, nudi, figure, ritratti e volti inquietanti. Il tuttIMG_E0887[1]o espresso con un segno grafico forte, quasi incisorio, con cromie intense e vive, che lasciano emergere la carica geniale dell’autore. Lo testimoniano un CD giovanile, le numerose mostre (in particolare quelle nella prestigiosa associazione culturale svizzera Kunstverein Oberwallis), unitamente ai numerosi articoli su giornali, riviste e video. Naturalmente, Scaciga (di Baceno, classe 1968) nel frattempo ha insegnato disegno e pittura; ha operato nel campo del fumetto, della grafica e della pubblicità (ha prodotto spot a cartoni animati e cortometraggi); ha realizzato installazioni artistiche, ha ideato soluzioni per creare videoarte e videogame interattivi, anche per scopi didattici (ne sono un esempio le due installazioni permanenti al Museo del Profumo di S. Maria Maggiore). Ha vinto il primo premio al concorso “Malescorto”, ma ha pure conseguito altri premi e riconoscimenti importanti.

AL BALABIOTT - Ora, mi fermo per un aperitivo al gastropub "Balabiòtt" di Domodossola,IMG_E0888[1] in via Binda 16, e noto alle pareti, alcuni quadri di Michele Scaciga, che resteranno esposti, com’è scritto, fino a fine agosto. Queste composizioni recenti su tavola in tecnica mista, completamente diverse dalle precedenti, sono astratte, liricamente evocative, dentro cui - in ritmiche strutture ambientali e architettoniche dalle cromie tenui e sapientemente distese - paiono vibrare energie vitali. In queste raffinate tavole l’autore ha saputo abilmente combinare estensioni di colori ocra, bianchi, grigi, ravvivati da altri più caldi, dentro scansioni spaziali, in cui regna un ordine geometrico tramato da segni grafici sottili o, a seconda, più marcati a dare vita a zone di differente valore tonale.

IMG_E0890[1]In altre opere, qui non presenti, l’artista sceglie una tessitura cromatica più forte, squillante, sapientemente giustapposta, con un’attenzione ai diversi colori. È facile intuire in lui una profonda conoscenza della cultura pittorica del passato, dal rinascimento all’impressionismo, via via fino al contemporaneo, frutto di una tensione passionale, immune da cedimenti romantici.

Ecco, la lezione intima di Michele Scaciga: le emozioni che ci trasmette si percepiscono scavando dentro e osservandole attraverso queste impercettibili, trasognate, forme poetiche che evitano le secche di un astrattismo assoluto e favoriscono una elegia luminosa. Il personale tratto informale, dinamico e sicuro, rende esclusive le sue creazioni.

Giuseppe Possa

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A Gladys Sica per la poesia e a Luigi Papanice per la narrativa il Premio “BOGNANCO” 2019. Il Premio alla carriera a Umberto De Petri.

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col patrocinio del Comune e delle Acque Terme di Bognanco

Domenica 14 luglio 2019,  al Padiglione Rubino di Bognanco Terme (VB)

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si è svolta la cerimonia di premiazione dei vincitori del “Concorso di poesia e narrativa Bognanco Terme 2019” con interventi della presidente del premio, Elisa Contardi; del sindaco Mauro Valentini, che ha consegnato le targhe ai vincitori; dei critici letterari e d’arte: Enzo Nasillo e Giuseppe Possa. Franco Gattuso, presidente A.D.A. di Domodossola, Cosimo Russo (segretario) e Valter Zanetta, senatore emerito, hanno consegnato i diplomi offerti dall’associazione. E' poi seguita, a cura di Tino Malini, la presentazione del libro “Storie dell’altro mondo” dello scrittore bognanchese Giancarlo Castellano (https://pqlascintilla.wordpress.com/2019/04/19/giancarlo-castellano-storie-dellaltro-mondo). A Umberto De Petri è stato consegnato il premio alla carriera, per l'occasione è intervenuto il suo editore Gilberto Salvi di Mnàmon (MI). Il pomeriggio, con la presenza delle donne in costume della Val Bognanco, si è concluso con un rinfresco conviviale. Fotografo ufficiale Michele Frasca.

http://www.ossolanews.it/bognanco/montale-e-flora-erano-in-giuria-al-premio-bognanco-nel-51-20661.html

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La giuria composta da: Elisa Contardi (Presidente), Monica Mancini (Segretaria), Giuseppe Possa (Critico d’arte), Ada Biancossi (che leggerà i testi dei vincitori, alternandosi con la poetessa Laura Savaglio) ha assegnato i seguenti premi:

Poesia 

 1° premio a Gladys Sica di Milano con la poesia “La guerra che sommerge”: <<Lirica67236394_10215557373227057_2155228071035142144_o intensa, commovente e ricca di phatos, questa di Gladys Sica, poetessa italo-argentina, dettata da profonda riflessione interiore, dove il richiamo alla guerra - scatenata per egoismo o per una perenne conquista del potere e del dominio - diventa un’accorata esortazione per scongiurarla. Il suo ammonimento allegorico, non privo di speranza, è un invito, dall’intimismo soggettivo al sociale universale, affinché la nostra civiltà possa eliminare le sopraffazioni, le violenze, gli sfruttamenti scatenati ovunque tra gli uomini, ma, in coscienza, anche contro la natura o le altre specie. Tenendo conto che la poetessa è pure un’affermata pittrice e scultrice, i suoi metaforici versi appaiono quali pennellate di una tavolozza dalle forti tinte, spatolate dai colori multiformi o incisivi colpi di scalpello nel quotidiano e tormentato scorrere della Storia>>.

2° premio a Gaetano d’Alessio di Parabiago (MI) con la poesia “La bambola di pezza”: 66469343_10215557402627792_4454508748177670144_o<<I versi asciutti e assai riflessivi di Gaetano D’Alessio sanno emozionare il lettore e sgorgano da un atto “metaforico” dell’anziana mamma che accarezza una bambola di pezza senza saper più distinguere “tra finzione e realtà”. Un gesto che riporta alla mente del poeta, con nostalgia, ricordi giovanili. Sono proprio quei sentimenti vissuti nell’infanzia a mostrare la tristezza dell’immaginario mondo odierno dell’anziana madre, da cui però l’autore continua a cogliere amore, ricambiandolo con affetto e animo filiale>>.

3° premio a Massimo Ottolini di Cassano Magnago (VA) con la poesia “L’amore fra le66750628_10215557394467588_486743614248976384_o.jpg rughe”: <<Poesia tra il nostalgico e il crepuscolare, quella di Massimo Ottolini, ma che apre uno squarcio di speranza sul trascorrere inesorabile del tempo. Infatti, non si sgomenta, anzi trova una specie di liberazione nell’amore, un’onda che contagia anche chi gli sta accanto. La conclusione è un invito a non guardare ai segni del tempo scavati nel volto, ma a cogliere negli occhi, nel cuore e nell’animo ancora gioia e tenerezza>>.

Menzione d’Onore 

Renata Adua-Ruata di S. Maria Maggiore (VB) con la lirica “Progetti spaesati”

Rita Vecchi di Druogno (VB) con la lirica “Tristezza di cielo”

Fabiano Braccini di Milano con la lirica “Il fascino discreto dei silenzi”

Luigi Besana di Cantù (CO) con la lirica “Rimanenze”

Fabiola Chiara di Bollate (MI) con la lirica “Ubi Vult - Parole di vento”

Lucia Milani di Gorla Minore (VA) con la lirica “Evasione”

Narrativa 

1° premio al racconto “Il furto” di Luigi Papanice di Malesco (VB): <<Anche in questo67059926_10215557448428937_4528441095440302080_o racconto The Hulk (pseudonimo di Luigi Papanice) utilizza, come nei suoi 13 romanzi pubblicati, uno stile giallo-poliziesco, unitamente a una scrittura delicata e scorrevole, che riesce a coinvolgere e tenere in “suspence” il lettore fino alla fine. Il protagonista, di cui nessuno conosceva la vera identità, se voleva incassare il lauto compenso doveva soddisfare alcune precise richieste. Ha fallito, ma con abilità è riuscito a sfuggire alla cattura e a far perdere le proprie tracce… ma già “vola” verso una nuova efferata impresa>>.

2° premio al racconto “Sciarada” di Davide Savorelli di Sesto Fiorentino (FI): <<Il 66835474_10215557454469088_2541728102078218240_oracconto di Davide Savorelli, è stato premiato per la descrizione fresca e coinvolgente di una morte incomprensibile e misteriosa, se il fratello del Commissario non fosse stato un filologo appassionato di cinema, che ha saputo chiarire alcuni inquietanti interrogativi. Scritto con pennellate giallo-noir l’autore si rivela prosatore lucido e attento>>.

3° premio al racconto “Io depositaria di una vita” di Rosy 67173236_10215557459149205_5874299965571858432_oGallace di Rescaldina (MI): <<Il racconto di Rosy Gallace è un giallo ma non troppo, tuttavia, si distingue per l’andamento scorrevole della prosa, per la capacità evocativa che suscita emozioni e reminiscenze di un passato che se ne va, da cui si può anche recuperare una memoria affettiva>>.

Menzione d’Onore

Salvatore D’Errico di Napoli con il racconto “Delitto in riva al mare”

Andrea Pollarini di Cattolica (RN) con il racconto “Morte a mezzanotte”

Riccardo Armani di Caorso (PC) con il racconto “Delitto nel bosco”

Premio Bognanco alla carriera Umberto De Petri di Domodossola (VB) (targa Edizioni e-book Mnàmon di Milano):

66630212_10215557385067353_8930103264632897536_o<<Il premio Speciale Bognanco per la carriera 2019 è assegnato a Umberto De Petri, personaggio poliedrico, guida naturalistica e turistica del VCO. In particolare, per la Valle Bognanco ha proposto e organizzato escursioni sui numerosi sentieri. Profondo conoscitore della storia locale, ha consultato annate di riviste e vecchi quotidiani pubblicati in Ossola, dando poi alla stampa alcuni suoi libri dedicati alla cronaca d’altri tempi di molti paesi delle nostre valli, Bognanco compreso, affinché non se ne perda la memoria>>. Poiché la maggior parte di questi volumi, in cartaceo e in e-book sono pubblicati da Mnàmon di Milano, l’editore Gilberto Salvi ha voluto offrire la Targa con la quale viene premiato.

Umberto De Petri è nato a Domodossola nel 1955. Esercita la professione di guida ambientale escursionistica e svolge attività didattica in collaborazione con diverse scuole della zona. Collabora con alcuni enti dell’Ossola, in particolare con la Riserva del Sacro Monte Calvario, per la conduzione di visite guidate all’interno dell’area protetta. Interessato alla storia e alle tradizioni della propria terra, negli ultimi anni ha raccolto in fascicoli una serie di articoli tratti da vecchi giornali ossolani, a partire dalla fine dell’Ottocento, riguardanti i seguenti paesi: Bognanco, Caddo, Calice, Cisore e Mocogna, Montecrestese, Monteossolano, Montescheno, Premia, Salecchio, Santa Maria Maggiore e Crana, Trasquera, Trontano e Cosasca, Vagna, Varzo e molti altri. I libri sono pubblicati da Mnàmon.

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Giuseppe Possa, Elisa Contardi, Monica Mancini

Gioxe De Micheli: Le trame della tela - mostra alla galleria “Biffi Arte” di Piacenza

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Risultati immagini per pqlascintilla wordpress de micheliNella storica sala “Biffi Arte” di Piacenza, via Chiapponi 39, si conclude a fine luglio la mostra personale di Gioxe De Micheli, presentata da Chiara Gatti che all’inaugurazione, tra l’altro, ha affermato: “Gioxe De Micheli, che ama il valore delle allegorie, narra storie di viaggio e viaggiatori attraverso ritratti di venditori ambulanti spersi davanti a un mare che non consola. Inutile sottolineare il fatto che, dietro i suoi orizzonti liquidi, ai carichi rovesciati, agli sprofondamenti lenti su fondali floridi d’alghe, ci sia tutta l’odierna letteratura della migrazione e del transito”.

E’ stato pubblicato anche un catalogo delle opere esposte, lavori che mostrano le ultime creazioni dell’artista milanese, in cui narra, con il suo inconfondibile stile, storie attuali, ma antiche come l’umanità in viaggio, in migrante cammino verso nuovi approdi non solo definitivi, ma magari con possibilità di ritorni, senza cedere – come bene annotavenditore-di-cappelli-olio-su-tela-copia Gatti - “alla didascalia per dispensare moniti di accoglienza o denunzie di rigetto dell’altro. Il suo racconto è universale e tocca ogni forma di lontananza e abbandono”. Gioxe, quindi, affronta la propria ricerca con garbo, con personale emotività tutta contemporanea, venata di soffici cromie poetiche e di atmosfere trasognate spesso dipinte con metafore enigmatiche e sottile ironia, tra il surreale e il metafisico. Sulle tele si notano a volte personaggi statici, immobili, ad annusare “l’aria che tira” o mentre temporeggiano; altre volte appaiono quasi danzanti in deserti immaginari o mentre vendono salvagenti e aquiloni; alcuni sembrano perfino svolazzanti come cappelli al vento. Tutti i loro volti, infine, somigliano a entità apolidi, protagonisti in un isolamento lirico, in ambienti e spazi senza confini.

Colgo l’occasione di questa mostra per proporre qui un articolo su Gioxe De Micheli che pubblicai su Eco Risveglio Ossolano nel 1999, esattamente 20 anni fa e di questo, ovviamente, nella lettura bisogna tenerne conto, anche perché nel frattempo il pittore ha accumulato numerosi altri successi, pubblicato esaustivi cataloghi delle sue mostre e conseguito premi e riconoscimenti che ne hanno consolidato e ampliato la fama.

Gioxe De Micheli, un pittore tra realtà e immaginario

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Patricia Roaldi, Giorgio da Valeggia, Gioxe De Micheli

A Varzo (VB), in località Cattagna, tra abitazioni addossate che sembrano conservare una dimensione d’altri tempi, c’è una casa, le cui origini risalgono alla fine del Cinquecento: essa conserva ancora antiche strutture (alcune tipiche dei walser) e fu acquistata, nei primi anni Ottanta, da uno dei più noti pittori lombardi: Gioxe De Micheli (Giuseppe all’anagrafe, ma dai genitori subito chiamato con quel diminutivo del dialetto genovese e tale è rimasto per tutti). Conosco da anni questo artista le cui opere, ricche di poesia, sono suggestive, a tratti lievemente inquietanti, per il loro suggerire situazioni immaginarie, con uomini e personaggi immersi in atmosfere “sospese”. Ci s’incontrava nelle gallerie di Milano, dove nebbia e smog fanno sì sognare l’aria pura di luoghi incontaminati, ma nulla in Gioxe, così “cittadino”, mi faceva pensare ad una sua passione per la montagna. Poi un giorno, conversando col padre Mario: uno dei maggiori storici dell’arte, critico e saggista (Mario De Micheli Genova, 1º aprile 1914 – Milano, 17 agosto 2004 – nota aggiunta ora), vengo a sapere di questa casa del figlio, nel verde valdivedrino e così… eccomi quassù.

Per Gioxe De Micheli, tale dimora di fine settimana, come l’ermo colle leopardiano, pare ormai essere un rifugio, un “sempre caro” luogo di pace nel quale, come lui stesso sostiene: <<Ho il tempo di pensare e meditare. Vedi, in simili vallate si ha maggiormente l’opportunità per riflettere e concentrarsi, tant’è che le idee si definiscono in modo più naturale, accelerando il personale processo creativo>>. Mentre ci scaldiamo accanto al vecchio camino in sasso, centellinando un caffè, gli chiedo come mai ha scelto la Val d’Ossola. <<Mia moglie>> racconta De Micheli, <<è la nipote della Maddalena, un personaggio noto qui a Varzo, e ci veniva in vacanza fin da piccola. Questa località ci piaceva molto, perciò una trentina di anni fa abbiamo deciso di cercare un’abitazione per trascorrere i week-end e le vacanze, a contatto con la natura, con il paesaggio e i ritmi tranquilli dei piccoli paesi alpini. Per noi è importante tornare a Milano, al lavoro, carichi d’energie, per riaffrontare la realtà urbana. Così abbiamo acquistato questo edificio che ha una struttura molto caratteristica, oltre a un fascino particolare>>.

A sedici anni la prima mostra - Gioxe De Micheli è nato nel capoluogo lombardo nel 1947, dove risiede e opera. Sposato, ha una figlia, Marianna, che ha intrapreso la carriera di attrice con successo. La “vocazione” per la pittura, che si è poi rivelata una scelta di vita, gli nasce dentro fin da piccolo, respirando l’ambiente culturale che ruotava attorno all’illustre genitore. A 13 anni va a bottega nello studio di Giovanni Cappelli e Giuseppe Martinelli, in seguito frequenterà anche all’Accademia di Brera, sotto la guida di Gianfilippo Usellini, i corsi di Decorazione e Affresco. A 16 anni, la Galleria Ciliberti di Milano gli organizza la prima mostra, presentata da Giovanni Paganin, uno scultore di grandi qualità, legato a “Corrente”. Attualmente, sono più di settanta le sue personali, tenute in città italiane e straniere.

Pinocchio 2 jpgA De Micheli, segnalato dalla critica nazionale e internazionale come uno dei pittori più significativi della sua generazione, ha senz’altro giovato l’essere cresciuto in una famiglia che ha sempre avuto un rapporto preponderante con la cultura e che frequentava artisti, intellettuali, galleristi di fama. <<È stato determinante>> afferma, <<e mi ha di conseguenza facilitato, l’aver avuto a disposizione un così vasto patrimonio intellettuale e umano, dal momento che possedevo anche un’autentica passione per l’arte. Se ripenso alla mia gioventù, posso ben dire di aver visto passare, per casa mia, i più grandi pittori e scultori, da Manzù a Cassinari, a Morlotti a Gattuso, a Fontana, per accennare solo pochi nomi. Ne ho conosciuti anche di stranieri. Pensa, Siqueiros voleva che andassi a Città del Messico a dipingere con lui, dopo che aveva visto i miei lavori>>.

A tale proposito, occorre sapere che De Micheli ha anche eseguito murales e affreschi: uno dei più importanti è “Ex-itinere – trittico dei viaggiatori” (cm 200x365) del 1993, realizzato per il Palazzo di Giustizia a Milano.

Di lui hanno scritto critici e poeti: Raffaele De Grada, Giovanni Testori, Dino Buzzati, Luigi Carluccio, Raffaele Carrieri, Roberto Tassi, Rossana Bossaglia, Giorgio Seveso,musici Giovanni Raboni, Giorgio Luzzi, Elena Pontiggia, Vivian Lamarque, Floriano De Santi, per accennarne solo alcuni. Antonello Trombadori nel 1983, a proposito del suo lavoro, scriveva: <<L'interesse che in particolare suscita Gioxe De Micheli è per me di ordine stilistico. In che senso? Nel senso in cui lo stile di un vero artista si pone sempre come ricerca non formalistica, bensì di forme specificamente espressive di contenuto, meglio, di un pensiero dominante. Altro che fuga nel buio dei tempi. Non si tratta di fuga ma di consapevole cammino verso quel confronto agostiniano col quod aeternum non est, nihil est al quale le risposte sono solo due: o il mistico annullamento o il problematico operare. Quest'ultima è la risposta poetica di Gioxe De Micheli>>. 

I cicli pittorici - La sua pittura, in generale, è caratterizzata da una figurazione lirica e fantastica. Segno e colore sono precisi e moderni; le tematiche, cariche di allegorie e metafore, possiedono quella spinta ironica e irruente che porta il fruitore alla riflessione, ad “avviare - come ha scritto Giovanni Testori - una meditazione moderna, laica e quindi fornita di tutti i risentimenti umani del caso”.

GDeMicEgli ha quasi sempre lavorato per cicli: il primo s’ispirava a Durer; il secondo alla rivolta contadina guidata da Thomas Muntzer; poi ha continuato con la serie dedicata alla vita domestica e con quella del “Naturalista”; in seguito è stata la volta dei “Fratelli della costa” e delle “Delizie estensi del delta”, fino al “Trittico dei viaggiatori” e alle altre numerose opere ispirate da autentici sentimenti, da valori intrinseci e da una visione del mondo universale. Due parole a parte, merita il ciclo “Il ritorno del Guidoriccio”. Anni fa, finse di aver trovato il manoscritto di un poeta, Bonario da Sassoforte, che Gioxe in realtà scrisse e poi pubblicò con l’editore Crocetti. In esso si cantano, appunto, le gesta di Guidoriccio, che comandò e condusse vittoriosamente le truppe senesi (in epoca medioevale): <<Proprio dalle parti dove avevo una vecchia casa colonica, in Maremma e immaginai che si fosse fermato proprio sotto la mia abitazione e che avesse bevuto al “fontino”, presso il fosso, prima di addormentarsi sotto la pergola>>. A questo capitano di ventura, De Micheli, ispirato dalla sua permanenza in Toscana, dedicò poi, come già accennato, un gruppo di opere. E mentre me ne illustra i soggetti, mi sembra di intravedere nei suoi occhi un lampo, come se all’improvviso fosse scoccata in lui l’ispirazione, anche per un ciclo di opere “ossolane”, come m’informa l’autore,

Ora, proprio a Varzo, ha restaurato di recente la “cauna” (la cantina) della sua casa. Si tratta di una costruzione con antiche strutture, abitata sin dal Cinquecento da una famiglia di piccoli possidenti locali, che si contraddistinse per aver espresso nel tempo un gran numero di parroci e notai. Nella cantina spaziosa - di una decisa "nobiltà" architettonica e dominata da una colonna centrale con quattro rusticmater2he "vele" - la pietra regna sovrana, mentre il tutto è avvolto da un "che" di misterioso e arcaico di grande fascino. E' grazie alle caratteristiche descritte che è nata, a lui e alla moglie Patricia, l'idea di utilizzare questo locale, per piccoli eventi culturali. Si prevedono presentazioni di libri e di opere artistiche. Presto Gioxe esporrà al pubblico il suo “Polittico della maternità” (un tema classico, ma da lui affrontato con spirito laico ed emotività tutta contemporanea) e altri dipinti. Praticamente i personaggi che vi appaiono  (venditori di tappeti, lavavetri, una madre impaurita ma con un fiero sguardo difensivo) non hanno nulla di spirituale e sembrano appartenere a un’umanità sofferente, sfuggita alla miseria del terzo mondo; eppure, nello stesso tempo, queste figure simboliche, ieratiche nel loro afflato poetico, potrebbero appartenere a qualsiasi ambiente sociale, nella sconvolgente globalizzazione attuale. Così l’artista, con tale composizione, cerca di recuperare “il vero senso della vita  e dei suoi valori fondamentali” e vuole forse denunciare lo strapotere dei potenti (rappresentati dall’uomo racchiuso nel triangolo che tutto vede e controlla) di fronte alle indigenze dei più deboli.

In conclusione, si può affermare che c’è un filo conduttore a unire l’intera opera artistica di Gioxe De Micheli, esteticamente e pittoricamente eccelsa: è la sua rigorosa testimonianza nello stigmatizzare il malessere umano e civile della nostra società.

Giuseppe Possa

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Mario De Micheli, Giuseppe Scalvini, Giuseppe Possa, Gioxe De Micheli, Giuseppe Martinelli, Gianni Pre

 

 

 

 

 

 

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“One shot” di Scaciga e Maestrini al SOMS di Domodossola

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“One shot” è stato un evento interessante e stimolante, in cui gli artisti Michele Scaciga66290387_1084450778430944_1207219125407973376_o.jpg e Stefano Maestrini hanno esposto i loro recenti dipinti astratto-gestuali. Un solo giorno è durata la mostra, sabato 27 luglio, allo Spazio Contemporaneo della Società Operaia di Mutuo Soccorso (S.O.M.S.) di Domodossola, accompagnata nel pomeriggio da una performance dal titolo “Zen action painting” e un “poetry reading”. Il pubblico ha potuto così dialogare in libertà con gli autori, disponibili a rispondere alle domande, ma soprattutto a spiegare il significato delle loro opere, tutte realizzare con ottime tecniche e talentuosità, in un’epoca in cui gli artisti sembrano aver perso la passione per la ricerca pittorica. Al contrario, Scaciga e Maestrini da sempre condividono questa passione per le arti figurative, tant’è che nel 2006 sono stati invitati a esporre a Briga dalla prestigiosa associazione svizzera Kunstverein Oberwallis, a rappresentare l'eccellenza artistica del versante italiano durante le commemorazioni per il centenario della galleria del Sempione.

IMG_E0886[1]Delle opere di Michele Scaciga, del personale tratto informale, dinamico e sicuro che rendono esclusive le sue creazioni, abbiamo scritto giorni fa in occasione della mostra al gastropub “Balabiòtt” di Domodossola, in via Binda 16. Poiché anche qui è proposta una serie su tavola in tecnica mista dello stesso ciclo, vi rimandiamo col link a quella recensione: https://pqlascintilla.wordpress.com/2019/07/04/al-balabiott-di-domodossola-espone-michele-scaciga

Stefano Maestrini, pittore autodidatta, opera da decenni sperimentando diverse tecniche e maniere. Come lui stesso comunica, la sua formazione artistica di base inizia con la frequentazione dei musei nelle città d'Europa che egli ha avuto modo di visitare grazie alla possibilità di viaggiare in Italia e all'estero, dove ha soggiornato in diversi67011576_10214774883741220_5982630946426322944_n.jpg paesi, quali Inghilterra, Spagna, Francia e Olanda. ? Dopo alcuni corsi di approfondimento presso i "Pittori dei Navigli di Milano", ha frequentato un corso di decorazione e "trompe l'oeil" tenuto dall'Ente Scuola Edile Milanese. Giunto alla maturità, si è trasferito in una casa di campagna, realizzando il suo atelier-studio, con la possibilità di dedicarsi pienamente alla propria passione. Trascorre molte delle sue giornate pittoriche "en plein air" nella valle Vigezzo, la valle dei pittori, dedicandosi in particolare all’acquarello. Negli anni, è passato dalla pittura figurativa, sia a olio che ad acquarello, a quella astratta. In questi ultimi tempi, la sua ricerca è sempre più rivolta all’informale, all’indagine sulle possibilità espressive del colore, con una semplificazione portata all’essenza. Le cromie vengono da lui assunte come energia gestuale, vibrazione, simbolo delle forze universali, fino a un percorso che lo ha avvicinato alla pittura zen di quest’ultima produzione, inchiostro su carta in stile nipponico.

Una creazione artistica, questa, che parte dall’enso, ovvero da un cerchio nero che simboleggia l'illuminazione, la forza, l'universo.  Maestrini dalla non luce pare poi 67119513_10214774811899424_2243992430724513792_n.jpgcomporre, attraverso soprattutto il nero, ma a volte pure il blu e infiltrazione di qualche altro colore, una sorta di personale diario interiore. Il tutto con gesti liberi, ma sicuri, che non permettono ripensamenti, dove eventuali esplosioni di sgocciolii o striature vibratili e rarefatte, senza spessore di colore, anzi appena percepibili quali sbavature d’inchiostro, hanno movenze trasformative, ma appartenenti al movimento di quel preciso istante. Nascono così le molteplici interpretazioni delle immagini: in giapponese enso (cerchio), è spesso collegato all’esperienza meditativa dei monaci buddhisti Zen che ha finito per divenire la maniera più semplice e diretta per esprimere l’ideale di perfezione assoluta.

Senza voler entrare in queste forme di spiritualità assoluta, che possono racchiudere66642372_10214774846500289_2534629397311258624_n significati anche comuni, come quello di vivere pienamente ogni momento della nostra vita, a mio avviso, questa ricerca di Maestrini racchiude una grande capacità tecnica che gli permette di rendere luminoso ciò che per antonomasia è la negazione della luce. In questo, si potrebbe scorgere l’influenza orientale come richiamo a evadere dalla logica di una società dedita con troppa tensione alle cose materiali e che tralascia spesso quei sentimenti che l’arte può concedere. Sicuramente si tratta solo di un passaggio dell’autore attraverso questo tipo di arte, poiché egli è sempre teso a dipingere rinnovate emozioni e queste creazioni di certo gli forniranno i giusti stimoli per proseguire oltre, perché Stefano Maestrini è soprattutto un testimone di autenticità e di libertà nell'arte contemporanea.

Giuseppe Possa



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S. Maestrini e G. Possa

La Valle nel segno del colore (la pittura vigezzina contemporanea)

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In un grazioso volumetto Luca Ciurleo (autore) e Samuel Piana (editore) hanno raccolto alcuni saggi sulla pittura vigezzina e sugli appartenenti al “Gruppo Pittori Vigezzini Oggi”, che sono Marino Bonzani, Salvatorino Casula, Alessandro Giozza, Anita Hofer, Carlo Mattei, Giovanni Mellerio, Valentino Santin e i compianti Vanni Calì, Michele Fiora, Carletto Giorgis, Susy Giorgis, Gian Piero Pirinoli, Verdiano Quigliati, Pio Ramponi (di ognuno sono riportate note critiche e biografia). Una mostra sarà inaugurata al Polo Museale UniversiCà di Druogno (VB) il 10 agosto alle ore 16, da Luca Ciurleo (antropologo, giornalista e operatore culturale ossolano) e da Samuel Piana (giornalista, operatore turistico, fondatore e direttore di Landexplorer).

 GRUPPO PITTORI VIGEZZINI OGGI

Nello stupendo scenario della Valle Vigezzo, per antonomasia la Valle dei Pittori, continuano a mantenere viva una tradizione artistica che ha avuto il massimo splendore con la Scuola di Belle Arti Rossetti-Valentini di Santa Maria Maggiore (VB). Una loro mostra è stata allestita a “La Fabbrica” di Villadossola nel 2009. Il n. 37 della rivista “ControCorrente” è stato a loro dedicato e presentato al Museo della Permanente di Milano il 14 febbraio 2009, con contributi del direttore Gianni Pre, di Luca Ciurleo e Giuseppe Possa (di cui qui pubblichiamo l’intervento).

284343_2345375472661_4096793_nLa Valle Vigezzo, senza la prestigiosa “Scuola di Belle Arti Rossetti Valentini” di Santa Maria Maggiore, non potrebbe vantarsi di annoverare, tra i suoi personaggi, artisti di fama nazionale, quali Enrico Cavalli, Carlo Fornara e Giovanni Battista Ciolina. Tuttavia, la Valle dei pittori ha avuto un fecondo periodo artistico per l’incrociarsi di precise circostanze. Innanzitutto, gli ottimi affrescatori e pittori di maniera che ha avuto nel Settecento, creatisi sugli insegnamenti, tramandati di padre in figlio, di quegli artisti che erano stati chiamati un po’ da ogni parte d’Italia, tra i secoli XV e XVI, a decorare e ad abbellire le chiese della Valle. Erano così sorte alcune scuole, come quella dei Simonis e dei Sotta, in cui si formarono numerosi artisti.

Molti di essi, per mantenere la famiglia, erano costretti a svernare come ritrattisti in paesi stranieri, venendo a contatto con culture diverse che inevitabilmente assimilavano, riportandone poi in patria gli aspetti più significativi. Tra questi troviamo Gian Maria Rossetti Valentini (1796-1878), che emigrato in Francia si perfezionò nelle Accademie locali, ricoprendone in seguito con onore alcune cattedre di disegno. Al suo rientro in Vigezzo, aprì a proprie spese una scuola di pittura, dandole il suo nome, che raccolse attorno a sé numerosi allievi. Nel 1881 fu chiamato dalla Francia, dove stava nel frattempo operando, Carlo Giuseppe Cavalli (1823-1892) per insegnare alla “Rossetti Valentini”. Fu aiutato in tale incarico dal figlio Enrico (1849-1919) che aveva frequentato l’Accademia di Belle Arti di Lione e che era venuto a contatto con pittori come Monticelli, Guichard, Ravier e aveva assimilato alcune grandi correnti della pittura allora dominante (la scuola di Delacroix e di Fontainbleau), per cui diventò lui il vero maestro della schiera di allievi che frequentava la Scuola.

Nessun seme, tuttavia, che cada nella sabbia dà frutti. Infatti, gli insegnamenti del Cavalli trovarono terreno fertile in Fornara, Ciolina, Rastellini, Peretti Junior, Besana, Borgnis, i Giorgis e in numerosi altri. Il grande apporto che questi pittori (naturalmente, unito a quello di altri che tuttavia non ne uguagliarono la fama) diedero al mondo delle arti figurative, e il lustro che portarono al proprio paese, è raccontato nello scritto di Luca Ciurleo. Aggiungiamo solo alcuni nomi di pittori scomparsi negli ultimi anni: Severino Ferraris, Paolo Ciolina, Siro Polini, Alfredo Acetosi, Antonio Gennari, Aldo Dresti, e Anne Ponti.

Di certo è che si sta chiudendo un periodo fecondo e avvincente della Scuola Vigezzina che, tuttavia, con vicissitudini alterne e periodi di transizioni, continua a sopravvivere.

Scuola_Belle_Arti_Rossetti_Valentini-4-CopyTra i numerosi artisti che ancora oggi tengono alto il nome della Valle Vigezzo, comunemente definita la Valle dei Pittori, vogliamo parlare di undici di loro, che appartengono al “Gruppo Pittori Vigezzini Oggi”, nostri amici e sostenitori di ControCorrente, di cui sono pubblicate, sotto le loro opere, le note biografiche preparate da Luca Ciurleo, antropologo, giornalista, collaboratore della nostra rivista e autore di alcuni libri. Tre di essi, Carletto Giorgis, Carlo Mattei e Giovanni Mellerio sono stati allievi della Scuola di "Belle Arti Rossetti Valentini" e gli ultimi due, nella stessa scuola, in passato hanno insegnato. Un pittore, poi, Verdiano Quigliati, classe 1915, che ha avuto formazione e successo in Francia, pur essendo nato a Novara è considerato vigezzino a tutti gli effetti.

Questi pittori, con Marino Bonzani, Salvatorino Casula, Vanni Calì, Anita Hofer, Gian Piero Pirinoli, Valentino Santin, che da anni ormai formano il “Gruppo Pittori Vigezzini Oggi”, sono uniti da una linea specifica di scelta. Pur nella diversità delle tecniche e degli stili, continuano a essere specificatamente figurativi, dando prevalenza al paesaggio, ma non mancano, nelle loro composizioni, i ritratti, le nature morte o alcuni momenti di vita alpina e sociale.

Ammirando le opere di costoro, si respira l’atmosfera frizzante della Valle Vigezzo, con i suoi paesi, le sue montagne, i suoi scorci, dove aleggia qualcosa che s’impregna di un passato glorioso. Non esprimeranno o proporranno novità tecniche ed estetiche, ma essi continuano, coerentemente, nel linguaggio poetico di coloro che li hanno preceduti.

Di ciascuno di questi nostri amici – che pur accomunando in un’unica sintesi artistica inevitabili diversità di tendenze e di valori, rappresentano parte della pittura locale – tracciamo alcune note di commento.

Marino Bonzani dipinge con segno semplice, ma efficace, con colori in sintonia IMG_E1321all’impaginazione tradizionale. I paesaggi spontanei sono aperti e pacati, freschi di vitalità. Nelle sue composizioni, probabilmente, agisce con lentezza tranquilla, controllata da un occhio interiore che oltre ai particolari realistici, tende ad interpretare le vedute e gli scorci raffigurati. Tali dipinti sono piacevoli per la loro armoniosa sintesi, che appunto travalica la scansione meccanica e descrittiva degli elementi raffigurati, in favore di una vibrante dimensione emozionale, la quale sa cogliere le varie trasformazioni della natura. È quando il suo pennello cerca un tocco di atmosfera delicata e fantastica, tra il naif e il classico, che egli riesce a infondere il calore inventivo e immediato dell’autenticità, con il gusto di raccontare ciò che lo circonda. Riesce anche a rappresentare con umanità e poesia le caratteristiche tipiche di personaggi locali, come gli spazzacamini o gli alpigiani al lavoro.

Salvatorino Casula è considerato il poeta della luce che sa esprimersi con estro edIMG_E1322 emozione. Egli sa colmare gli spazi richiamando paesaggi della sua terra, intrisi dei colori così come si trovano nella natura. L’artista propone anche baite, visioni di boschi, lo snodarsi di sentieri e ruscelli, cogliendo gli scorci di bellezza montana con cromie calde e vibranti. Attraverso tonalità accentuate egli propone prospettive e atmosfere tipicamente alpine, risaltate anche dall’uso delle sabbie, che alle opere portano una specie di movimento dinamico e pure un coinvolgimento intimo dell’animo. È soprattutto la sua tavolozza a trasmettere sensazioni e vibrazioni che rivelano immagini sintetizzate della sua interessante ricerca, la quale prosegue con buoni risultati e insolita vena creativa. Ne sortiscono composizioni, dal piglio fresco e dalla finezza contemplativa, frutto di scelte personali: quali la stesura dei piani per sintesi, la ricerca tonale, la contenutezza volumetrica, dentro soggetti aperti e sereni.

Calì (Alberto Vanni) dipinge immagini fresche, avvolte da una natura poetica e da un IMG_E1328senso emozionale del colore. La sua pittura appare spontanea, magari a prima vista può sembrare nive, ma ha un proprio fascino, con linee semplici e toni vivi, con la sensibilità di un occhio pulito e di un cuore caldo. Sostanzialmente e un romantico: dipinge paesaggi semplici e affascinanti, ma anche scorci di città in architetture complesse: quadri che lasciano intravedere il tocco magico della poesia. Ponendosi di fronte ad essi si nota il variare delle occasioni, ma resta immutato il sentimento nell’orchestrare la grande sinfonia della montagna, offerta come consolazione al grigiore della vita cittadina e frenetica. Immagini aperte, pronte a carpire bellezze e a svelare gli incanti improvvisi di un pittore candido, dalle radici popolari, da cui traspare il suo mondo rurale di potenza evocativa. Chi appende nella propria casa un suo quadro desidera accogliere, tra le pareti domestiche, paesaggi caldi e distensivi.

Carletto Giorgis è un pittore di spirito ardente, impulsivo e immediato che, fino a quando le forze glielo hanno permesso, si è immerso nella natura anche più selvaggia, daIMG_E1324 dove ha colto, in assoluta tranquillità, per poi documentarlo sulle tele, il fascino delle vallate, delle chiese e dei paesi ossolani. Stupendi sono i suoi “esterni”, a volte appena maculati di neve, dove si percepisce un rapporto atavico tra l’uomo e l’ambiente natale o come in certi angoli nascosti delle tante frazioni del posto, colti in una solitudine quasi metafisica o magica, che lascia lo spirito di chi li guarda in sospensione tra spazio e tempo. Nelle sue tele campeggiano montagne appuntite verso cieli azzurri o turbolenti, baite spesso sgretolate dal tempo e dall’incuria, con accanto vetusti pini che si elevano taciti verso orizzonti diafani, e poi pareti rocciose, boschi, prati silenziosi, acque spumeggianti di torrenti. Il tutto colto con quei colori vivi, che assumono la forza di un lirismo impregnato di luce intensa. La figlia Susy Giorgis, pure lei pittrice, è la prima donna vigezzina che si è dedicata all’arte.

Anita Hofer di origine tedesca, pur già disegnando fin da ragazza, è quando si stabilisce IMG_E1327in Vigezzo, attratta dalla sua storia e dai suoi paesaggi suggestivi, che si dedica alla pittura. Una pittura semplice e genuina che si esprime in forme deliziose e che ritrae paesaggi, ma soprattutto nature morte in uno stile piacevole e dai colori intensi. Ella imprime valore alle trasparenze, ai riflessi, con cromie nordiche, specie quando inanella le catene dei monti, che si stagliano sullo sfondo con insolita schietta e tormentata trasfigurazione. È attratta anche dai soggetti floreali (i fiori si dispongono affastellati o liberi, piegati o abbandonati, reali o inventati) e dalle nature morte, fresche nell’impaginazione e nella cromia. Molte di quest’ultime mettono in evidenza oggetti di utilizzo consueto, ma che sembrano modulati sulle tele per raccontarci della loro umile storia di tutti i giorni. Un’arte, la sua, pregna di quei sentimenti che scandiscono e disvelano le trame del suo vissuto e dell’ambiente in cui vive.

Carlo Mattei è pittore, scultore e affreschista che traduce in immagini, ricche di effetti cromatici, i soggetti classici, ma con originalità propria. In scultura ha modellato statue,IMG_E1334 intagli, pannelli, bassorilievi, in legno o altri materiali: opere tutte che, senza bisogno di enfasi esornativa, recano storie religiose o mestieri e tradizioni locali. La sua pittura è densa, sobria e si esprime con tele dipinte spesso di getto, con animo spontaneamente impressionista. Certe ampie vedute – a volte con la vista di bestiame al pascolo nell’idilliaca carezza del verde dei prati e dei boschi, o con baite fiancheggiate da pastorelle o contadini ripresi nelle loro attività giornaliere – possiedono uno slancio poetico catartico che ci fa ritrovare, fra le montagne, quella pace e quella tranquillità che le frenetica vita moderna, di fatto, ci impedisce di assaporare. Queste sue opere confermano la propria rigorosa linea creativa-figurativa nell’alveo del solido e schietto naturalismo vigezzino, dove la luce è protagonista nel contatto profondo del pittore con le cose che vede e lo circondano.

Giovanni Mellerio dipinge, con una moderna interpretazione, la tradizione coloristica della sua valle ed è stato uno dei primi a sentire l’esigenza di un paesaggio nuovo, conIMG_E1333 differenti emozioni formali e cromatiche, tradotte in genuine e suggestive rappresentazioni. In ciò lo ha aiutato anche il suo soggiorno in Francia, dove ha dipinto quadri impressionisti dalle sensazioni insolite e dagli scorci originali, con effetti d’ampia luminosità, d’affascinante resa atmosferica. Non si limita a raffigurare i paesaggi della sua terra, e sempre riesce a esprimerli con colori freschi e limpidi, riprendendoli in tutte le luci e nel variare delle stagioni. A volte gli bastano dei cespugli, degli sterpi, dei viluppi di particelle, dei ciuffi d’erba folti e arruffati, per costruire un quadro, in una visione della natura spogliata di ogni romanticismo, ma con la freschezza di un tocco lieve, rapido, vibrante, che rende l’idea del movimento e dà l’impressione di un colore-luce, poetico nella materica stesura. Possiede un ottimo equilibrio delle forme e la spazialità geometrica delle prospettive.

Gian Piero Pirinoli fissa sulle tele gli splendidi paesaggi che egli può ammirare affacciandosi alle finestre di casa. I paesi lungo le strade carrozzabili o le frazioniprinoli abbarbicate sui pendii, gli alpeggi contornati dai boschi, le baite che sanno d’ataviche fatiche, diventano i soggetti preferiti di quadri sempre diversi e cromaticamente uniformi. Pertanto, questi scorci di un vivido diario vissuto col cuore si trasformano in testimonianze figurative di luoghi che, forse, il tempo e l’incuria dell’uomo lentamente annulleranno. Proprio per questo il suo è un canto soffuso al fascino delle bellezze naturali e un invito a conservarle per le future generazioni, risvegliando dentro di noi un senso di pace e di serenità. Pervasi da questa crepuscolare atmosfera sentiamo penetrare nel nostro animo un’aria primaverile di profumi di montagna. L’autore manifesta quella vitalità che sa creare un’autentica stagione umana, in un mondo che pare aver smarrito l’essenza primordiale del vivere in mezzo alla natura.

Valentino Santin sia nelle vedute paesaggistiche che nelle rappresentazioni metafisiche IMG_E1329ed oniriche, riesce sempre a cogliere la scintilla dell’indagine e della riflessione che lo porta a raffigurare in chiave più attuale la tradizione locale. Nelle sue opere c’è lo splendore vivace dei colori, una chiarezza d’impianto che rendono le sue composizioni suggestive e con un fascino di entusiasmo alpino, perché l’autore riesce a trasmetterne, con viva e armoniosa sintesi, i valori atmosferici che travalicano la scansione meccanica e descrittiva degli elementi dipinti, in favore di una vibrante dimensione emozionale. Le sue opere racchiudono soggetti diversi e paesaggi nel variare delle stagioni, quasi tracciati da tocchi incantati e magici, con una visione d’insieme vibrante, energica, dai toni penetranti e dai colori ricchi di suggestione. Egli oltre ai paesaggi, non solo montani ma anche lacustri, dipinge pure quadri dai soggetti rivolti alle problematiche umane, agli eventi e alle situazioni di vita sofferta.

Verdiano Quigliati ha dipinto quadri divisionisti con quell’impeto e quei colori caldi e pastosi, ben disposti e accostati sulla tela a piccole pennellate. Autentici capolavoriIMG_E1331 d’armonia sono alcuni sottoboschi autunnali, con cromie arancio-fuoco, il cui turbinio di fogliame, se isolato, dà quasi l’impressione di un astratto. Stupende anche le opere impressioniste, autentiche e sentite: tele che ha conservato gelosamente per sé, con paesaggi vigezzini, milanesi o della Francia, molte delle quali riproducono magari solo atmosfere piacevoli o particolari di vedute. Ha pure allestito una mostra con quadri dipinti a Venezia. Una città lagunare immersa in un’atmosfera diversa: egli parte, infatti, da monumenti e scorci poco noti, esaltandone gli angoli nascosti, valorizzandoli con una straordinaria capacità tecnica stilistica. Si è addentrato nelle calli e nei canali, dove le barche sembrano galleggiare in una sinfonia di sfumature accostate. I soggetti più conosciuti li ha inseriti sullo sfondo, cercando per il primo piano un particolare qualsiasi: un pozzo, una statua un elemento architettonico.

Questi gli autori presenti alla mostra di Villadossola, a cui, per questa occasione, sono stati aggiunti quattro artisti: Michele Fiora, Susy Giorgis, Alessandro Giozza e Pio Ramponi, che a suo tempo appartenevano al gruppo, ma che per motivi diversi non avevano potuto partecipare a quella rassegna.

Michele Fiora, i colori ce li aveva nel sangue e li usava per definire le forme che IMG_E1323vibravano e si illuminavano di poesia. Suo motivo d’ispirazione era la natura e le immagini che dipingeva nascevano da un sentito rapporto con il reale: la sua pennellata pastosa sapeva cogliere le bellezze della Valle Vigezzo con quello spirito vivace e vivificante, dominato dal verde, simbolo di freschezza e di speranza. Aveva iniziato tardi a dipingere, ma possedeva un talento innato per la cromia, con una luce magica che a primo sguardo sembrava uscire dall’anima stessa del colore. Prediligeva il richiamo del verde, possente, lampeggiante, attraverso il quale i suoi paesaggi si manifestavano come luoghi di quiete e di pace. Certi suoi sottoboschi, poi, sono illuminati da riverberi dorati, con grovigli di sterpi, su strade tracciate in allucinati bagliori, simili a tumulti che urgono agli argini, come una piena.

Susy Giorgis, figlia d’arte, ha sempre avuto l’inclinazione per la pittura e ha quindi frquentato la Scuola di Belle Arti Rossetti-Valentini, sotto la guida di Severino Ferraris. LaIMG_E1325 sua pittura tende, pur nella tradizione, a scelte personali: quali la stesura di piani per sintesi, la ricerca tonale, la contenutezza volumetrica. I suoi paesaggi sono aperti e pacati; le nature morte fresche di vita e di umori, un po’ per il connaturato senso del colore, un po’ per il gusto di raccontare ciò che ci circonda, nelle sue varie sfaccettature. Alla poesia delle sue tele - che racchiudono soggetti semplici e freschi (nevicate, vedute e scorci vigezzini nel variare delle stagioni) quasi fossero tracciati dai tocchi magici di una fata - c’è una visione d’insieme vibrante, energica, dai toni penetranti, dalle cromie ricche d’emozione e l’effetto sulle tele è per noi commovente.

Alessandro Giozza, dopo iniziali influenze di tipo tonale (in particolare lombarde, apprese dal suo maestro Tullio Giovenzani) si è però, ben presto, staccato dalla pittura tradizionale, per dedicarsi a un’arte più spontanea, ispirata all’ambiente che ci attornia, ma in un’estrema sempliIMG_E1326ficazione compositiva, in un rapporto di spazi e volumi risolti in pure e tenui stesure cromatiche. In seguito, si è orientato verso una ricerca dell’equilibrio tra forma, oggetto e spazio, in armonia con la sintesi del visto e con colori più interiori o immaginati che sanno mettere in evidenza i valori universali della natura e della vita. Le forme articolate e simmetriche delle case, spesso prive di porte e finestre, sono da lui organizzate con forza espressiva e disposte con rigore razionalista a fianco di vedute in sintesi con montagne o boschi geometrizzati. Oggi, è approdato al Neosintetismo pittorico, elaborato in uno stile del tutto personale, con sintesi e semplificazione tanto nei paesaggi, quanto nelle nature morte (rari ultimamente i suoi dipinti di figura).

Pio Ramponi ha frequentato la Scuola di Belle Arti Rossetti Valentini di S. Maria Maggiore, allievo di Severino Ferraris e Dario Giorgis, ma soprattutto si avvalse deiIMG_E1330 consigli e degli incoraggiamenti di colui che egli considerava il suo vero maestro spirituale: Carlo Fornara. Al divisionismo Ramponi è rimasto sempre fedele, così come alla sua terra che ha dipinto in tutte le stagioni, rivelando l’appassionato amore alla natura, all’emozione della solitudine, ai sentimenti più elevati. Ammirando le sue tele si percepisce un’atmosfera ferma e una luminosità delicata, di aria tersa e sottile, unitamente a una scansione precisa delle forme nello spazio. I suoi quadri, ricchi di immagini idilliache, racchiudono scenari suggestivi, in un certo senso ancora integri e naturali, con cieli tersi e assolati; raffigurano una natura dalla tensione lirica e diventano come un monito a riflettere sulla necessità e sull’urgenza di proteggere un ambiente non ancora inquinato e non totalmente intaccato dalle speculazioni costruttive.

Come possiamo concludere questa rapida carrellata? Per esempio, con una considerazione: che oggi si vive una crisi, sia a livello locale che nazionale e internazionale, non solo economico-finanziaria, ma anche morale e dei valori. In parte anche perché la nostra società pare giunta a un punto morto. È quindi necessario fermarsi un attimo, riscoprire la natura, come fanno questi pittori che continuano a tenere viva una tradizione che affonda le radici nella storia stessa della valle. Riprendiamoci, almeno per un attimo, quel piacere arcaico di un singolare rapporto umano con l’ambiente che ci circonda.

Lungo i sentieri degli alpeggi, tra i boschi, saltando ruscelli e attraversando pascoli, inventiamoci una nuova coscienza ecologica e un modo di vivere più umano che spesso abbiamo dimenticato. Così guardando le generazioni passate, che duramente faticavano, che nulla sprecavano e nulla deturpavano, abbandoniamoci alla magia dei luoghi “en plein air”, mutevoli secondo la stagione e, ammirando una natura non ancora deturpata, prepariamoci ad andare avanti con spirito rinnovato. Anche per questo continua a esistere l’arte vigezzina.

Giuseppe Possa

gp lcsp


G. Possa, L. Ciurleo, S. Piana

Il “Campo Teatrale La Fabbrica” di Nicol Quaglia torna a Villadossola scuotendo ed emozionando 650 spettatori: con "Gli stessi occhi" un 'viaggio' onirico su agro mafie e caporalato.

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           Tutt20191117_105559o esaurito per il terzo grande spettacolo del “Campo Teatrale La Fabbrica” tornato a Villadossola sabato 9 Novembre; dopo il successo dello scorso anno con “La Fattoria degli animali” di Orwell (...”splendido esempio collettivo di recitazione-interpretazione superlativa”...) e nel 2016 con “Alice nel paese delle meraviglie” di Carrol (che aveva incantato col suo mix di musica, magia, dolcezza e angoscia), la scelta odierna è caduta su un progetto ...commissionato da Coop Academy e coordinato da Danilo De Regibus... “corale, di gruppo, che non nasce da un testo scritto  – spiega Nicol Quaglia – ma costruito nel corso di una lunga ricerca e analisi di documenti e indagini, nonché con contatti e collaborazioni con politici e giornalisti, come Marco Omizzolo, infiltrato per mesi per studiare e descrivere la verità nei campi dove immigrati e non, lavorano schiavizzati da 'caporali' e dove la produzione e il commercio agricolo sono spesso manovrati dalla criminalità organizzata”.

Lo spettacolo verteva appunto sulle agro mafie, in particolare nel settore ortofrutticolo, presentato e preannunciato come “un 'viaggio' onirico molto aspro alla ricerca di unaScreenshot_20191117-110121_Gallery umanità indifesa”. La stessa che viene mostrata nel quadro iniziale: migranti intenti via mare o via terra a raggiungere l'Italia con la promessa e il miraggio di un buon lavoro, tutti speranzosi ma ignari sia della destinazione, sia di cosa aspetti loro; ognuno con dentro la tristezza e la malinconia di aver lasciato il proprio paese e i famigliari. Un preludio, pur dall'amaro taglio, forse 'abituale', scontato nel contesto di un tema generale rilanciato con pretesto ogni giorno dalla super struttura dell’in-formazione. Però, dopo le scene spesso strazianti delle partenze e degli addii, il registro narrativo cambia con repentinità e allo spettatore viene svelata in senso crescente e traumatico una 'realtà' inimmaginabile, la stessa in cui saranno immersi e sommersi in modo tragico i gruppi di migranti giunti a destinazione.

Al di là dei temi trattati – sempre senza alcuna traccia di moralismo – sta diventando ormai un segno distintivo ...grotowsckiano... di stile e qualità del “Campo Teatrale La Fabbrica” (CTF) quello di saper offrire o svelare in modo simbolico chiaro una IMG-20191117-WA0009condizione umana e sociale (o un insieme di stati d'animo), “usando” (più che le parole o non solo quelle) i corpi e i movimenti degli attori, uniti a una scenografia scarna ed essenziale, quasi oltre il minimalismo. La straordinaria performance durante “La Fattoria”, con le bestie antropomorfe vicine all'osmosi umana (o viceversa) grazie al sincronismo trasformista degli interpreti, lo aveva già ben dimostrato; ma nel nuovo spettacolo, pur limitandosi i movimenti principali (spesso febbrili) alle braccia e alle mani, la 'resa' visiva è stata ancor di più impatto immediato; un plauso meritato perciò a tutti i protagonisti: Daniela Bonacini, Sabrina Borsotti, Cesario Bortone, Roberto Cassone, Ludovica Clerici, Antonella De Regibus, Martina Forni, Elena Nunziatini, Lucia Pesce, Maristella Pozzi, Daniele Semolini, Anna Toscano, Elisa Vanni e Mila Quaglia.

Screenshot_20191117-110036_GalleryEccoci quindi al leitmotiv dell'opera, la raccolta dei prodotti della terra (in specie pomodorini), ma insieme la 'vita' nei campi, scandita con insistenza dalle fasi alterne notturne di poco sonno e dalle dure e lunghe giornate assolate, piegati in ginocchio e con appresso un bidoncino di plastica; tre scene pressoché uguali e ripetitive, a rendere il tutto con calcolata ossessione: corpi sempre più sudati e stanchi e, appunto,  gesti di braccia e mani sempre più veloci. Meglio che le vessazioni esasperate dei 'caporali' e le violenze sadiche psico-fisiche (fino allo stupro e  all'omicidio) subite – rese con maestria in un momento di sincronismo collettivo...colpito uno, cadevano insieme altri – crediamo siano stati proprio i movimenti impazziti di braccia e mani (come in una immaginaria 'catena di montaggio' chapliniana) a impregnare gli occhi e le menti degli spettatori di un forte pathos emotivo, comunque privo di sentimentalismo; anche se, disagio fino al malessere, lo creerà un soffocante e claustrofobico 'cubo-gabbia' di cellofan, apparso a emblema terribile proprio della vita in quei posti, dove sono incappati i migranti e da dove è quasi impossibile scappare.

Del resto, pur se la necessità dichiarata del CTF era quella di “rappresentare in modo oggettivo e non didascalico il mondo del caporalato (aguzzini compresi) evitando giudiziScreenshot_20191117-110053_Gallery frutto di schemi politici o denunce sociali”, il risvolto della medaglia o meglio la parte visibile in certi termini collegata o interdipendente di e con quel 'mondo' sommerso di sfruttamento, sono evocati in modi abbastanza diretti e coinvolgenti. Stiamo parlando del nostro cibo quotidiano (cui ormai diamo ben scarso valore, al di là dello spreco) e, per esteso, del consumismo esasperato su tutto... insomma della nostra vita, che sul palcoscenico prendono soprattutto le sembianze delle quattro figure (le uniche) grottesche e caricaturali in costumi estrosi e variopinti (il solito 'tocco' fiabesco della brava e fantasiosa Corinne Bedone), a simboleggiare – ognuna in un diverso settore, dalla moda ai media – la 'modernità' mercificata in cui siamo avvolti e di cui, questo il messaggio profondo, noi tutti siamo vittime, spesso inconsapevoli. Il titolo “Gli stessi occhi”, racchiude magari l'esortazione a guardare da un'altra prospettiva – in egual modo – per vedere e capire l'insieme delle cose e della condizione umana?

L'effetto plastico di una decina di corpi che in un 'recinto' di luci a pavimento si alterna nei gesti meccanici di raccolta nei campi e poi di acquisto in supermercati (di cui i battiti img-20191117-wa0006.jpgdegli scontrini ne sono una efficace trovata), segna il punto più suggestivo del rapporto fra le due 'realtà' messe a nudo; mentre perde un po' di efficacia, per la sua cripticità, la scena con il grande tavolo centrale dove un'iconica famiglia tradizionale si ciba di enormi brioche  (sciorinando canonici e insulsi commenti), mentre a lato “coppie” di 'caporali' e lavoranti amoreggiano. Dai resoconti veri del giornalista Omizzolo, risulta infatti che cappuccino e brioche fossero usati come “esca” per le affamate donne del campo, costrette poi a sottostare ai desideri sessuali dei loro aguzzini.

Invece lucubre e inquietante, nonché di potente, poetica espressività, l'ingresso scenografico, evocativo dell'avvento nel territorio dell'economia mafiosa: figure scure e con maschera (la solita, bianca, ormai un logo del CTF), con mani enormi e scheletriche aIMG-20191117-WA0005 mo' di lunghi artigli, a spargere su ogni lavoratore mazzi di banconote. È con la criminalità organizzata che arrivano fra l'altro la metanfetamina e la cocaina per “alleggerire” la fatica bestiale, tanto che i pomodori, in scena prima invisibili e solo immaginati, si materializzano enormi in cartapesta (pesi oppressivi) trasformati poi in 'palloni' danzanti insieme ai movimenti sconnessi e scoordinati dei corpi: una resa teatrale di geniale creatività, rara nel panorama artistico di oggi. Come d'altronde bella e originale è da considerare l'idea di puntare un proiettore contro il pubblico e spingere e costringere - questo è in sintesi il 'potere' della pubblicità! - più di 600 persone a voltarsi per vedere sulla parete opposta al palcoscenico, nonché ascoltare per qualche minuto, enormi immagini di reclame del passato e recenti).

I pomodori alfine tornano 'pesanti' e rimane lo sfruttamento, la violenza e la sopraffazione, contro cui non ci si può ribellare (pena l'uccisione) e da cui solo di rado si riesce a scappare. Quando ciò avviene (la figura che fende a fatica dall'interno il cubo di cellofan e ne esce, sembra davvero una 'rinascita'), il migrante scampato anche ad altri pericoli riferiti nel complesso ai “viaggi della speranza”, finisce a volte nelle maglie un po' assillanti e img-20191117-wa0007.jpgall'apparenza protettive degli apparati statali (Polizia, Croce Rossa, ecc.), situazioni scandite nello spettacolo in modo ironico dal ticchettio ripetuto dei metaldetector. A proposito dei suoni, è la musica ad accompagnare e uniformare tutta l'opera, a segnare ...se può aver senso una certa percepita distinzione... i momenti di più marcata emotività, quelli di incalzante ritmo, infine le note forti e ridondanti a corollario delle giornate di duro lavoro nei campi: con il pianoforte melodico di Lucia Puricelli, la strumentalità estrosa di Eugenio Mazzetto e con i suoni incisivi e virtuosi di Dave.

IMG-20191117-WA0008 Rilievo elevato a parte meritano anche le luci di Violetta Arista, già distintasi nel precedente “La Fattoria degli animali”, la quale oggi ne ha fatto fra l'altro un intenso uso 'cinematografico', reso pure 'pittorico' (insieme ai costumi) nella scena struggente del naufragio e ancor di più nella composizione di pasoliniana poesia della “madre-pietà” dal radioso manto blu (lo stesso usato per rappresentare proprio il mare), che muore lasciando al futuro – migliore? –  il proprio infante.

Sarà non a caso la MORTE ad accompagnare la parte finale, con i corpi degli assassinati spostati e 'composti' con cura e tenerezza, mentre le parole – rimaste in secondo piano o scollegate – riacquisteranno la loro non minore essenzialità: così, il vociare sovrapposto di numerose telefonate tra lavoratori e famigliari lontani, si ridefinirà come il lamento di un 'coro' nelle tragedie greche, mentre le singole, orgogliose dichiarazioni identificative a voce alta di alcuni raccoglitori (...forse persino poche in rapporto alla mole reale dei torturati, dei deceduti e degli scomparsi), richiameranno una trasfigurata e attuale “Antologia di Spoon River”.

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L'epilogo, duro e toccante (inatteso dopo soltanto un'ora e trenta, per i tempi lunghi a cui ci aveva abituato il CTF), non lascia spazio ad alcuna possibilità di riscatto (né voleva lasciarlo pensiamo); parole poetiche accorate rivolte alle salme stese sul palco, forse troppo sussurrate, ma tanto basta ciò che si è potuto cogliere: ora so che non sono niente...ora so che il gran maestro, cuore mio, è un abisso.

La Red azione                           

10 Novembre 2019

Le fotografie a corredo dell'articolo sono tratte dai bozzetti scenografici e dallo spettacolo

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Il Teatro "La Fabbrica" di Villadossola gremito

https://www.facebook.com/CTFcampoteatralelafabbrica

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http://pqlascintilla.ilcannocchiale.it/2016/09/22/alice_nel_paese_delle_meravigl.html


GLI SPETTACOLI E LE PERFORMANCE DEL CTF


(Dal 2014 anno della sua formazione)

  • Le donne nella storia

  • I muri parlano

  • Prova aperta

  • La Villa

  • Antonia la strega

  • L'accampamento

  • Come nacque la notte

  • Alice nel paese delle meraviglie

  • Sogni di una notte di mezza estate

  • Cappuccetto Rosso

  • La fattoria degli animali

  • Leggende ossolane né in cielo né in terra

  • Gli stessi occhi

 

 

Il Comune di Villadossola celebra con un’antologica a “La Fabbrica” il pittore Ugo Pavesi

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ug pav stresaSabato 23 novembre, alle ore 20,30 si inaugurerà la mostra di Ugo Pavesi nello spazio espositivo del Teatro La Fabbrica di Villadossola, la città in cui è nato nel 1941 e dove ha sempre vissuto e operato. Sono previsti interventi di: Bruno Toscani (Sindaco di Villadossola), Franco Midali (Scrittore e Studioso), Silvana Pirazzi (Professoressa e Storica dell’Arte. Introduce e coordina: Giuseppe Possa (Critico d’Arte). Seguirà Buffet offerto da  A.D.A. (Associazione per i Diritti degli Anziani - Domodossola). La mostra sarà visitabile fino al 15 dicembre nei seguenti orari: feriali: 16,00 - 19,00; sabato e domenica: dalle ore 16,00 - 19,00 e  21,00 - 23,00 (Ingresso libero).

Nel contesto delle opere paesaggistiche di Ugo Pavesi, Sabato 30 novembre alle ore 20,30 si celebrerà il decennale dell’istituzione del Parco Valle Antrona, a cura dei Comuni di Antrona e di Borgomezzavalle: relatore l’assessore Pier Franco Midali (Ingresso libero).

Domenica 1° dicembre - alle ore 16,30 - il prof. Raffaele Fattalini, con una conferenza sul tema “Poesia e Pittura”, “leggerà” liricamente alcuni quadri presenti nella mostra di Ugo Pavesi (Ingresso libero).

<<Quello che più colpisce nella sua pittura fin dall’inizio, sono la poesia, la serenità d’insieme delle composizioni e quella sensazione di pulito che i suoi quadri trasmettono. Ci si sofferma di fronte ai paesaggi dell’artista di Villadossola sulle emozioni che si provano Val_Venosta_60x80pavad ammirarli, oltre che sulle profondità dei piani, sulla morbidezza dei colori e sulle sempre perfette prospettive. Veniva giustamente definito dai critici un impressionista, ma forse aveva più ragione lo storico dell’arte Gianfranco Bianchetti che coglieva in lui una pittura post-realista di sensazioni. Pochi artisti sono riusciti a illuminare le montagne, i cieli e la neve come Pavesi, nelle cui tele i colori appaiono ben intonati e luminosi, seppure con un leggero velo di malinconia, lo stesso che sembra appartenere al suo carattere. Ci troviamo, dunque, di fronte a un autentico interprete della pittura dal vero, il quale oltre alla padronanza tecnica e stilistica, frutto di tanti anni di ricerca e di lavoro, ha unito una smisurata e provata passione. Ugo Pavesi, persona affabile e modesta, non si accontenta mai dei risultati raggiunti, tanto da andare al di là dell’arte tradizionale, con una pittura personale, poetico-realistica, che trova forse un’eco lantana nei grandi del passato, ma in chiave contemporanea. Bisogna dargli atto di non aver mai ceduto alle lusinghe delle mode pittoriche del momento, sempre fermo nelle sue convinzioni: egli, infatti, dipinge e interpreta sul posto il soggetto, filtrato dalla sua sensibilità>>. (Giuseppe Possa)

Ugo Pavesi: un artista-poeta della pittura “en plein air”

Passano le stagioni, ma da anni Ugo Pavesi le trascorre dipingendo all'aperto, cercando le giornate più limpide, aspettando le prime ore dell'alba o quelle del tramonto. Pittore di grande spontaneità, con cavalletto e colori, esce di buon'ora a scegliere il luogo a lui più caro per rappresentarlo sulla tela. Quello che ritrae, con meticolosità e diligenza, è un mondo silenzioso, fatto di montagne, di sentieri, di alberi, di cieli tersi o nuvolosi, dove le baite parlano di fatiche e l'uomo se ne sta defilato. I paesaggi sono soprattutto quelli delle valli ossolane: è qui, infatti, il mondo di Pavesi, il quale, tuttavia, non disdegna di raffigurare anche la natura morta, la figura in genere e il ritratto, che campisce in modolagopavesi personale e con eccellenti risultati. Alcuni volti di personaggi significativi delle nostre vallate possiedono, nei suoi quadri, forza espressiva e toni raffinati, insieme alla profonda emozione che sprigionano, pur nella forma classica dell'impostazione. Anche nelle nature morte, egli riesce, con oggetti, frutti fiori o altro, a rinnovare il gusto per le cose locali, proprio attraverso una diversa disposizione prospettica e cromatica. In Ossola, ma anche nel Verbano e nel Cusio, dunque, Pavesi prosegue la propria vocazione per l'impressionismo, in una perfetta simbiosi con i paesaggi che raffigura attraverso pennellate decise. Chi conosce queste zone alpine, dalle bellezze naturali, non ha difficoltà ad entrare in contatto con il mondo poetico del nostro artista. Sebbene i suoi soggetti ritraggano spesso gli stessi scorci, le medesime vedute - con le alpi all'orizzonte, il Monte Rosa in particolare - ogni quadro è diverso dai precedenti. Il segno è ben definito e importante nella risoluzione di talune atmosfere pittoriche, inoltre, l'autore lo utilizza con meticolosa attenzione ai particolari. Il colore è steso con attenzione e regala un effetto dinamico, vibrante. Potremmo affermare che la sua lettura quotidiana dell'ambiente circostante, pur nella tradizionale classicità ossolana, ha qualcosa che richiama ad un ordine sostenuto da una cultura sana, d'altri tempi. La natura delle nostre montagne, i componenti tipici della vita alpina, i caratteristici alpeggi, sono, pertanto, le principali tematiche del "vero" che il nostro pittore trasmette nelle sue opere, riprese con quell'armonia che si fa reale e propria emozione lirica.

UNA VITA "EN PLAIN AIR" - Ugo Pavesi è nato a Villadossola nel 1941. Fin da ragazzo coltiva la poesia e il disegno, ma purtroppo, rimasto presto orfano di padre, è costretto dagli eventi a impegnarsi subito nel lavoro e a dedicarsi alla famiglia. Tuttavia, trova il tempo per le buone letture e per partecipare a un corso professionale. La passione per la pittura, però, gli rode dentro come un tarlo; così, da autodidatta, si dedica alla matita e ai colori, iscrivendosi a una scuola per corrispondenza sulle arti grafiche. In seguinevicatato frequenta lezioni serali di disegno e più tardi di pittura. All'inizio è stato incoraggiato e seguito dal maestro e amico Rino Stringara, con il quale si è spesso accompagnato in lunghe sedute all'aperto, apprendendo gli importanti segreti della pittura. Maturato pittoricamente e libero dalle incombenze del lavoro, finalmente può assecondare il suo sogno: realizzare a tempo pieno l'esigenza di dedicarsi solo all'arte. E questa doveva essere veramente una ragione di vita, dal momento che l'ha conservata intatta per lunghi anni. Rimasto fedele alla tradizione, ha però saputo rinnovarsi con un'immediatezza figurativa di grande impatto visivo. Le diverse località che hanno offerto spunti alla sua pittura, sono rese con un'immagine serena, accogliente, poetica. I suoi quadri sono immediati, freschi di lucentezza, avvolti in un delicato lirismo: egli si sofferma, in particolare, sulle montagne in lontananza, sovrastate da cieli cristallini, oppure su ampi spazi, le cui vedute sono solari, con quei colori tutti ossolani, che sembrano sprigionati da un tocco improvviso, morbido e luminoso. Basta inerpicarsi per i sentieri delle nostre valli, guardare le baite che s'incontrano negli alpeggi, osservare là dove il cielo si congiunge con le montagne e come d'incanto ci troviamo di fronte ad una tela di Pavesi e la sensazione è di godere delle stesse inquadrature, luci e dettagli armonici. Nel 2000 il Comune di Villadossola ha stampato una sua opera in alcune copie che ha donato a personalità importanti dell'Ossola. Nel 2002 è stato invitato con i più rappresentativi pittori della montagna a esporre a Como in una mostra nazionale, organizzata dal Club Alpino Italiano. Al suo artista "di nascita", il Comune di Villadossola,Porte_di_Cheggio_250x180_PU con il patrocinio della regione Piemonte e della provincia del Verbano Cusio Ossola, gli aveva già dedicato una mostra speciale divulgando per l’occasione un inserto apparso su "Oscellana", a cura di Gianfranco Bianchetti, che della rivista è il direttore. Nel 2007 ha dato alle stampe una corposa monografia con riproduzioni di oltre 150 opere e con gli scritti di critici, studiosi e giornalisti (alla stesura del volume hanno collaborato Gianfranco Bianchetti, Giuseppe Possa, Raffaele Fattalini e Gian Luca Pavesi). Ugo Pavesi è stato premiato in numerosi concorsi nazionali e internazionali (nel 2018 è insignito del Premio alla Carriera al Concorso Bognanco Terme); si sono interessati alla sua opera, su giornali e riviste, alcuni noti critici. Ha esposto in diverse località dell'Ossola, oltre che a Piacenza, Salsomaggiore, Firenze, Torino, Novara, Verona, ecc. Qualche anno fa ha partecipato a due importanti collettive di pittori ossolani a Chicago e New York.

I COLORI DEL PAESAGGIO - Si capisce, osservando le sue numerose tele, che egli, oltre i grandi soggetti, sa risaltare anche i piccoli angoli di paesi e frazioni, di scorci silenziosi, che coglie con piglio contemplativo, con perfetti accostamenti. Tutto è descritto con sensibilità ed è questo timbro appena elegiaco che rende ancora più suadente la sua pittura. I suoi colori, i suoi tocchi lievi, sprigionano piacevoli emozioni e sembrano quasi "improvvisi" musicali, che rendono il senso d'ariosità dei paesaggi. Si ha così l'impressione di una grande vitalità del colore-luce, che si traduce in un'orchestrazione tipicamente sinfonica. Alla fine l'opera appare perfettamente "costruita" e le strutture formali restano precise e lievi, come se volessero sottrarre le cose all'implacabile corrosione del tempo, con la vivezza delle cromie e la freschezza delphoca_pavesil_Maggio_a_Fondotoce_45x60_PU sentimento che le pervade. Dunque, un appassionato ed efficace paesaggista, dai colori puliti, dai toni caldi, dai ritmi sinuosi, che danno la sensazione della facilità espressiva con cui esegue le proprie composizioni. Tutte dipinte nella nostra migliore tradizione, con quel senso trepido della natura, dove, per esempio, un torrente fluisce nervoso, con la sua acqua tersa, tra i massi e a fianco un'erta, la quale sale tra larici che paiono sbattere i rami in un cielo autunnale. Egli non si limita ad una semplice riproduzione dei panorami, anzi li arricchisce di un fervido e vibrante lirismo che li pervade, animandoli di un palpito di vita. Ultimamente, poi, Pavesi si è rinnovato nel taglio interpretativo, come in talune visioni colte dall'alto o in certi soggetti d'interni, che finiscono per gettare uno sguardo sul paesaggio circostante, attraverso finestre o porte aperte. In alcuni dipinti, soprattutto in quelli di grande formato, si ha l'impressione di entrare nel quadro. Mi dicevano alcuni amici milanesi, venuti in Ossola e facendo con me visita all'artista: <<Noi affitteremmo volentieri una stanza con una finestra che si apre su un paesaggio di Ugo Pavesi>>. Ed è vero, perchè alcune sue tele del Monte Rosa avrebbero lasciato meravigliati anche i mecenati del Rinascimento, che sicuramente lo avrebbero invitato alla loro corte. Dico questo, perché quando, come in Ugo Pavesi, l'arte è autentica, non ha né età, né tempo. Forse, è proprio grazie a bravi pittori come Ugo Pavesi, se l'arte paesaggistica e figurativa è ancora fortemente apprezzata.

Giuseppe Possa

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Ugo Pavesi e Giuseppe Possa

Ugo Pavesi, è stato definito "pittore post-realista di sensazioni" per la capacità d’insieme delle composizioni e quella sensazione di naturalezza veristica che i suoi quadri trasmettono. Nato a Villadossola (VB) nel 1941 dove vive e opera, Pavesi ha esposto in varie località in Italia e all’estero, in parecchie personali, in collettive e mostre invito. Membro effettivo dell’Accademia Greci-Marino. Senatore dell’Accademia Machiavelli di Firenze. Maestro di pittura alla Scuola A.D.A di Domodossola. Premiato in vari concorsi nazionali e internazionali, sue opere si trovano in collezioni private e pubbliche in Italia e all’estero: Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Sud Corea, Canada, Stato del Vaticano, ecc. Hanno parlato di lui giornali, riviste e pubblicazioni varie. Nel 2007 ha dato alle stampe una corposa monografia con riproduzioni di oltre 150 opere e con gli scritti di critici, studiosi e giornalisti (alla stesura del volume hanno collaborato Gianfranco Bianchetti, Giuseppe Possa, Raffaele Fattalini e Gian Luca Pavesi).

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Stralci di testi critici dalla Monografia

<<Viene spontaneo collocare il pittore Ugo Pavesi fra quei paesaggisti, attivi nella comunità degli artisti ossolani, dediti a indirizzare le proprie pulsioni creative all’interpretazioni degli aspetti paesistici, naturali o antropizzati, dell’ambiente scelto seguendo una personale propensione o una inevitabile vocazione emotiva indotta da ragioni esistenziali. Motivazione che, nella intrinseca armonia degli esiti raggiunti da Pavesi , sembrerebbero coniugarsi anziché contrastarsi e, poiché l’autore appare particolarmente felice dell’interpretazione del paesaggio alpino, vien da pensare che la manifesta ossolanità delle sue scelte sia segno esplicito di una inclinazione spontanea, corrispondente agli stessi luoghi percorsi dalla sua vicenda esistenziale, fruttuosamente eletti a modello della sua sensibilità, giacché connaturati al senso estetico che lo sostiene e guida nell’atto creativo del dipingere>>. (Gianfranco Bianchetti)

<<I paesaggi preferiti da Ugo Pavesi, ai quali lo lega una lunga e mai dismessa fedeltà, sono la natura e soprattutto i paesaggi alpini delle valli ossolane, ma anche il fiume Toce e il Lago Maggiore. Nei suoi quadri ricompaiono, immutati e fermi nel tempo sullo sfondo delle montagne, piccoli gruppi di case di sasso dove vissero i nostri nonni, ruscelli catturavivi e torrenti che ci vengono incontro argentei nell’ombra violacea dei monti, dei boschi e prati, colorati dal sole o chiazzati di neve, mentre in cielo vaga qualche velo di nube. Un piccolo mondo antico, a noi però così vicino nella geografia del cuore (chi c’è dietro quelle piccole finestre illuminate di calda luce, al crepuscolo?). Ma soprattutto sono le montagne (come i celebri “Monte Rosa”) nei suoi quadri. Montagne incantate, spettacolarmente evanescenti nell’alba rosata, emanano luce anche incorniciate nella sala di casa>>. (Raffaele Fattalini)

<<Pochi artisti sono riusciti a illuminare le montagne, i cieli e la neve come Pavesi, nelle cui tele i colori appaiono ben intonati e luminosi, seppure con un leggero velo di malinconia, lo stesso che sembra appartenere al suo carattere. Ci troviamo, dunque, di fronte a un autentico interprete della pittura dal vero, il quale oltre alla padronanza tecnica e stilistica, frutto di tanti anni di ricerca e di lavoro, ha unito una smisurata e provata passione. Ugo Pavesi, persona affabile e modesta, non si accontenta mai dei risultati raggiunti, tanto da andare al di là dell’arte tradizionale, con una pittura personale, poetico-realistica, che trova forse un’eco lantana nei grandi del passato, ma in chiave contemporanea. Bisogna dargli atto di non aver mai ceduto alle lusinghe delle mode pittoriche del momento, sempre fermo nelle sue convinzioni: egli, infatti, dipinge e interpreta sul posto il soggetto, filtrato dalla sua sensibilità>>. (Giuseppe Possa)

Osvaldo Coluccino: “Gamete” (Coup d’idée Edizioni d’Arte)

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01) Osvaldo Coluccino,08-04-19 alle 15.30 #3 copia 2Avevo già recensito nel 1997 la terza raccolta di poesie, “Quelle volte spontanee”, di Osvaldo Coluccino un affermato artista, assai più conosciuto fuori dalla nostra Ossola (è nato nel 1963 a Domodossola, dove tuttora vive e opera) a continua dimostrazione che “nessuno è profeta in patria”. Compositore musicale fin dal 1978, ha inciso dischi per etichette internazionali e diverse sue partiture sono state pubblicate dalle edizioni “RAI Trade”, commissionate fra l’altro da Biennale di Venezia, Milano Musica-Teatro alla Scala, Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Teatro La Fenice di Venezia ed eseguita in Italia e all’estero. I suoi numerosi libri contengono le prefazioni di noti critici, quali Stefano Agosti, Giuliano Gramigna, Giorgio Luzzi. Suoi scritti sono apparsi su prestigiose antologie e riviste (“Il Verri”, “Poesia”, “Annuario di poesia 1991-92” di Crocetti editore, “Anterem”, “Scritture di fine Novecento” che è un'antologia con premessa di Maria Corti, “Idra”, “Musica/Realtà” e altre). Nel 2010 un importante artista come Marco Gastini ha illustrato il libro d'arte di Coluccino “Appuntamento, presentato alla Galleria d'arte Moderna di Torino. Su Wikipedia, comunque, si può leggere un esauriente riassunto della sua attività.

Per quanto riguarda la poesia, Coluccino ha svolto un'intensa produzione dal 1986 al 2003, dando alla stampa diversi volumi, l’ultimo dei quali, “Gamete”, edito a Torino da Coup d’idée (progetto di copertina Giulio Paolini, grafica di Franco Mello).

Dirò subito che il suo versificare non è di agevole lettura, occorrono “palati” fini per apprezzare le sue composizioni (atipiche nella nostra poesia odierna), che mettono in luce il grande estro creativo ch’egli possiede e la scorrevolezza ritmica dall’afflato “musicale”. La forbitezza del lessico utilizzato è comunicativa, non cerebrale, perché il lettore (non quello comune, dal momento che questa poesia richiede reiterate letture nel tempo) è come immerso in un mistero affascinante o un’atmosfera magica, quasi rarefatta e foggiata da immagini potenti, dove certi effetti timbrici, nel loro farsi misura fonica, sono toccati dalla grazia dell’originalità.

Fin dalla prima sezione della silloge “Eliaco”, sette poesie in cui l’autore sembra realizzare un’ambientazione evocativa, mitica, d’altri tempi, rendendola però attuale, al punto di far scrivere a Michelangelo Castagnotto: <<secondo me, OsvaldoGamete, cover, fronte Coluccino è il maggior poeta italiano contemporaneo per la magia del percorso chimico con cui riduce a un bagliore di fiammata il refrattario della lingua di casa>>.

Segue poi la sezione che dà il titolo alla raccolta “Gamete” (cellula riproduttiva, detta anche “cellula germinale”). <<Lemma primario, insidiosamente biocentrico: ciascuna delle cellule che si fondono durante il processo di riproduzione sessuata. Di quella sessualità molare, nella poesia di Coluccino, rimane l’eco>> scrive nell’esaustiva postfazione Gilberto Isella (noto critico, scrittore, poeta e traduttore svizzero di lingua italiana), il quale poi prosegue la sua disanima completando: <<Dai gameti discesero la vita, la pluralità, il tempo, e perciò anche la consunzione, la rovina, l’assenza. E infine, a blandire queste ultime, il mito: enunciazione ancestrale peraltro già insidiata dal “senno di poi”. Si capirà di conseguenza l’espiatoria remissione all’aulico: “opimi”, “eduli”, “elice”, “latebre”, “ludi” … larve segniche a guardia del testo-nartece>>.

A mio avviso, la poesia di Coluccino è complessa ma formalmente preziosa, richiede IMG_E1528passione lirica, pazienza, tanta dedizione, perché è percorsa da tensione, da vibrante pathos interiore e si sostanzia di esperienze umane, vibranti riflessioni, volte ad accordare l’interiore coscienza con una mistica subliminale, depurata dell’effimero per tendere a una dimensione intimistica. Così l’autore, senza assumere carattere intellettualistico, né di compiacimento concettuale, rivela una viva tensione a chiarire il proprio mondo esistenziale che quasi aspira alla solitudine del silenzio, alla pace che nasce da dentro. La ricchezza linguistica, stilisticamente controllata, accompagna degnamente lo splendore classico, il canto si fa allora vibrante, accompagnato dalla magia della musica. Infatti, a me sembra, che i suoi versi assecondino più un ordine sonoro che un effetto logico, in virtù delle sequenze metaforiche che provocano cadenze risonanti.

Inoltre, ecco qua e là farsi strada una luce di ragione che repentinamente sposta l’asse del discorso poetico - caricandolo a sua volta di un significante che non può più celarsiYJYA0246 dietro le brume del mito - verso la natura, l’amore e tutti quei sentimenti emozionali che sanno sprigionare. Sono essi il cardine dell’impianto espressivo di Coluccino. Al rigore strutturale c’è pure una costante ricerca di simmetria (anche di equilibrio nel caos vitale), quasi una colorazione dei versi. E a proposito di colori non mi meraviglierei se in segreto egli coltivasse anche la pittura, perché noto assonanze di una ricca registrazione cromatica di sensazioni, di suoni sottili, di trasparenti nebbie, con la brevità e l’efficace sintesi di una parola epigrafica. È ciò a costituire, in una sorvegliata architettura tonale, la poesia di Osvaldo Coluccino, che reca il segno della sua personalità inconfondibile, distinta dalle altre.

Giuseppe Possa

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Jean Mégier e i suoi “psicogrammi”

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Ho incontrato Jean Mégier durante una sua mostra allo "Spazio ex Fornace" di Milano,Jean Mégier in studio in cui ha esposto opere astratte, rappresentazioni della natura e ritratti. Una libertà inventiva, la sua, attraverso modi surreali, fantastici, e una struttura volumetrica dentro forme striate che si articola secondo un sistema a volte istintivo, altre intuitivo, della realtà. Per esempio, in un folto di alberi ogni elemento è costruito per mezzo di segni neri e dinamici, realizzati col carboncino, spezzati in modo speculare e rivestiti di una luminosità omogena. I ritratti, inoltre, sono proiettati in una plasticità segmentale in cui i volti (“psicogrammi”) sembrano portare alla luce i sotterranei flussi della coscienza, in espressioni individuali, ma svuotati di sostanza psichica e sentimentale, quasi a voler lasciare posto solo agli occhi, specchio di una personale interiorità.

Non conoscevo Mégier, ma il comune amico Max Caramani, noto operatore culturale lombardo e direttore di “Life Effetto Benessere”, me ne ha parlato e mi ha accompagnato all’esposizione. I suoi quadri - in un ritmo cromatico dalle intense vibrazioni che paiono espandersi dal centro verso gli sfondi - hanno subito attratto la mia attenzione, così abbiamo iniziato un colloquio informale, poi proseguito nel suo studio. Gli chiedo subito di parlarmi di lui:

<<Sono nato nel 1964 in Francia, da padre francese e madre viennese. La mia famiglia si è stabilita quando ero piccolo in provincia di Varese per il lavoro di mio padre. Sono sposato con Giordana Zuffardi Valdivia, anche lei artista visiva di madre peruviana e padre italiano e abbiamo un figlio, Elias, dottorando in Fisica teorica alla facoltà di Matematica di Milano>>.

C’erano già stati artisti nella tua famiglia?

Albero acquerello e carboncino su carta 2016  50X35 cm.JPG<<Un mio bisnonno materno, Anton Karlinsky, era un famoso pittore viennese e ha avuto due figli, fratelli di mia nonna, che si sono dedicati all'Arte: Anton Karlinsky Junior che fu un ottimo pittore, purtroppo scomparso in giovane età durante la seconda guerra mondiale, e sua sorella, Elisabeth Karlinsky, anche lei pittrice, che sposò un celebre scrittore e pittore danese, Hans Scherfig, e si trasferì in Danimarca continuando il suo percorso pittorico>>.

Quindi i tuoi inizi sono stati facilitati e influenzati da questo ambiente.  

<<Sì certo, sono cresciuto in questo contesto, così fortemente influenzato dall'Arte visiva, infatti fin dalla più tenera età sono stato sollecitato a esprimermi attraverso il disegno, la pittura e l'incisione. Quando con la famiglia si andava a trovare la prozia in Danimarca portavo sempre come regali delle mie incisioni su linoleum che venivano molto apprezzate dalla sua famiglia>>.

Ho letto sul depliant della mostra che, nel contempo, hai coltivato anche la passione musicale, che tuttora coltivi professionalmente. Tra l’altro mi sembra di notare che il tuo linguaggio è molto affine a quello della musica.

Albero acquerello e carboncino su carta 2016 100X70cm<<Nella mia formazione artistica la musica ha avuto una importanza fondamentale. Dall'età di otto anni studiai il violino, fino a diplomarmi nello strumento, arrivai addirittura a pensare che sarei diventato un violinista solista, ma la passione per l'Arte visiva prese il sopravvento e mi iscrissi al corso di Pittura all'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano con il Professor Diego Esposito. La frequentazione dell'Accademia mi ha reso più cosciente del mio essere pittore e del mio sguardo attivo sul mondo e sull'universo dell'Arte>>.

Quindi lui fu determinante per la tua formazione?

<<I corsi del professor Esposito sono stati importanti nell'aiutarmi a focalizzare il mio lavoro e nella sua aula ho avuto modo si respirare un'aria internazionale e feconda>>.

Ma prima dell’Accademia ci sono stati anche “maestri” virtuali che ti hanno influenzato?

<<Durante la mia adolescenza ho incontrato i quadri di Paul Klee, ma ho preso coscienza della sua influenza quando nella mia pittura sono comparsi i segni danzanti e le linee musicali del contrappunto, che inconsciamente avevo interiorizzato e che solo in quel momento si rendevano evidenti sulla tela che dipingevo. La mia strada da allora è quella del segno e della pennellata con personalità e individualità, è la strada del concerto di segni che insieme formano l'immagine pittorica>>.

Jean, parlaci del tuo modo di operare.

<<Dipingo principalmente su lenzuola usate non preparate, di cotone o di lino, intelaiate>>.

Come mai questa scelta?

<<Perché il tessuto ha già vissuto una vita precedente, in certi punti è più liso, la trama nonjmagier è perfettamente geometrica, la tela ha già un suo carattere che traspare e asseconda le pennellate. Per quadri di più ampie dimensioni utilizzo tele di cotone non preparato che compro in teleria. Opero sulla tela bagnata con colori acrilici e con segni che vanno cambiando a seconda dell’asciugatura della tela, utilizzo i colori fondamentali non mischiati: rossi, gialli, blu e il calligrafico nero che sostiene il ritmo dell'immagine che nasce dalla mia gestualità. Il risultato del mio lavoro può essere non figurativo, ossia lascio completa libertà allo sguardo di chi lo fruisce, oppure tendere verso la figurazione come nel ciclo di ritratti iniziato più di trenta anni fa o come nel ciclo degli alberi>>.

Personalmente, dopo uno sguardo d’insieme ai tuoi quadri, ritengo questo periodo tecnicamente molto riuscito, che ne dici?

<<Il ciclo degli alberi è realizzato principalmente su carta per incisione, bagnata di cotone cento per cento sulla quale intervengo con acquerello e segni di carboncino nero. Ma anche il ciclo che ho iniziato ultimamente, nel quale raffiguro draghi su tele alte tre metri, mi pare significativo. Come puoi notare i miei temi sono influenzati dalla natura e dai simboli.  Gli alberi, ad esempio, sono diventati per me una realtà da osservare e proporre, perché fin da piccolo rimanevo affascinato dalla crescita delle piante e dal loro sviluppo armonico, dalla segnicità del tronco, dalla struttura lineare dei rami>>.

E questa passione ti è rimasta dentro? 

Dalì acrilico su tela 2015 70X70cm<<Non solo, ma mi ha portato a diplomarmi anche come Giardiniere professionale e a coltivare molte specie di alberi che regalo o che pianto in parchi pubblici, come è successo a Besozzo, il paese dove ho trascorso la mia infanzia e adolescenza, dove ho piantato due Gingko Biloba che crescevano all'Orto Botanico di Brera, ai tempi abbandonato, e che noi studenti dell'Accademia frequentavamo>>.

Meraviglioso, ma torniamo alla pittura.

<<Dipingere è come buttarmi in un fiume per attraversarlo, un atto che mi mette in pericolo, una sfida. Con la mia tecnica pittorica non posso permettermi di sbagliare, non lavoro su un disegno precedentemente tracciato ma direttamente con il pennello e il colore sulla tela bagnata. Senza possibilità di correggere. Dipingere è un atto che mi fa vivere completamente nel presente, è una meditazione>>.

Ma secondo te, la pittura che funzioni ha, in senso più ampio?

<<La Pittura, secondo me, ci deve aiutare a guardare il mondo, ad osservare, a formarci uno sguardo più acuto e attento, più attivo. L'occhio non deve scivolare indifferente sui miei quadri. Guardarli attivamente significa soffermarsi sui segni, sui colori, saltando dal particPicasso acrilico su tela 2008 70X70cmolare al generale, per ritornare sul particolare, allontanandosi dal quadro, avvicinandosi. Significa non avere di primo acchito il desiderio di comprendere concettualmente la forma, ma di lasciarsi andare alla visione del segno, del movimento delle pennellate, degli stacchi ritmici. Significa abbandonarsi al colore, al desiderio di lasciarsi andare al tutto senza farsi influenzare dal desiderio di capire. Non c'è niente da “capire”, chi fruisce del mio lavoro diventa protagonista della visione, vive l'opera>>.

Cosa intendi tu per “salute”, “benessere” della vita? Come vivi, in tal senso, da persona normale?

<<La pittura, per me, è vita e nel dipingere trovo la realizzazione del mio “daimon” (spirito guida), nel senso dato dai greci, e cioè che siamo nati per seguirlo e realizzarci attraverso esso e questo mi fa conseguire il benessere. La salute è necessaria per poter agire, ma dall'altro canto, agire seguendo il proprio “daimon” la favorisce, anche nel caso in cui difetti. In altri termini, appunto, seguire il proprio “daimon” è vita...>>.

Passata attraverso un processo di semplificazione geometrica, la pittura di Jean Mégier - dentro cui le sensazioni figurali si strutturano in ritmi dinamici essenziali, strisce slegate ma unite nell’insieme a creare un movimento totale in forme rigate - pare dissolta in zone monocromatiche, pervasa da un’intima dinamica che s’invade reciprocamente, trapassandoli gli uni negli altri, gli incisivi tocchi segnici. Un modo di dipingere che dà, tuttavia, l’immediata sintesi percettiva dei soggetti formati come dentro tanti puzzle: siano essi ritratti (allusioni di volti frammentati), alberi o altri elementi della natura (vaganti come atomi).

Giuseppe Possa

gppos

Un libro di Pier Franco Midali per celebrare i 10 anni del Parco Valle Antrona

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Locandina decennale Parco Valle Antrona definitiva (FILEminimizer)Nel contesto delle opere paesaggistiche di Ugo Pavesi (un’esaustiva antologica con molti quadri di grande formato che illustrano le bellezze delle nostre valli), al Teatro La Fabbrica di Villadossola, Sabato 30 novembre 2019, alle ore 20.30, si terrà una serata celebrativa del decennale d’istituzione del Parco Naturale della Valle Antrona con il Laboratorio Corale Cantar Storie diretto dal maestro Luca Bonavia e un incontro con i promotori dell'idea, moderato dal giornalista RAI Maurizio Menicucci. Durante questo evento, a cura dei Comuni di Antrona e di Borgomezzavalle, sarà presentato la pubblicazione di Pier Franco Midali. Nell’intervista che segue, si parla con l’autore dell’argomento Parco.

Innanzitutto, Midali, perché un libro sul Parco Naturale della Valle Antrona?

<<Sono passati dieci anni dall’istituzione dell’area protetta della Valle Antrona (La legge regionale 33 che istituì l’area protetta è del 22 dicembre 2009).  Essendo stato tra i promotori di quell’idea, mi è sembrato doveroso offrire un omaggio al territorio in cui risiedo. Una zona affascinante che può e deve credere nel suo rilancio turistico.  Le incontaminate bellezze naturali, tra l’altro ben documentate nel testo, altro non sono che un prezioso biglietto da visita per turisti e visitatori>>.

Quindi vuoi dire che l’area protetta della Valle è stata pensata per tutelare le bellezze naturali, affinché possano diventare attrattiva turistica e moderno volano per il rilancio economico?

<<Certo. Perché l’Antrona è una valle magica, non solo per i paesaggi incantati che sa offrire, ma anche per l’eco che risuona tra le sue valli, i suoi alpeggi e i suoi centri storici. Un’eco che racconta storie antiche, tramandate da secoli, che affascinano e catturano il visitatore>>.

Nella serata a “La Fabbrica” di Villadossola del 30 novembre traspariranno questi ricordi, insieme al racconto delle circostanze che portarono all’istituzione dell’area protetta?

La luce fa la differenza.... (FILEminimizer)<<Proprio così. Se da un lato il Laboratorio Corale Cantar Storie diretto dal Maestro Luca Bonavia eseguirà brani che traggono origine da questo territorio e sono inseriti in un repertorio di canti popolari davvero molto belli, dall’altra sarà il racconto degli allora protagonisti a far rivivere, dieci anni dopo, le sensazioni e le emozioni che si vissero nel momento istitutivo. Sarà, infatti, presente Paolo Caruso, allora assessore ai parchi della Provincia del VCO; ci saranno gli amministratori che credettero nell’istituzione dell’area protetta e chi ha contribuito a impreziosire il lavoro di ricerca. La serata sarà coordinata dal giornalista RAI Maurizio Menicucci, amico del territorio antronese, che con la troupe televisiva documenterà il decennale del parco regionale>>.

Pier Franco, chi ti ha aiutato nel lavoro di ricerca e documentazione affinché il lavoro intrapreso potesse rappresentare al meglio quanto accaduto per arrivare all’istituzione del Parco e promuovere turisticamente il territorio della Valle Antrona?

<<Molte cose le serbo nella memoria poiché fanno parte del bagaglio culturale derivante dall’attività amministrativa svolta su questo territorio. Altre sono scaturite da un’attenta ricerca fatta negli archivi. Indagine tra l’altro estremamente semplice, giacché la realtà dell’area protetta è tutto sommato “giovane” e Erebia Christi. (FILEminimizer)quindi non si è dovuto scavare più di tanto tra le carte e gli atti d’archivio. Il merito maggiore va però riconosciuto a due persone straordinarie, che hanno abbellito il testo grazie alle fotografie pubblicate. La loro passione per le istantanee e l’estrema capacità di cogliere l’attimo con l’obiettivo, hanno consentito di impreziosire il lavoro svolto. Sono gli amici Dario Broggi e Edith Steinbach. Il primo, appassionato frequentatore dei nostri sentieri, custodisce immagini straordinarie della flora, della fauna e dell’ambiente antronesco. L’altra, studiosa dei lepidotteri, ha regalato al lettore scatti preziosissimi per far comprendere quanto vero fosse il detto dei nostri progenitori, quando asserivano che l’Antrona sia per eccellenza la Valle delle farfalle>>.

In effetti, il simbolo scelto per identificare l’area protetta che celebra il decennale istitutivo è proprio quello di una farfalla veramente rara e delicata …”.

<<È vero, un capitolo del libro è stato proprio dedicato all’Erebia Christi, un lepidottero delicato e a forte rischio d’estinzione che trova il suo habitat naturale sulle cenge rocciose dell’Antrona. Sono poche nel mondo le località che possono vantare la presenza dell’Erebia Christi sul proprio territorio.  Pensa come sia, semplicemente, un esserino fragile, la cui apertura alare non va oltre i tre centimetri. Eppure è riuscito a interessare studiosi e ricercatori di tutto il mondo.  Vive soltanto in quattro, cinque vallate comprese tra il Piemonte e la Svizzera ed è diventata, questa farfalla, il simbolo per eccellenza della biodiversità del Parco Naturale dell’Antrona>>.

Raccontaci le impressioni più intime che hai vissuto in questi dieci anni, soprattutto quelle che ti hanno indotto a credere in quest’avventura e a spenderti affinché l’area protetta potesse essere realizzata.

<<Vorrei che dal testo trasparisse l’idea che oggi è ancora possibile investire sul futuro della Valle Antrona. Vorrei che aiutasse a evocare la storia, l’arte, il paesaggio e gli altri valori positivi di un territorio in grado di attrarre chi è alla ricerca di un’esperienza turistica extra ordinaria. Per questa ragione e con fiduciosa convinzione, vorrei che il testo fungesse da ponte per chi volesse viaggiare all’interno della Valle Antrona alla ricerca della cultura e della Piccolo, ma nel cuore della gente di due Valli..... (FILEminimizer)“vita” dei suoi luoghi. Per chi considerasse l’esperienza di questo territorio un valore aggiunto rispetto ad altre mete turistiche. I capolavori dell’arte, i percorsi religiosi e naturalistici, le tracce storiche, quelle archeologiche, i tesori minerari e gastronomici, ma anche la letteratura e la pittura devono divenire risorse straordinarie di promozione e sviluppo.  La Valle Antrona deve imparare a investire su queste sorprendenti qualità e saper creare modelli virtuosi di turismo contemporaneo>>.

Mi risulta che non tutto sia andato secondo pronostico, ma al contrario che qualcosa non ti abbia soddisfatto appieno … racconta anche questo interessante aspetto della vicenda.

<<Hai ragione, ritenni uno sbaglio - e ne sono tuttora convinto - che l’aver voluto accorpare la gestione dell’area protetta antronese con quell’antigoriana del Veglia Devero, sia stato un errore. Lo definirei uno sbaglio culturale, gestionale, antropologico e amministrativo. Sono troppo diverse le due realtà per pensare a una gestione congiunta. Al parco naturaleStambecchi della Valle Antrona doveva essere attribuita una gestione autonoma, portata avanti da persone presenti sul territorio disposte a svolgere una delicata missione territoriale, quasi a sacrificarsi per un progetto ambientale. E non sarebbe stato difficile recuperarle. Perché il parco della Valle Antrona non può essere considerato un ente territoriale come altri. Non necessita solamente di politiche incentrate sulla conservazione dell’ambiente, sulla pianificazione del territorio o sulla promozione di eventi marginali. Ha bisogno di una politica rivolta al rilancio occupazionale e alla crescita economica delle sue genti, agevolando la formazione di posti di lavoro legati alla creazione di attività economiche. Quello che a oggi non è ancora stato fatto. Solo una regia di persone nate e cresciute in valle può sostenere una sfida di così grandi dimensioni>>.

Infine, caro Pier Franco Midali, quale approccio consigli a chi si accinge a leggere la tua opera sul decennale del Parco della Valle Antrona?

<<I lettori sono sufficientemente scaltri nel saper discernere i veri contenuti dell’opera. A loro resta, ovviamente, il giudizio sulla stessa e sulle parti maggiormente coinvolgenti. Dovessi dare un consiglio a chi si appresta ad affrontare il testo, suggerirei di leggere con attenzione la presentazione e l’epilogo dell’opera. Da quegli scritti trapela il mio pensiero. Penso traspaia con l’identica nitidezza con cui le straordinarie fotografie rivelino la bellezza del territorio dell’Antrona. Sono curioso di ascoltare le critiche e le recensioni che scaturiranno dopo la sua presentazione…>>.

(a cura di Giuseppe Possa)

14100536_10209105828155722_500658958359953163_n Giuseppe Possa e Pierfranco Midali[/caption]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PIER FRANCO MIDALI, nato a Premosello Chiovenda nel 1959, ha trascorso gli anni giovanili a Villadossola e oggi risiede a Viganella, località del Comune di Borgomezzavalle, nella valle Antrona. Dopo il diploma di perito elettrotecnico all’ITIS di Domodossola, inizia l’attività lavorativa, che svolge tuttora, nelle Ferrovie dello Stato, ora Trenitalia. Nel 1987 si sposa con Paola Ghersi e avrà due figlie, Fabiola e Gloria. Collabora come pubblicista conmidali sole le testate giornalistiche “Il Popolo Dell’Ossola” e “Il Sabato” di Novara; inoltre; dal 1994 al 1997 è redattore capo della rivista “Nuova Valle Antrona”. Dal 1999 al 2009 è stato sindaco di Viganella (ora con Seppiana, unite nel Comune di Borgomezzavalle, di cui è vicesindaco). Ideatore del progetto “specchio di Viganella”, realizzato dall’arch. Giacomo Bonzani, ha ottenuto diverse note di merito e onorificenze sia nazionali che internazionali. È Cavaliere Ufficiale “al merito della Repubblica Italiana” e ha riceve il “TAU D’ORO 2006” premio internazionale di televisione e della comunicazione europea, ritirato ad Orta S. Giulio. Nel 2016 ha ottenuto il Premio Bognanco Terme per la letteratura. Prima di questo libro ha dato alle stampe diverse pubblicazioni su argomenti o autori locali; tra gli altri, si ricordano: “Sol omnibus lucet” il volume che narra le vicende del progetto “Specchio di Viganella”; “Sulle orme di antichi passi”, un saggio che illustra i ritrovamenti litici del ricercatore Bruno Pavesi; “Don Remigio Biancossi”, vita e opere del poeta di Bognanco; “Oltre l’ignoto”, viaggio nella Valle Antrona Preistorica; “Ex devotione hominum terrae Vallis Antrona”, arte e devozione negli ex voto della Valle Antrona.

Luigi Franco: un artista pittoricamente e umanamente solare.

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Le opere di Luigi Franco, un artista pittoricamente e umanamente solare, sonoLuigi Franco figura intera 1 caratterizzate da colori materici ma vibranti e da una particolare ricerca astratto-informale. Pare, il suo, un viaggio nell’animo della vita alla ricerca di una luce, il viaggio in cui sembra trovarsi. I suoi quadri sono di grande libertà espressiva; sono atmosfere incantate, asfittiche come per mancanza d’aria; tuttavia, assai riflessive, un poco misteriose, istintuali poiché in esse si materializza, mostrandosi, la propria tempesta emotiva. Tracce cromatiche varie, tasselli armonicamente stesi con sensibilità delicata e sottile, producono diversi soggetti con toni a volte tenui a volte decisi; dai titoli, ispirati a fantasiosi incantesimi: “ruggini”, “tracce”, “notturni”, controluce”, “riflessi”. Certe forme - generate da un segno elegante e incisivo, unito a striature preziose o a tratti accesi, decisamente corposi - sono trasformate dall’autore in una visionarietà di immagini poetiche.

Controluce Olio su tela 30x30 2019_resized_20191022_093526506Il colore - che scorre liberamente in aree germinative generate da sinuose linee, larghi tratti di un flessuoso fluire - ha una particolare vibrazione che ce lo rende luminoso in disarmoniche forme geometriche, che permettono di accedere più agevolmente alle qualità strutturali dell’opera. Franco è un artista sostenuto e valorizzato da una approfondita, sicura, conoscenza della tecnica pittorica e compositiva. Il suo operare sulle tele, plastico e policromo, fra movimento e staticità, fra luce e ombra, non s’impone con mistificazioni sperimentali, ma entra nell’animo dei fruitori con forte vibrazione e come un’eco mistica che non si spegne. Queste visioni dipinte, queste deflagrazioni improvvise in spazi colorati, non possono che essere folgorazioni dell’inconscio, rapide intuizioni emozionali, che nessun computer riuscirà mai a produrre.

Ma nei lavori di Franco vi è qualcosa di più: le immagini sovente paiono provenire da altri mondi, di certo prodotte dall’artista con gesti improvvisi, ma accompagnate da pennellate di un procedimento premeditato. Sfumata, ineffabile, a tratti solo accennata, eppure intensa e fortemente evocativa, la pittura di Luigi procede per sottrazione, facendo emergere dalla luce solo ciò che vale la pena di mostrare, attraverso il respiro della poesia con cui è espressa. In altri quadri le “sedimentazioni”, “verso il sole”, le “visioni di città”, i “chiari di luna”, gli “unici punti di fuga” si combinano con una bella armonia di colori e di vibrazioni all’interno dell’opera dipinta in brandelli labili e sfuggenti, dentro atmosfere perlacee che innervano le creazioni medesime.

Luigi Franco lavora per sintesi e la sua realtà ha la forma di un “pulviscolo” filamentosoTracce 3 Olio su tela 20x20 2019_resized_20191022_093428677.jpg che ora si muove od ora sosta in un cosmo immaginario, proponendo a un osservatore attento soluzioni “invisibili” di innumerevoli elementi simbolici o emotivi. Come se l’artista cercasse, nell’istantaneo e nel fuggitivo, l’essenza: non l’effimero, ma la forma continua degli elementi primari - terra, aria, fuoco, acqua - in uno scorrere “eracliteo” che di attimo in attimo varia la sua linfa e che l’autore riesce a cogliere con esplosioni cromatiche, ora tenui ora materiche, a volte gioiose, altre volte malinconicamente introverse. Il racconto finale che Franco esprime in ogni opera è prodotto da un’illuminazione pittorica, da una grafia perturbante, che si incarica di concedere ordine al teatro intricato della umana comprensione.

Giuseppe Possa

Zemfira Alekperova giovane pittrice russa

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La pittura espressionista di Zemfira Alekperova (una giovane russa che attualmente,IMG_20191110_001116 per meglio specializzarsi nel proprio ramo di studi, sta frequentando l’ultimo anno all’Università “La Sapienza” di Roma, facoltà Design del prodotto) presenta la gestualità forte e prorompente di una colata lavica. Se i suoi quadri di paesaggio appaiono incandescenti, per quel loro accendersi e rigenerarsi dando forma estetica all’energia della natura, con cromie calde e solari tra cielo, terra e acqua, i volti che propone, al contrario, denotano l’inquietudine della coscienza umana di ogni individuo raffigurato, quasi fosse martoriato da forze interiori sconosciute.  

La ricerca di questa artista, nello splendore della sua primavera creativa (è nata a Baku Cattura zu 6nel 1990 e nella sua città si è laureata all’Accademia delle Belle Arti in pittura e poi ha proseguito i suoi studi presso l’Istituto Europeo di Design a Firenze), ha uno spessore e una tangibilità poetica, nel riprendere scorci e angoli di vedute, poiché ella non si ferma al semplice aspetto visivo. Coglie pure, con movimenti di linee e forme figurali, la corposità magmatica dei suoi colori vivi e ribollenti, come se sgorgassero dalla profondità dei paesaggi dipinti. Ne sortiscono visioni sognate, forse improbabili nella realtà, tuttavia riconoscibili al vaglio di una surreale immaginazione, per la forza evocativa di questi scenari densi e popolati di sostanze ed elementi naturali o di strutture edificate dall’uomo. Ai fruitori, tali opere appaiono simili ad atmosfere cariche di energie potenti, con le quali l’autrice riesce a esprimere in modo sofferto il degradamento ambientale, qui inserito in una tessitura spaziale volutamente onirica.

Cattura zu 8Sono, però, i suoi ritratti spigolosi e deformati nell’espressione fisiognomica, a farci soprattutto riflettere, per quell’incisione segnica e cromatica, in cui esprime crudamente, ma anche con strazio introspettivo, l’apprensione angosciosa sua e di tutti quanti, attraverso i visi dei raffigurati, quasi maschere di tendenza tragico-grottesca. E sebbene sembrino appartenere a una dimensione atemporale, perché hanno perso i loro connotati realistici, mantengono un legame inscindibile con il presente.

Nodale e centrale in questa tematica di Alekperova risulta l’iconografia dell’essere umano messo di fronte a se stesso – alle sue fobie, alle sue paure, alle sue lacerazioni oCattura zu 10 alle sue illusioni – e qui ripreso con notevole causticità mascherante e con tonalità potente, che la giovane artista ben ha studiato e che sa usare con macerata efficacia. Possiamo così ammirare volti effigiati nella loro sorda angoscia che pare rimbombare attraverso la cortina dei colori: esseri chiusi in loro stessi, paiono soggiogati dal peso di una precaria condizione esistenziale, che li sommerge in un travaglio senza echi, travolgendoli e trascinandoli in uno smarrimento senza appigli, né certezze. Eppure è proprio questo lavoro di penetrazione psicologica dell’animo umano che offre un filo di speranza, in particolare nell’interpretazione in profondità della nostra percezione, della nostra coscienza, per trasferirla come fosse un racconto sulla tela, quasi in attesa di un’impollinazione cromatica della vita. In particolare, è nei loro occhi toccanti che spesso si possono cogliere espressioni addolcite d’energia vitale. In questo modo la forza prorompente di Zemfira, attraverso la sua intima ricerca figurativa, crea un’immagine, un pensiero, un concetto, che fanno prendere coscienza a noi delle nostre personali contraddizioni.

Zemfira Alekperova (che fin da piccola ha partecipato a numerose collettive in Russia eCattura zu 3 in questi mesi sta allestendo le prime personali) dipinge, a mio avviso, prima di tutto per un proprio motivo esistenziale e poi come punto di arrivo della sua passione per l’arte: ed è questo il senso che ne motiva la talentuosa attività di ricerca. Pertanto, la ritengo un’autentica e potente creatrice di immagini comunicative, testimoni del nostro tempo, sia nella resa estetica che contenutistica. È di questi giovani artisti – a cui lei appartiene – che abbiamo bisogno, perché con la loro pittura ancora fresca e poco contaminata dalle mode del contemporaneo, sono antenne e tentacoli con cui sentono la condizione ansiosa dell’umanità alienata e le comunicano il proprio tremore, la propria angoscia, da cui la nostra attuale società globalizzata non può liberarsi, se non svuotandosi del pessimismo lacerante che dentro l’attanaglia.

Giuseppe Possa

gppos

 

 

 

 




Cattura zu 7


“Nella mia selva sgomenta la tigre”, un libro di poesia di Moka (Monica Zanon)

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<<In ogni selva c'è una tigre che sgomenta, che fa sentire il suo ruggito, che altera il caos della selva in cui vive: nella mia poesia è la tigre, una creatura tormentata e forte, che si lecca le ferite per ricordare il sapore e sono proprio queste che creano il suo particolare manto a strisce>>   (Moka)

70345540_2293126307665108_796920646218022912_n.jpgLa poetessa Monica Zanon, classe 1982, ha una nipote che da bambina storpiava il nome della zia in Moca. Così Monica, quando pubblicò i suoi primi libri, l’ha utilizzato come pseudonimo, trasformandolo in Moka, come il nome della famosa caffettiera che usa sempre per prepararsi il caffè, nero come l’inchiostro, che beve a tutte le ore, soprattutto in quelle notturne. È di notte, infatti, che scrive, poiché di giorno lavora in una ditta di aeronautica a Reggio Emilia. In pratica gli elicotteri sono la sua seconda passione, fondamentale quanto la poesia, forse perché con entrambe, come lei stessa afferma, può volare. Subito dopo aggiunge <<Sono cresciuta sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, a Solcio di Lesa, dove i miei genitori possiedono un’azienda agricola e adoro il paesaggio lacustre, tanto che il mio carattere si riflette in esso: ogni giorno è diverso dall’altro. In pratica, appena posso lascio la città in cui vivo e torno qui nella mia terra natale>>.

Ha iniziato a scrivere fin da adolescente e ha sempre trovato nel verseggiare il suo modo di comunicare col mondo. In un’intervista rilasciata tempo fa a Matteo Cotugno, si è definita sognatrice e vulcanica (<<nasce dentro me, tra essenza e materia... un vulcano interiore che ha bisogno di fuoriuscire e dare forma a un’idea, un attimo colto, forse, per caso>>). La poesia per lei è come una reazione chimica, è vita, rivoluzione e conoscenza profonda dell’anima.

Insieme ad alcuni amici ha organizzato nel 2013 reading poetici nella “Giornata Mondiale della Poesia”, in collaborazione con l’Unesco; l’anno successivo ha fondato e presiede tuttora l’Associazione Licenza Poetica, che organizza un concorso molto particolare: i partecipanti devono abbinare una poesia o un racconto con una fotografia strettamente legate fra di loro al tema, che è diverso ogni anno. È stata premiata in diversi concorsi letterari ed è presente in alcune antologie. Ha numerose pubblicazioni all’attivo, sia in prosa che in versi.

Ho conosciuto da poco Moka, allo Spazio Moderno di Arona, durante la personale diVUEN5423[1] z.JPG Giancarlo Fantini, ai cui quadri lei ha appeso di lato una serie di poesie. Ho avuto così l’occasione di leggere l’ultima sua silloge, ben curata tipograficamente, “Nella mia selva sgomenta la tigre” [“Le Mezzelane Casa Editrice” di Santa Maria Nuova (AN), con progetto grafico di Gaia Gicaloni]: <<In fondo alla radice dei tuoi sogni,/ dove si nasconde la tigre,/ là, nei tuoi occhi io ti vedo>>. Nella sua prefazione, Simone Santi ci introduce subito nella poesia di Monica Zanon, scrivendo <<Già nel suo incipit Moka ci invita a entrare nella “sua” selva, luogo che è già un “dove” letterario col suo carico di suggestive evocazioni dantesche, e al contempo e in senso più letterale che allegorico un “dove” interiore, all’interno del quale la poetessa traduce in espressione artistica il suo particolare “vedere” e “sentire” riguardo se stessa e il mondo che la circonda>>.

Con questo viatico del critico mi addentro nelle strofe di Moka, per cogliere le mie sensazioni. Rilevo subito nell’autrice una propria peculiarità: l’esuberanza e la freschezza del ritmo e quella fecondità inesauribile, visionaria, nella ricerca delle immagini: <<C’è una luce diversa oggi,/ una luce che inonda le case,/ i prati non sembrano essere mai stati/ così verdi./ Il vento è una piacevole carezza: lasciva mi spoglio delle incertezze>>.

Se le sue composizioni sono intrise di espressioni vibranti, attinte alle problematiche esistenziali, esprimono, però, anche sentimenti che nascono dalla vita, dal lavoro, dall’ambiente, dalla solitudine, dalla confusione sociale o da evocazioni dolorose: <<Bombe catturano lacrime di sangue,/ tra rabbia mista a cenere,/ i fumogeni non sono che un castigo tra tanti./ Le mani sono prigioniere in morsi d’acciaio,/ gli arti si strappano e donne impaurite nel grembo/ cullano il pianto di un figlio orfano./ Tra le ombre delle nuvole e i sospiri di un vento secco/ gli uomini sono ingannati dal cielo, creatore di speranza>>.

67215858_10217234893735836_5195212704897302528_nLa raccolta propone versi incisivi, sia sotto l’aspetto lessicale che sintattico, ma al di là di un’abilità lirica e di un’agilità costruttiva, si avverte lo scorrere frenetico delle parole con cui l’autrice non riesce a nascondere un’ansia vorace per l’umana partecipazione al dolore del nostro destino: <<Non possiamo/ più cedere/ alla finzione:/ dal tubo catodico/ vediamo le bombe cadere/ giù/ e la gente muore/ davvero,/ ammassata nella fossa/ comune/ della memoria:/ attimo illusorio/ d’eternità>>.

Moka, comunque, non ci comunica soltanto le trepidazioni, i ricordi, i sogni, attraverso un personale filtro con cui osserva il mondo, ma lascia trapelare pure le emozioni che le sorgono dentro e coglie quelle che le esplodono attorno, facendole aprire gli occhi per guardare e vedere oltre il velo degli avvenimenti: <<La poesia scandisce/ la fioritura di un mondo imperfetto/ tra le crepe di stagioni interrotte,/ sale i sentieri emigranti>>. La sua voce ci giunge delicata, ma vigorosa per l’immediatezza degli intenti che ci spronano a sentimenti vivificanti e a godere di sensazioni emozionali.

Giuseppe Possa

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Alla mostra di Giancarlo Fantini allo Spazio Moderno di Arona (Moka, G. Possa, G. Fantini)

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Augusto Daolio: pittore (non solo storico cantante dei “Nomadi”)

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a964fc8e2f_2869510_med[1]Una retrospettiva delle sue opere - “Paesaggi spaesati” - è stata allestita di recente a Milano, alla Fondazione Luciana Matalon, dall’Associazione Augusto per la vita.

<<Disegno molto, quando l’attività di musicista mi lascia tempo per farlo, porto con me cartoni, fogli e inchiostri, disegno ovunque mi trovo, nelle stanze d’albergo, nei ristoranti, nel mio studio, in campagna a casa di amici>>. Così raccontava il mitico cantante dei “Nomadi”, scomparso nel 1992.

Augusto Daolio (classe 1947) a scuola, eccelleva solo in musica e in disegno, che lo71182572_10221071499795993_499673312645873664_n salvarono dalla “catastrofe scolastica”: <<Ho avuto un buon rapporto con i libri solo quando non dovevo più leggerli per dovere>>. Fu il pittore Vivaldo Poli, ora scomparso, che intuì questa sua predisposizione naturale fin da bambino e gli insegnò a dipingere. Sebbene questo eccellente artista, ancora oggi, viene spontaneo associarlo solo ai “Nomadi”, gruppo musicale di cui fu fondatore a 16 anni, e leader fin che visse, confessava, esponendo le sue opere, che fin da bambino si era sempre interessato anche alle arti figurative. <<La musica la coltivo>> confidava, <<come mezzo sociale per comunicare con gli altri: ansie, rabbia, amore, idee e progetti. La pittura per scavare dentro me, per interrogarmi, per lo stupore, la meraviglia e il segreto>>.

Quando negli anni Settanta, mi capitò di vederlo dal vivo, assistendo a un concerto in undaolio 35 teatro di Milano (in prima fila, grazie a una sua cugina che ai tempi lavorava con me) mi fece una strana impressione. Mi apparve subito come un grande professionista musicale, ma un personaggio fuori dal coro, un po’ distaccato da tutto e da tutti, con quel suo look vistosamente bizzarro, con quell’aura morbosamente cagionevole… al punto di immaginarmelo un genio “predestinato” a morire giovane. Eppure sprigionava la carica, l’entusiasmo, coinvolgenti, di chi sa interpretare, con intelligenza e passione, i sogni e le inquietudini dei giovani, pieni d’energia e innamorati della vita, come si era noi in quegli anni. <<Quella vita>> come scrisse poi sua moglie Rosanna Fantuzzi: <<che sentiamo ancora gli appartenga ogni volta che con una canzone, un dipinto o una poesia ci seduce>>.

Non conoscevo la sua attività pittorica (se non per qualche illustrazione di dischi o manifesti), fino a quando l’amico e fotografo Beppe Fusé (che dei “Nomadi” è un fan indomabile) non me ne ha parlato, informandomi che per la prima volta a Milano era stata allestita, dall’Associazione Augusto per la vita, una retrospettiva dei suoi dipinti, soprattutto oli e chine, alla Fondazione Matalon (Foro Buonaparte, 67). Su suo suggerimento, sono quindi riuscito, appena in tempo, a vedere la mostra e ad ammirarne le opere, prima della chiusura.

70504716_10221071499195978_6418608566927622144_nQui i dipinti di Daolio, che esprimono e comunicano gli stessi sentimenti ed emozioni della sua musica (e per me sono stati una piacevole sorpresa) hanno trovato la galleria prestigiosa, in grado di metterli in risalto con un nuovo respiro e una rinnovata energia, in cui ogni visitatore può trovare una personale interpretazione, perché come sostiene Rosanna Fantuzzi: <<Lui dipingeva quello che sentiva e voleva che fossero le persone, guardando i suoi quadri, a sentire qualcosa e a dargli un titolo. Era curioso di sapere cosa gli altri ci vedessero dentro scoprendo, grazie a loro, cose di cui lui non si era reso conto>>.

Nell’osservarli, si possono apprezzare la ricchezza e la profondità del suo pensiero creativo (tra un simbolico metafisico e un fantastico surreale), ricco dei fermenti, delle idee, di una generazione nata nel dopoguerra e spinta a battersi, in un immaginario 70346641_10221071498515961_6930647309462011904_ncollettivo culturalmente diverso, impregnato di aspirazioni generazionali, per una società migliore, in un dialogo con la natura e con le emozioni umane. Diceva Augusto: <<…disegno “paesaggi spaesati” confusi nella mente, carpiti un po’ ovunque… in essi si nasconde l’uomo non sempre visibile, ma che sa mescolarsi alle cose, scambia i ruoli, diventa cavallo e albero, un gesto, una mano, occhi e l’infinito cielo come teatro, come messa in scena ideale>>. Aggirandomi tra i suoi oli su tela o cartone, chine, matite colorate e pastelli, linoleografie, gessetti, sculture di piccole dimensioni, ho potuto constatare che era una fantasia fuori dal comune a guidare la sua mano talentuosa, nella ricerca di un mondo onirico e magico. Tutto quello che presentava era sempre e comunque ben radicato nella natura, “madre e ancella” di tutte le cose.

Se devo concludere con un giudizio critico, in generale, sulle sue opere, dirò innanzitutto che Daolio deve essere considerato pure come poeta, perché solo in questa veste poteva dipingere, con tanta semplicità, naturalezza e forza, non un sogno, ma l’ equivalente di un mondo di sogno, in cui spazio, nitidezza delle immagini nella morbidezza soffusa dei colori (spesso quasi monocromatici), trasmettono quel senso di smarrimento della società, nato dall’incertezza in cui ci si trova, del luogo, del tempo e del significato delle cose.

70644006_10221071499555987_5910324854170583040_nLe figure, eseguite con estrema meticolosità, ritraggono anche un mondo invisibile, reso visibile da uno spirito vivo, inquieto, forse romantico. Lo si nota, per esempio, nei molti alberi “umanizzati”, che paiono sul punto di essere strappati dalla terra con tutte le radici, forse da una forza energetica cosmica che li vuole salvare, per farli rivivere ecologicamente altrove. È la raggiunta consapevolezza di un artista che si misura con la creatività della sua mente e ne traccia i profili con vigore e rara intensità espressiva. Il suo naturalismo realistico (o realismo naturalistico) è traboccante anche di rupi, grotte misteriose, apparizioni di spiriti immateriali, agghiaccianti ma ariose vedute di vegetazione, boschi aggrovigliati, luoghi selvaggi e rocce che paiono rievocare forme antropomorfe, cieli solcati da nuvole inquiete, radici e arbusti avviluppati pronti a rinascere o a pietrificarsi.

E ancora, figure umane o animalesche trasformate in elementi della natura o viceversa,foto daolio cristallizzate in una poetica malinconia. Ovunque pare regnare provvisorietà, silenzio, solitudine, in un susseguirsi di vita e di morte. Sono, forse, tutte metafore allusive della nostra condizione e della sua ineluttabile solitudine; vaporose atmosfere di paesaggi irreali, somiglianti più che a un’oasi di pace, a un ricercato isolamento dalla civiltà, dagli altri. Le opere di Augusto Daolio a me sembrano testimoniare una convivenza tra uomo e paesaggio, per dar tregua alle ansie esistenziali e ai rovelli introspettivi di un animo profondo. Il tutto in quel suo bisogno di frantumare l’iconografia, quasi che l’immagine dell’essere umano possa emergere da improbabili rovine: sono scavi nel cuore, più che nella terra, capaci di dar forma ai sogni esistenziali.

Giuseppe Possa

gp vc

Mario Pasqualini: “Sinuose cavità”, “Domomossola”, “Potpourri”

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Intervista alla professoressa Anna Brambati sugli ultimi lavori del fotografo di Villadossola.

mario 2 cor-1 (per Possa) M. Pasqualini e A. Brambati                  (foto Massimo Stringara)

Di recente, Mario Pasqualini ha proiettato tre video fotografici, durante una serata alla Cinefoto di Domodossola presentati da Anna Brambati. Questi lavori - i cui contenuti si potrebbero definire di natura intimista, il primo; pittorica il secondo e poetica l’ultimo - hanno come titolo “Sinuose cavità” che raccoglie istantanee degli Orridi di Uriezzo (Baceno); “Domomossola” (non si tratta di un refuso, come vedremo) dedicato alla città domese; Potpourri, un insieme di fiori spontanei e “vivi” ritratti dall’autore nel loro habitat naturale.

Sull’opera di Pasqualini, fotografo di Villadossola, abbiamo intervistato Anna Brambati (Professoressa e Storica dell’arte - insegna al Liceo Giorgio Spezia di Domodossola), alla quale chiediamo subito di parlarci di questo trittico alquanto originale. <<Si tratta di lavori differenti per tematica e tecnica utilizzata>> esordisce, <<ma accomunati dal prevalere dell’aspetto suggestivo sul realismo della rappresentazione.  E ciò è, ovviamente, il valore aggiunto, perché alla qualità tecnica elevata degli scatti si unisce la capacità di coinvolgere l’osservatore e di renderlo partecipe di un’esperienza che emoziona>>.

Professoressa Brambati ce li esamini per titoli.

02.jpg<<Partiamo dal primo, “Sinuose Cavità”: gli orridi di Uriezzo. Guardando a casa le fotografie, sono stata catturata dal filmato e ho avuto modo di addentrarmi in uno spazio mistico: le immagini, infatti, si snodano come un percorso fisico, all’interno delle cavità, a cui, se vogliamo, corrisponde un percorso interiore. Cominciamo a muovere i primi passi tra le alte e imponenti pareti di roccia, gradualmente ci addentriamo nei vari antri scavati dall’acqua e osserviamo il millenario lavoro della stessa che ha lasciato netti i segni del suo passaggio, disegnando linee rette e curve, incidendo spigoli vivi e modellandone altri in forme più sinuose>>.

In basso, che altro possiamo osservare?

06<<Si nota, in particolare, il pavimento ricoperto di foglie ingiallite e trasportate dal vento e il contrasto che esse creano con il colore dei muschi - che ricoprono parti rocciose - e delle edere che reclamano un posto. Così, toni di grigio, giallo, verde si intrecciano in un’armoniosa tavolozza cromatica che l’occhio indaga con curiosità e nella sua ricerca è aiutato dalla luce che tenuemente scende a illuminare gli ambienti. Isolati in noi stessi, continuiamo il cammino verso l’uscita: ora il cielo si vede come una macchia di luce abbagliante in fondo alle rocce, e a questa segue l’ultima significativa immagine di una scala che ci apprestiamo a risalire. Con Pasqualini abbiamo compiuto un percorso di ricerca in noi stessi; scendendo nell’Orrido di Uriezzo, abbiamo scavato nella nostra interiorità per risalire poi in superficie arricchiti di una nuova esperienza>>.

Anna, il secondo lavoro ha un titolo particolare: “Domomossola”.

<<E non si tratta di un refuso, ma di una distorsione ideata dall’autore per poter inserire nel nome della nostra città il termine “mosso” con riferimento alla tecnica ICM (Intentional Camera Movement) che Mario sta sperimentando da un po’ di tempo a questa parte allo scopo di ottenere immagini tra il fotografico e il pittorico. Così, ecco che le vie e le piazze della parte antica di Domo si trasformano in immagini che sembrano riflesse in uno specchio d’acqua, o viste attraverso una lente che le distorce conferendo un tocco fiabesco.12 Molti squarci della città sono sì riconoscibili, ma sono anche altro. Piazza Mercato, piazza Chiossi, piazza Fontana (con le loro case e negozi, con palazzo Silva, palazzo del municipio), via Briona, sono popolate di figure evanescenti, fluidi spiritelli che camminano leggeri sul selciato della strada. Alcune di queste figure incedono velocemente e, in particolare, in un’immagine due donne che avanzano sembrano caratterizzate da rapidi tocchi pittorici alla maniera di Boldini. Ma si tratta solo di un rimando ai macchiaioli. In fondo Mario con il suo filmato non ha intenzione di aderire ad una corrente pittorica, ma dimostra che è possibile ottenere effetti pittorici nella fotografia. La prevalenza della linearità verticale si esprime in tremuli filamenti con cui sono resi le braccia e le gambe delle persone, gli esili tronchi di una fila di alberi, alcuni spigoli di edifici, il filo d’acqua della fontana dell’omonima piazza… E proprio in essa si mostra la scena di una donna vestita di rosso che gira intorno alla fontana, ed è talmente aerea da attraversare il monumento stesso. Si assiste a una sorta di compenetrazione dei solidi che genera in noi un’impressione di meraviglia, perché la nostra mente subisce il fascino dell’inganno>>.

Professoressa Brambati, terminiamo col terzo filmato: “Potpourri”, che pare una nota finale delicata.

<<Certo, infatti, ne deriva una piacevole alternanza di immagini e colori, giochi di luce e17 sfumature che riguardano un sottobosco incantato e incantevole: incantato perché sembra di trovarsi in uno spazio magico e di vedere spuntare da un momento all’altro qualche creatura fantastica; incantevole perché ci affascina con la sua poesia, con la sua capacità di suggestionare. Si va dalla rappresentazione di delicati fiori lievemente piegati in avanti, accarezzati da una leggera brezza, ad altri che, dritti, “impettiti”, provano ad emergere dall’erba bassa alla ricerca di un raggio di sole - come nel caso di un crocus che fa capolino -, a quelli più bizzarri che fanno delle evoluzioni sul loro stelo, ad altri che, accolti in piccoli gruppi, “chiacchierano” tra di loro, all’elegante anemone che “si alza sulle punte” come una ballerina… Ma la vera novità della rappresentazione consiste nel rapporto tra la messa a fuoco e lo sfuocato. Infatti, tutti gli scatti sono caratterizzati da uno sfuocato vibrante, mai piatto, ottenuto con degli obbiettivi particolari>>.

Così conclude la sua ottima analisi, Anna Brambati. A Mario Pasqualini, invece, chiediamo come sono nati questi tre video.

Mario, partiamo dal primo che è stato realizzato a Baceno (VB) in Val Antigorio.

<<Lo scorso settembre, volendo testare un nuovo obiettivo supergrandangolare, sono 04andato prima nella chiesa di Baceno, dove ho scattato qualche foto agli interni e successivamente nei poco distanti orridi di Uriezzo. Qui, forse perché mi sono trovato completamente solo per l’assenza di turisti e visitatori, forse perché ancora pervaso dall’atmosfera mistica della chiesa di Baceno, ho visto le gole e gli anfratti con occhi diversi; mi sembrava di essere in un altro luogo sacro e, complice il silenzio totale, ho pensato di provare a tradurre la mia emozione in immagini. Sempre per sottolineare il mistero e la suggestione di questo posto, nell’audiovisivo che presento ho inserito una colonna sonora particolare e semisconosciuta, tratta da un grande film crudo e drammatico>>.

Col secondo hai utilizzato una tecnica particolare.

11.jpg<<Sì, ho adottato la tecnica ICM (Intentional Camera Movement) che ho già usato per fuochi artificiali e scorci paesaggistici; questi ultimi, dopo la presentazione alla Cinefoto dell’audiovisivo intitolato “Boschi dipinti”, hanno dato vita a una mostra nello Spazio Gallery dello Studio Quadra a Domodossola. In “Domomossola” i soggetti ripresi con la tecnica del mosso intenzionale sono scorci della nostra città, forse da guardare con occhio più pittorico che fotografico>>.

Mario, per quanto riguarda la terza proiezione si tratta di un “classico” della tua produzione fotografica e ha per tema fiori spontanei e altri soggetti vegetali ripresi nel loro habitat naturale.

13<<La caratteristica di queste immagini consiste nel particolare sfocato che circonda i fiori - forse il vero soggetto è proprio lo sfocato e non i fiori - ottenuto non con l’utilizzo dei tradizionali obiettivi “macro” che ultimamente mi limito a spolverare di tanto in tanto poiché giacciono inutilizzati nel mobile delle attrezzature fotografiche, ma con obiettivi cosiddetti “vintage” perché prodotti decenni fa, obiettivi attualmente molto richiesti, che per le loro caratteristiche costruttive, se adeguatamente utilizzati, regalano sfocature molto meno banali di quelle dei tradizionali obiettivi macro>>.

Mario Pasqualini è nato a Milano nel 1947 ma risiede in Ossola da circa quarant’anni. Ha iniziato ad appassionarsi alla fotografia una cinquantina d’anni fa usando una Reflex analogica, poi la passione per la pittura ha prevalso sulla fotografia, alla quale è però tornato a dedicarsi con l’avvento del digitale. Inizialmente si è ispirato ai fotografi paesaggisti contemporanei della scuola anglosassone, ma col tempo ha seguito un proprio percorso di ricerca e di lenta evoluzione estetica.

(interviste a cura di Giuseppe Possa)

Giuseppe Aloisio: “Nicola Maria Magaldi - un protagonista del Risorgimento in Basilicata” (Edizioni del Faro – Trento)

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71888784_10221193044874544_1107548078522499072_n

Giuseppe Aloisio ha pubblicato il saggio di carattere storico "Nicola Maria Magaldi - Un protagonista del Risorgimento in Basilicata" (Edizioni del Faro, Trento) con il patrocinio della Pro Loco di San Chirico Raparo (PZ), dove è stato presentato di recente dal dr. Giuseppe Prestera. Con il libro, l’autore vuole portare a conoscenza dei lettori, ma soprattutto degli studenti, le vicende politiche e le battaglie ideologiche, ancora oggi attuali, che caratterizzarono il Risorgimento italiano. Aloisio, appassionato per la ricerca, la rilettura e l’analisi delle proprie radici, con determinazione per anni ha consultato archivi locali e nazionali, pubblici e privati, che gli hanno consentito di dare contributi a una lettura più compiuta sull’illustre protagonista del libro.

Nicola Maria Magaldi (1822-1861) fu un patriota di San Chirico Raparo, un piccolo paese nell’entroterra lucano, in cui intorno al 1848 germogliò un circolo costituzionale che accolse forze carbonare e un comitato insurrezionale che diede vita a un decennio di fermenti. Dalla Basilicata (prima regione del Mezzogiorno continentale ad aderiremagaldi all’Italia unita), la rivolta si estese poi alle regioni limitrofe, favorendo l’avanzata dell’armata garibaldina. Il giovane Magaldi, cresciuto in un ambiente familiare animato da quei profondi sentimenti patriottici e per questo costretta a subire le continue e snervanti persecuzioni della gendarmeria borbonica, si laureò in Giurisprudenza all’Università di Napoli. Divenuto un celebre avvocato civilista, un principe del foro di Potenza, maturò via via la propria scelta politica fino a diventare segretario del governo prodittoriale lucano insediatosi in nome di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II, coprendo così un ruolo di rilievo nel Risorgimento in Basilicata. Fece parte della delegazione lucana ricevuta a Napoli dal Re d’Italia l’11 novembre 1860; fu in seguito chiamato a svolgere le mansioni di Segretario nel Consiglio Elettorale per la scelta dei Deputati al primo Parlamento Italiano e coprì la carica di Segretario della Commissione di scrutinio per l’elezione dei Consiglieri provinciali e municipali. Morì precocemente per una polmonite a Potenza a soli 39 anni.

71782963_10221193044594537_6395967341884080128_nIl contributo di Aloisio, strutturato in solidi e didattici capitoli storiografici, oltre che della vita di Nicola Maria Magaldi, tratta anche dell’apporto della sua famiglia e dell’impegno che essa dedicò all’espansione dei moti rivoluzionari e dei valori in essi contenuti. L’autore estende, poi, la sua indagine ad ambiti più vasti, dalle vicende del sud a quelle nazionali successive (tra l’altro, all'interno del libro fa pure un particolare e prolungato riferimento al poeta novarese Giuseppe Regaldi, che si trovava a Potenza durante i moti del 1848).

Prof. Aloisio, perché questo libro:

<<Come tu sai, sono da anni interessato ad approfondire le mie conoscenze delle vicende politiche e delle grandi battaglie ideali che caratterizzarono il Risorgimento italiano, la cui importanza storica è assolutamente fuori discussione. Credo che i valori risorgimentali siano ancora attuali e possano costituire un baluardo contro le spinte disgregatrici che travagliano la nostra società>>.

Come mai l’hai dedicato alla terra delle tue origini.

<<Come lucano, sono lieto di aver dedicato questa ricerca alla mia terra, la Basilicata, che fu la prima regione del Mezzogiorno continentale ad aderire all’Italia unita. È stato riconosciuto da alcuni storici del Risorgimento che l’insurrezione lucana, estesasi ben presto alle regioni limitrofe, agevolò l’avanzata dell’armata garibaldina>>.

Perché questo titolo?

<<Perché il patriota Nicola Maria Magaldi, nato a San Chirico Raparo (PZ) - il mio paese d’origine e dove sono cresciuto da ragazzo - fu un protagonista, un intellettuale illuminato, un fautore del Risorgimento in Basilicata, un liberale che professava con coraggio l’ideale unitario, sfidando apertamente il dispotico regime borbonico, come è ben motivato nel libro>>.

Chi ti ha dato la spinta per iniziare le ricerche.

san chirico<<Sono molto riconoscente a mio cugino Crescenzio Continanza per avermi inviato il primo documento, ripreso da un testo del prestigioso storico lucano Tommaso Pedio, su cui ho potuto cominciare a lavorare. Esprimo nello stesso tempo tanta gratitudine al mio amico Paolo Magaldi per avermi gentilmente donato il testo fotocopiato del libretto intitolato: “Alla memoria dell’avvocato Niccola Maria Magaldi”, riportante scritti di autori vari. Mi è stato utile per impostare e sviluppare le linee generali dell’elaborato. Come avrai letto, all’interno della mia prefazione al saggio, ringrazio poi, nominandole, le tante persone che mi hanno aiutato nelle ricerche, fornito documentazioni importanti o utili consigli per portare a termine il lavoro>>.

(sito per ordinare il libro)   www.edizionidelfaro.it/libro/nicola-maria-magaldi

Giuseppe Aloisio, insegnate d’inglese all’Istituto “Marconi-Galletti-Einaudi" di Domodossola (città dove ora vive), è nato a San Chirico Raparo in provincia di Potenza e anni fa pubblicò un’opera teatrale che ebbe un buon successo “Il supplente temporaneo”. Si tratta di una commedia in 3 atti che racconta la storia di un trentenne,71542455_10221193357562361_7880229471544934400_n professore d’inglese, che è preoccupato per il suo futuro, in quanto costretto a vivere una condizione di precarietà per i continui cambiamenti di scuola, essendo ancora un supplente. Gli sono di conforto, comunque, la comprensione dei genitori (i quali vivono con serenità, ma non senza apprensione, il dramma occupazionale del figlio, alla ricerca frenetica di una cattedra fissa), degli amici (a cui purtroppo tocca di vivere la stessa situazione incerta) e soprattutto della fidanzata (la quale, in parte, gli allevia la personale frustrazione per quel “nomadismo” didattico che caratterizza la sua vita professionale e che non gli consente di vedere i frutti della propria attività). In una recensione sul testo, apparsa su Eco Risveglio Ossolano, così concludevo: in definitiva, una commedia, questa di Giuseppe Aloisio - Pino per gli amici – scritta con attenzione e sottile arguzia, oltre che con estremo rispetto e solidarietà per le preoccupazioni altrui, per le loro incertezze sul futuro e per le difficoltà a realizzare subito scelte personali di vita. Inquietudini presentate, nondimeno, dall’autore (anche per averle provate) con solidarietà e con fondamenti etico-didattici.

Giuseppe Possa

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Sebastiano Parasiliti: dalla Sicilia all’Ossola, sempre dipingendo.

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72710987_10221293091015635_351959569041195008_nDall’Espressionismo degli esordi alle periferie urbane, dai “bitumi” all’astratto-informale. Servendosi di colori, tele emulsionate, fotografie, computer e nuove tecniche. Un artista siciliano, originale e impegnato, che vive e opera tra Misterbianco (CT) e Villadossola (VB), dove nelle sale espositive del “Centro Culturale La Fabbrica”, dal 2 al 10 novembre, esporrà una serie di opere dipinte dal 2007 a oggi. Intervista a cura di Giuseppe Possa.

Alla “Fabbrica Eos”, una galleria nel cuore di Milano, il 30 marzo 2000 fu inaugurata la mostra “L’estetica quotidiana” del pittore Seba. Non lo conoscevo, ma fui incuriosito dal fatto che l’autore utilizzasse nel suo processo artistico il computer, le tele emulsionate e la fotografia. Così visitai la rassegna e mentre osservavo quei quadri – raffiguranti paesaggi urbani che, in una ricerca della realtà mirata a rappresentare la società attuale, diventano specchio della solitudine quotidiana, in cui tuttavia si coglie e si percepisce una visione più universale dell’esistenza – mi sentii chiamare alle spalle: <<Giuseppe, tiATT00024 ricordi di me? Sono Sebastiano Parasiliti. Parecchi anni fa, in occasione di una mostra a Palazzo S. Francesco di Domodossola, hai recensito su “Eco-Risveglio Ossolano” l’esposizione>>. Lo riconobbi subito, ma rimasi ovviamente sorpreso che fosse lui Seba. Non lo incontravo più da una decina d’anni, da quando tornò in Sicilia. Fu naturale per lui, in quel momento, rievocare i trascorsi domesi: <<Vivo ed opero a Piano Tavola, in provincia di Catania>> mi disse, <<ma non ho mai scordato i tredici anni passati in Ossola e le esperienze avute in pittura facendo parte del G.A.O. (Gruppo Artisti Ossolani), oltre quelle di vita artistica frequentando gli ambienti locali. Con Domodossola non ho mai rotto i rapporti; di tanto in tanto ci ritorno per trovare i parenti e anche gli amici. Posso affermare con orgoglio che quel lungo soggiorno mi fa sentire un po’ domese>>.

seba-_l'accusaIn quegli anni ossolani, da lui considerati di grande apprendistato e un terreno fertile per le sue potenzialità che altrimenti non sarebbero emerse, Sebastiano Parasiliti visita alcune mostre importanti che lo colpiscono, come quella di Sironi a Milano nel 1985 o quella sugli anni Trenta in Italia e in particolare quella degli Espressionisti Tedeschi del museo Sprengel di Hannover. Spiritualmente, sempre negli anni Ottanta - ma poi anche successivamente - si sente molto vicino a Richter, a Rauschenberg, in particolare a Kurt Schwitters, oltre ai pittori della Brucke o a quelli dell’informale, come Afro, Vedova e altri. Mosso da una sempre maggiore curiosità espressiva, dopo un primo approccio a paesaggi e nature morte di stile espressionista, si dedica anche all’arte astratto-informale, che per altro persegue ancora oggi.

Ho ora l’occasione di mettere in rilievo come il lavoro di Sebastiano Parasiliti prosegua sulla linea che deve avere il ruolo dell’artista oggi, che non è solo quello di comunicare i grandi valori spirituali o di mettere a punto un linguaggio cifrato che vale di per sé, indipendentemente da ciò che comunica o intende comunicare, “ma anche quello di 24bicodiventare specchio della vita quotidiana, sebbene si tratti di uno specchio particolare, perché dietro l’apparente indifferenza con cui le immagini sono colte e percepite, si annida anche l’offerta di una più profonda visione del mondo”, come scrisse il noto critico Lucio Barbera presentando il catalogo di Seba distribuito in quella mostra. In effetti, le sue tele ci spingono a meditare, con quei paesaggi “urbani”, chiusi e quasi senza speranza che fanno pensare alla solitudine dell’individuo, vittima di una società soffocante. Inoltre, l’aria degli ambienti pare resa asfittica nell’elaborazione pittorica - fotografica - computerizzata, e crea tensioni, attese, contrasti, silenzi, che sprigionano tutto il malessere dell’attuale realtà metropolitana.

UNA GIOVINEZZA IN SALITA: - Sebastiano Parasiliti nasce a Misterbianco (CT) nel 1958, primo di cinque figli, tutti maschi. Il padre era operaio e la madre casalinga. Fin da bambino nutriva un grande interesse per il disegno, infatti, riproduceva le strisce dei fumetti della Marvel, di cui era un accanito lettore: “I Fantastici Quattro”, “Thor”, 135-ico(1)“L’Uomo Ragno”; leggeva anche i fumetti del “Grande Blek”, “Capitan Miki”, “Zagor”. Un avvenimento triste che lo ha segnato molto è stata la morte di un fratello nel 1964. A scuola era bravo, soprattutto nelle materie letterarie, ma non è andato oltre la licenza media, sebbene fosse portato per lo studio, perché la famiglia aveva bisogno del suo aiuto (nonostante tutto, molti anni dopo riuscì a diplomarsi). Fu avviato al lavoro edilizio e l’episodio che forse determinò la sua passione per l’arte accadde una mattina a Catania, ma ascoltiamolo da lui: <<Mi trovavo su un autobus, potevo avere 15 anni, e mi stavo recando al duro lavoro quotidiano. Davanti alla piazza della stazione c’è una fontana con un gruppo scultoreo di fine Ottocento, attorno alla quale c’era una scolaresca di ragazzi della mia età, intenti a raffigurare quello scorcio sui loro grandi album da disegno. Non nascondo che in quel momento li ho invidiati e mi chiedevo: perché non posso essere con loro? Perché sono già costretto a lavorare? Allora la cosa mi sembrò profondamente ingiusta. Forse proprio quel giorno è sbocciato in me il desiderio di diventare anch’io pittore. Qualche anno dopo, per motivi di lavoro mi ritrovai all’Isola d’Elba. Lì ho letto uno dei miei primi libri dal titolo “Primo in cordata”, di cui non ricordo l’autore. Poi seguirono i romanzi di Kafka, le poesie di Lorca; un volume, però, mi colpì in modo particolare in quegli anni, per la libertà individuale che si respirava tra le pagine: “Sulla strada” di Jack Kerouac. Per me si trattava di un mondo assolutamente nuovo, poiché a casa mia non c’erano né libri né quadri. Così ho cominciato, con i soldi che guadagnavo, a comprarmi alcune pubblicazioni che leggevo avidamente. Nel 1979 per lavoro fui mandato a Domodossola, dove conobbi mia moglie. Nel 1983 mi sono sposato e nel 1991 sono tornato, con la famiglia, a vivere in Sicilia>>.

Non si possono etichettare gli artisti o incasellarli dentro period173piccolopaesaggioi storici e cicli, ma spesso scoprire i loro percorsi o ricostruirne l’attività pittorica, può servire a meglio comprendere le loro scelte. Per Sebastiano una lunga e intensa stagione di studio e di ricerca è quella tra il 1980 e il 1991, che si potrebbe definire “periodo domese”, in cui egli, oltre ad affinare il “mestiere”, ha avuto modo di crescere culturalmente, attraverso letture e lunghe discussioni con amici artisti. Partito dal figurativo egli giunse a un informale di ottima qualità. Bisogna riconoscere che in quegli anni in Ossola, nonostante che a prevalere fosse la tradizione paesaggistica, c’era nei giovani un autentico fermento artistico, un desiderio di mutare e di crescere culturalmente. In quel periodo Parasiliti ha esposto in diverse collettive ossolane, una in particolare ricorda volentieri, perché fu una bella esperienza: “Pittura” del 1988 a Palazzo S. Francesco di Domodossola con Tiziano Corzani, Antonio Martino, Paca Ronco e Silvana Azzoni.

GLI INIZI PITTORICI: - Quando nel gennaio del 1979 giunge a Domodossola, Sebastiano conosce due colleghi che dipingono per diletto e, memore dei suoi trascorsi giovanili, decide di dedicarsi anche lui alla pittura. Acquista subito alcuni libri d’arte e diverse monografie di artisti importanti. Dopo alcuni anni d’apprendistato, con noti maestriseba1 locali, nel 1983 entra nel G.A.O. (Gruppo Artisti Ossolani), appena costituito e dove aderiscono artisti di tutte le età. <<Io partecipavo ad ogni iniziativa e ai dibattiti del gruppo>> afferma Sebastiano, “<<ma era un ambiente molto chiuso alle idee nuove; infatti, la maggior parte degli iscritti erano paesaggisti tradizionali. C’era anche qualche eccezione, come l’amico Tiziano Corzani o la Paca, con i quali andavamo spesso a visitare le grandi mostre e le fiere d’arte, che in quegli anni si susseguivano in molte città. Ricordo con nostalgia anche i pomeriggi di sabato trascorsi nei bar di Domodossola - assieme a Tiziano Corzani - a discutere d’arte o nello studio di Marco Vinicio, altro artista e amico di cui condivido molte idee. È da lui che ho conosciuto le opere di Franco Rasma, un maestro cui sicuramente devo qualcosa>>.

Quando nel 1991 Sebastiano ritorna in Sicilia inizia un ciclo che si potrebbe definire “romantico” e dipinge paesaggi di fantasia e angeli pescatori o vendicatori, in un’atmosfera malinconica. Questi suoi lavori (dai toni molto bassi, perlopiù scuri, per l’utilizzo di ocre, terre, blu di prussia ecc.) sono stati esposti nella sua prima personale, a Paternò (CT) nel 1993. Dall’anno successivo e per un paio d’anni, egli si dedica ai “paesaggi urbani monocromatici”, dove dominano i toni del blu cobalto o del blu ciano. Le stesse tinte le utilizza per i “Paesaggi minimi”, spesso composti semplicemente da una sottile linea d’orizzonte.

Dal 1996 Sebastiano si sta dedicando a disegni su carta di piccolo formato, molto 141icoelaborati dal punto di vista tecnico, in quanto utilizza l’olio, il carboncino, i pastelli, l’acquaragia, emulsioni varie, e che alcuni critici definiscono “Bitumi”, forse perché molto scuri. Parallelamente, dal 1999 sta lavorando anche a una nuova produzione artistica. Egli – avvertendo il bisogno di confrontarsi nel proprio tempo con rinnovate forme espressive, dove l’ordine pare scompigliato da uno sfocato in bianco e nero – ci trasmette un’inquietudine emozionale, attraverso periferie urbane, oggetti del quotidiano, volti onirici, immagini virtuali, che ci proiettano entro le frontiere di un universo, dove i contenuti e le forme hanno una forte risonanza interiore.

Sul finire del millennio, conosce il gallerista Franco Cancelliere di Messina che gli allestisce – prima a Milano alla galleria Fabbrica Eos di Giancarlo Pedrazzini e poi a Messina nella sua galleria - una personale dal titolo “L’estetica quotidiana”, dando una svolta molto importante al suo lavoro. Tra il 2000 e oggi Parasiliti è presente in alcune importanti collettive in diverse città italiane. La più importante di queste - tutte illustrate da interessanti cataloghi, di cui uno a cura di Lucio Barbera e Lucio Cabutti - si svolge a16996255_10210919099446996_7522052574198025991_n.jpg Messina, dal titolo “Favolosi anni ’60”, con la presenza di noti artisti, come Mimmo Rotella, Emilio Tadini, Concetto Pozzati, Mark Kostabi e molti altri. Nel marzo del 2002, l’Amministrazione Comunale di Misterbianco gli organizza una personale nella “Galleria Civica”, con la pubblicazione del catalogo “Giorno per giorno”, a cura del Prof. Dario Gnemmi, che ha avuto un vasto successo di critica e di pubblico, come del resto quelle precedenti, allestite a Milano e a Messina. Nell’agosto del 2002 è stato invitato a partecipare a una collettiva sempre nella “Galleria Civica” di Misterbianco, organizzata e patrocinata dalla Provincia di Catania e curata da Giuseppe Condorelli e Loretto Rafanelli. Di questi ultimi anni ricordiamo le importanti antologiche al “Laborart” di Piedimulera, al “Castello” di Vogogna e a “Palazzo Mellerio” di Domodossola, a cui hanno fatto seguito le mostre a “Palazzo Minoriti” e allo “Spazio d’Arte Angela Vinci” di Catania; alla “Galleria Civico 111” di Gela; alla “Galleria Caffè Letterario” di Cefalù (PA).  E’ da anni segnalato dalla critica e inserito con un’esaustiva scheda personale nel CAM (Catalogo dell’Arte Moderna – Ed. Giorgio Mondadori-Gruppo Cairo).

LA SUA PITTURA DAL 2007 A OGGI: - La recente produzione artistica di Sebastiano Parasiliti comprende lavori a olio, su tela, su tavola, su carta o su altri supporti, realizzati negli ultimi anni e sono diversi dai suoi precedenti di matrice figurativa. In questi anni, egli si è aperto a nuove ricerche pittoriche tra l’astratto e l’informale, operando in modo più espressivo nel gesto pittorico che, spinto da moti profondi dell’inconscio, infonde energia emozionale ai quadri. Da qui nasce il suo informale che appunto non 52527247_10216640390995709_2366075003507572736_npresuppone una progettazione iniziale, ma si attua per istinto gestuale direttamente sui supporti da dipingere. Ne nascono creazioni passionali e fulminee, con effetti di passaggi che avvengono d’impulso e senza riflessioni. La sua decisione di esprimere i propri sentimenti attraverso l’astratto è sorta dal desiderio di non avere limiti, di non sottostare a regole esterne o condizionamenti. Nei suoi quadri - condensazioni di stati d’animo o di energie cromatiche poeticamente profonde - sembra di scorgere paesaggi inconsci appena percepiti; linee di orizzonti tra mare, terra e cielo; nuvole distese o onde in agitazione; mentre i colori appaiono scuri e tormentati in alcune vedute, in altre le cromie sono a tinte meno cupe, divenendo quasi vivaci e trasparenti. Interessante è scoprire l’artista attraverso le tracce del suo lungo percorso che lo ha portato a una propria maturità espressiva, avvertibile nelle sensazioni pure e palpitanti che la sua pittura comunica con colori intensi e vivi d’azzurro, di rosso, di un’ampia gamma di ocra, a rappresentare, quasi invisibili, mari, spiagge, cieli, montagne ed esplosioni vulcaniche, sfruttando sfumature di luci, gradazioni tonali e impasti dosatissimi, precisi. Questa pittura di Parasiliti si manifesta appunto mediante il colore, inteso come proiezione di sensazioni, di pensieri interiori, in cui è evidente un tessuto di sensibilità, cultura ed esplosive emozioni.

BREVE ITINERARIO CRITICO: - A corredo di queste notizie biografiche su Seba, e per meglio comprendere i caratteri della sua produzione artistica, da cui emerge una personalità ormai matura, autonoma, originale, può essere utile riportare qualche giudizio critico.

<<…Il giovane autore catanese si concentra sul tema del paesaggio urbano e riflette sulle modalità della comunicazione, esaltando valori minimali e quotidiani e smascherando la banalità apparente>>, scrive Melisa Garzonio su “Vivi Milano” supplemento al “Corriere della Sera” del 29 marzo 2000, a cui fa eco Gian Marco Walch su “Il Giorno” del 1 aprile 2000: <<La città, qui e oggi. Paiono fotogrammi rubati a un film di Wim Wenders, magari al favoloso “Paris – Texas”, mai un attimo di scena ferma, almeno cartacce svolazzanti, o il bagliore fugace degli stop d’un’auto. O reperti di un album di ricordi della beat generation, lì anime svolazzanti, e più frenetici gli stop…A cercare una terza via, fra pittura e Art Video. …E la loro freddezza, ancora più fredda del freddo realismo, finisce per tingersi del sapore della nostalgia>>. Mentre Alessandra Redaelli, in un articolo più approfondito apparso nel gennaio 2001 sulla rivista “Arte” dell’Editoriale Giorgio Mondadori, così annota: <<Scorci urbani desolati: un cartello stradale, un’aiuola con pochi fili d’erba avvelenati dai gas, un cielo grigio, un muro, un albero. Oppure un guardrail in primo piano, case lontane, e un albero, quasi come un personaggio incongruente in uno scenario che non gli appartiene. O, ancora, due silos incombenti, sotto un cielo plumbeo che stempera nel60701099_10217263368129748_9110889879914414080_n giallo. E’ una periferia buia, colta prima dell’alba o al crepuscolo, tutta giocata sui grigi e sui neri. Sul potere evocativo della macchia. Che si impasta sulla tela e sembra possa sporcare le mani di chi la tocca. Come lo smog e i gas di scarico delle auto si impastano in solide nuvole nere sui muri e sugli alberi. Eppure i dipinti di Seba non vogliono essere una denuncia. Il suo scopo è quello di scovare la poesia sotto l’abbrutimento della città moderna>>. <<Per vivere bisogna imparare a trovare la bellezza in tutto quello che si vede. Anche in ciò che si incontra ogni giorno e spesso ci si dimentica di guardare. O, quando lo si guarda, a prima vista può sembrare triste, desolante>>, afferma Parasiliti. Lui il bello l’ha visto nelle periferie urbane. Quelle del Nord, dove ha lavorato per tanti anni, a Domodossola, e quelle del Sud, della sua Sicilia, dove è nato e dove è tornato quando la sua professione è diventata la pittura. Innamorato delle fotografie in bianco e nero (<<Mi piacciono le visioni di Gabriele Basilico>>, dice) come della pittura di fine Ottocento, da Fontanesi a Grubicy, Parasiliti ha trovato il modo di declinare la tecnica moderna in quel linguaggio intriso di romanticismo. Fotografa ciò che colpisce la sua fantasia, rielabora lo scatto al computer e poi usa il risultato come modello per le sue tecniche miste (olio e acrilico) su tela. Per lo più piccoli formati, con il sapore dell’album fotografico, dove i contorni sfumati degli oggetti, che sembrano talvolta prolungarsi nell’ambiente e fondersi con esso, danno un’idea di movimento, di velocità, come di immagini colte dal finestrino di un treno in corsa.

Infine, ecco alcuni brevi stralci, tratti da cataloghi: <<Segni particolari: silos, strade e 54516434_10216858802055849_9187121327465562112_nfabbriche dismesse. Ma anche luoghi, passaggi e tranches de vie che hanno la forza di far cadere ogni barriera tra l’arte e la quotidianità. Ecco il tratto tipico di Sebastiano Parasiliti, artista impegnato a fermare su tela i simboli di una società postindustriale, il dramma di tante solitudini, e le inquietudini di una società opulenta ma povera di spirito…>> (Cinzia Ciavirella). <<Questi asfalti fluorescenti di una tangenziale sotto la pioggia, lo scroscio di luci di sagome meccaniche ed umane indistinte – il perfetto nulla dei nostri territori metropolitani, rodeo luminescente e metallico delle vetture e dei loro profili sfocati – non rappresentano una “regressione del pennello ad obiettivo” al contrario evidenziano proprio l’operazione opposta; quelle periferie sembrano in altri termini dire “io” attraverso la rielaborazione tecnico/pittorica di Seba: in questo senso costituiscono “narrazione” ovverosia autonomia “coscienziale” rispetto alla mera riproduzione meccanica; al contempo storia personalissima e universale del paesaggio dall’utopia urbana alla sua negazione, identificazione dello spazio come snodo centrale dell’esperienza del mondo, legame “dipendente” in grado però di creare identità…>> (Giuseppe Condorelli). <<…Seba coglie le periferie algide e spoglie delle oniriche visioni urbane e suburbane che caratterizzano certa riflessione sironiana, e sono in realtà degli stati d’animo virtuali, perché percepiti attraverso la coscienza, ma ne incrocia le misteriose derivate con contorni specifici, aderenti al flusso del vivere, quindi reali>> scrive, tra l’altro, lo storico dell’arte Dario Gnemmi, che conclude: <<…L’ellissi di pensiero che attraversa l’opera di Seba, sembra così avere uno dei suoi fuochi in quella che ci piace definire come una voluta, perseguita inidentificazione hopperiana. Al contrario di Hopper, Seba traccia i contorni delgp parasili vero, letto e vissuto come scaglia cronologica, scintilla incandescente e perciò bruciante dell’esserci (dasein) di heideggeriana memoria>>. Lo scritore Gianni Longo, nel suo libro “Lasciami almeno un sogno" (Curcio Editore) annota a proposito dell’artista <<Sebastiano Parasiliti ha l’arte di cogliere e di conoscere il criterio delle cose, ha l’arte di appropriarsi e di adattare le più diverse esperienze acquisite e sonda tutti i pensieri che il reale e il possibile risvegliano in lui. La sua pittura non è classica, né romantica e neppure moderna; è tutte queste cose messe insieme, o per meglio dire, fra tradizione e modernità, tra passato e presente, tra figurativo e astratto>>.

L’INTERVISTA: - Per  comprendere meglio la sua personalità umana e artistica, ma anche per scoprire le strade della sua creatività, a Sebastiano pongo alcune domande.

Da quando è nato il tuo amore per la pittura?

<<Da sempre, credo e sono convinto che la mia passione per l’arte sia nata dal desiderio di eliminare la banalità che ci circonda e di colmare la solitudine e il vuoto creato dall’incomunicabilità insita nella natura umana>>.

Perché dipingi? Dipingi per te, per gli altri o anche per vendere?

<<Dipingo soprattutto per me e perché non riesco a farmi ossessionare da altre cose. Penso alla pittura come a una medicina, infatti, la considero terapeutica, quindi la vendita di un’opera è la giusta gratificazione a chi ha creato questa terapia>>.

Parlaci della tua pittura fino a una decina di anni fa. Cosa racconta?

<<Racconta il mondo che vediamo tutti i giorni, sublimato dalla mia visione personale. Perché un cespuglio ai margini della strada, una fabbrica in disuso, lo svincolo di una tangenziale o un cartello stradale arrugginito dalla pioggia non sono belli, come non sono belle le città in cui per un motivo o per un altro siamo costretti a vivere. Io tutto questo cerco di renderlo più tollerabile, più poetico. Cerco la bellezza nelle pieghe anche scabrose, a volte, della nostra quotidianità>>.

Sebastiano, come definiresti quella tua pittura?

<<Definire la propria pittura è come guardarsi allo specchio, in un certo senso e a volte non è facile farlo. Penso che il mio lavoro sia sospeso tra emozione e ragione. C’è sempre stato in me questo bisogno di aprirmi, in qualche modo, al mondo e allo stesso tempo di farlo il più razionalmente possibile. Un collezionista ha definito i miei quadri “meravigliosamente tristi”, credo che questa definizione si adatti molto bene al mio lavoro. Effettivamente nelle mie opere si percepisce una piacevole malinconia, sia nei toni che nelle atmosfere>>.

A cosa si deve la scelta dei tuoi temi e del tuo stile pittorico?

<<Sono cresciuto a Piano di Tavola (CT), che si trova su un altopiano alle pendici dell’Etna, il cui territorio è costituito, per gran parte, dalla nera roccia lavica, chiamata “Sciara”. Per molti anni è stato un agglomerato industriale, con i capannoni, le vie disadorne. Credimi, il mistero di queste vie urbane me lo porto dentro da sempre e con la contraddizione dei suoi colori ha contribuito alle mie scelte. Sullo “stile”, ti risponderò con una considerazione,10981947_736154543148500_7284930262128305221_o forse, un po’ polemica. Se la parola “stile” viene intesa come coerenza temporale del mio modo di dipingere, allora credo che non si adatti al mio lavoro, visto che sono interessato a diversi modi di intendere la pittura. Il “mio stile” è un’espressione che mi piace poco, perché in qualche modo cerca di incapsularti in questa o in quella scuola. Forse oggi, il vero “stile” è di non possederne uno: siamo talmente bombardati da immagini d’ogni tipo, da avere la mente sottoposta a un’infinità di stimoli visivi, in cui poter stabilire, di volta in volta, quelle che più interessano. Oggi, abbiamo la libertà di poter scegliere: quindi, parlerei di preferenze pittoriche o tecniche. Nel mio caso, la scelta è caduta sulla fotografia, che in questi anni è diventata sempre più importante e che, in ogni caso, resta il mezzo migliore per catturare l’istante. Mi ha sempre affascinato la bellezza sprigionata dalle foto in bianco e nero dei grandi fotografi. Oggi, entri in una mostra e puoi trovare opere dello stesso autore sia astratte che figurative, come puoi trovare installazioni o foto, magari eseguite nello stesso periodo: la coerenza dello “stile” non è più un valore assoluto, come un tempo. Quello che conta, in fondo, è la qualità intrinseca dell’opera e l’originalità del lavoro>>.

In che modo nella tua opera è intervenuta o interviene la pittura della Sicilia?

<<A dirti il vero, conoscevo molto poco la pittura siciliana, a parte artisti come Guttuso e Migneco. Negli anni Novanta ho cercato di saperne di più leggendo “Novecento in Sicilia” di Giovanni Bonanno e visitando, qua e là, mostre significative. Ammiro alcuni artisti del “Gruppo Scicli”, ma tutto sommato non penso di aver subito “interventi” della pittura siciliana, nella mia opera. In pittura, credo di essere cittadino del mondo>>.

Da dove trai stimoli ed ispirazione per la tua creatività?

<<Dalla vita di tutti i giorni, dalle copertine dei giornali, dalle foto di moda, da internet, da un particolare di un’istantanea che mi colpisce. In poche parole, da tutto ciò che mi circonda. A volte posso lasciarmi influenzare da una moda, ma solo per cogliere ed assorbire l’elemento di novità che essa ha necessariamente dentro>>.

Seba, ti capita di avere momenti di “crisi”?

<<Purtroppo, sì. Tuttavia, penso che questo faccia parte del mio essere artista e dal fatto di possedere un senso dell’autocritica quasi maniacale, che mi porta a mettere continuamente in discussione quello che creo>>.

Generalmente a chi fai vedere per primo i tuoi quadri?

<<A Simona, mia moglie, che è una critica molto severa>>.

Sei pago dei risultati raggiunti?

<<Mi posso considerare relativamente soddisfatto, anche se credo di avere ancora molta strada davanti a me. Ma pago… no, non credo>>.

Come vedi l’arte alle soglie del terzo millennio?

<<Mi pare che ci sia molta vitalità. Tuttavia, noto anche una certa teatralità dietro ad alcune operazioni artistiche. A volte la ricerca dello scandalo a tutti i costi, per attirare l’attenzione, porta ad operazioni come quella di Cattelan a Milano, anni fa - ti ricordi? - con quei tre ragazzini-pupazzi impiccati che, secondo me, è risultato soltanto un “colpo” teatrale, studiato a tavolino, apposta per scandalizzare. Pur non condividendone l’azione, 53848800_10216858806455959_9081663868710682624_ncredo, comunque, che Cattelan sia un artista molto valido e, per certi versi, geniale. Personalmente, sono contro coloro che danno la pittura per spacciata, perché fin che esisterà l’uomo, ne sono convinto, ci sarà la pittura. In qualche modo, essa è la “carne” dell’uomo: nessuna opera virtuale, infatti, potrà mai dare la sensazione che si prova a guardare e toccare un dipinto; l’odore stesso dei colori a olio sprigiona emozioni, che nessuna macchina fotografica potrà mai fornire. Ben vengano le Installazioni, la Video-Art, la Computer-Art, quando queste tendenze, nel tentativo di emergere, portano con sé un punto di novità. È, infatti, questo il bello dell’arte: esprimere cose nuove con strumenti anche antichi (come la pittura) o moderni (come il computer), ma con una visione del mondo assolutamente inedita. Il pericolo per l’arte è di scadere nella banalità o, come dicevo prima, nello scandalo fine a sé stesso. C’è sempre un limite che non si può attraversare: quello che ci distingue dagli altri animali è la capacità di sublimare anche le pulsioni più profonde e inconfessabili>>.

Cosa pensi del rapporto tra l’arte e i media?

<<Della carta stampata, in generale, si può parlare bene, esistono infatti alcune interessanti riviste specializzate. Vedo, al contrario, male il rapporto tra arte e TV, perché, a mio avviso, non viene mai data la giusta importanza a quello che fanno o pensano gli artisti. Questo è un danno per la nostra società, che è sempre più tesa a raggiungere una felicità dell’apparire piuttosto che dell’essere. Tutto questo proprio ‘’grazie’’ a quella che dei media è la regina incontrastata: la televisione. Questa grande e cattiva maestra offre sempre più spesso sterili servizi a sostegno di una politica inutile e reboante o pessime trasmissioni di fiction, gossip e show spazzatura, negando il giusto spazio agli artisti e all’arte in generale. Quante volte i telegiornali danno notizie di mostre o di avvenimenti54419111_10216858802255854_6281241064531558400_n letterari? Poche volte e quando lo fanno mi sembra che privilegino gli aspetti commerciali e di sponsorizzazione, a quelli culturali. Inoltre, quelle poche volte che la TV propone qualche interessante servizio su un grande artista, lo relega a orari impossibili, a meno che non si tratti dell’ultima stratosferica quotazione raggiunta dai quadri di Picasso, Modigliani e dei soliti noti. Eppure, se ci guardiamo attorno i grandi pittori hanno influenzato e influenzano le nostre vite. Per restare in tema, proviamo a pensare per un attimo ai vari siparietti pubblicitari che le TV mandavano in onda qualche tempo fa, ispirati a Kandinskij, Klee, Mirò e altri astrattisti o a quella famosa azienda cosmetica che nei suoi “spot” strizzava l’occhio in modo plateale ai quadri di Mondrian. Eppure, pochi spettatori sanno che molti stacchi pubblicitari traggono ispirazione dalle opere di grandi artisti. Per questo considero la TV una cattiva maestra, perché non sa educare il suo pubblico in modo adeguato. Vogliamo trovare un colpevole? Si chiama audience. Quanta percentuale di share, infatti, potrebbe ottenere una trasmissione sull’Informale o sulla Pop Art? L’1 o il 2 percento a essere ottimisti. Lo stesso ragionamento si può applicare anche ad altre tematiche che la TV tratta raramente e comunque in modo non approfondito, perché dietro c’è il dio Audience = Denaro, sempre in agguato>>.

Secondo te, l’arte deve stare fuori dalla politica?

<<A volte c’è bisogno di lanciare anche messaggi politici, ma di norma, credo che debba starne fuori>>.

Senza la pittura che sarebbe la tua vita?

<<Sicuramente meno interessante, non siamo solo materia, ma anche spirito>>.

Cosa consiglieresti a un giovane che si affacci all’arte?

<<Di studiare e informarsi su tutta l’arte, dalle origini a oggi; di avere pazienza e di farsi “bruciare” dall’arte, perché senza il “sacro fuoco” della passione non si può arrivare da nessuna parte. Poi, dovrà lavorare, lavorare, lavorare… sempre e comunque>>.

Cosa stai dipingendo in questi ultimi anni?

<<Nella prima metà del 2007, ho avuto una profonda crisi creativa durata circa sei-sette mesi. Quello che avevo fatto fino a quel momento non mi appagava più, avevo l’impressione di essere arrivato al capolinea. Mi ha da sempre colpito una frase di Giorgio de Chirico che diceva: “Un pittore non deve essere originale, ma originario”, cioè si deve vedere o percepire da quello che dipinge da dove viene. Riflettendo su queste parole, ho iniziato a guardarmi attorno, eliminando completamente il mio quotidiano, che poi è il quotidiano di 71883450_10218412994429687_5946076638683856896_otutti: auto, paesaggi urbani, segnali stradali, periferie etc. Ho pensato che sarebbe stato meglio ritornare a una pittura più di getto, meno studiata, più sincera. Dico ritornare, perché già anni prima avevo dipinto qualcosa di simile, poche opere, però, in un’accezione più astratta e meno evocativa. Ripeto spesso che in quel periodo ho alzato gli occhi al cielo, osservando la bellezza del gioco delle nuvole sul paesaggio marino o terrestre. Credo che il fatto di essere nato e vissuto alle pendici del vulcano Etna ha pesato molto su questa scelta. Nella mia infanzia e adolescenza non c’erano prati verdi, ma pietra lavica, basalto, pietra che noi siciliani di quella zona chiamiamo “Sciara”. La Sciara era il mio campo di gioco. Questo “nero” o la terra bruciata color rame delle “cave di lava” della pietra etnea o ancora il rosso abbagliante delle colate laviche, è dentro la mia anima. Dico spesso che il mio dipingere ha a che fare con la persistenza della memoria, e quindi con i ricordi che non sono solo quelli del mio paesaggio siciliano, ma hanno radici pure nei ricordi dei miei viaggi o dei soggiorni in varie località. Infatti, molti dei miei quadri hanno come titolo il nome delle località che ho visitato o in cui ho vissuto, oppure da esperienze visive o emozionali avute in quei luoghi. In questo contesto non va dimenticato il trascorso lavorativo, negli anni Ottanta e per quasi tre lustri, in Val d’Ossola. E dal 2013 la mia esistenza, per svariati motivi, si divide tra la Sicilia e il Piemonte. Sono molto legato a queste Regioni che di conseguenza sono diventate soggetto anche dei miei dipinti. Come ricordavo, i miei lavori sono evocativi, ma a volte rasentano l’astrazione, il soggetto è talmente poco percepibile da essere quasi inesistente a un primo sguardo, magari troppo sommario dell’opera, di conseguenza il titolo dei quadri è molto importante come chiave di lettura degli stessi>>.

56679294_10217013227396386_2992016124113059840_nCONCLUSIONI: - Come tutti possono notare, Sebastiano ha saputo raggiungere, sotto lo stimolo dell’originalità, ottimi risultati, frutti esclusivi della propria fatica. Sono opere, le sue, d’intenso e magico stupore, all’apparenza di facile e immediata lettura, ma osservandole con attenzione ci si accorge della loro raffinata e sottile complessità, costruita sulle conoscenze delle nuove tecnologie e di quelle culture mediatiche, di cui si nutre necessariamente un artista immerso nella vita urbana del nostro tempo. Il suo mondo pittorico vuole esprimere un desiderio di poetica bellezza, di luce, di pace e un’aspirazione autentica alla ricostruzione dell’ambiente e dell’uomo.  Proprio per questo, Parasiliti ha avuto giusti e ampi riconoscimenti, dalla critica, dal pubblico e dal collezionismo più indipendente e conclude: <<Io cerco di invitare le persone che osservano le mie opere a guardarsi attorno, in qualche modo voglio comunicare il pericolo che i soggetti da me evocati potrebbero, in un futuro non molto lontano, sparire del tutto, almeno agli occhi dell’uomo, se questi continuerà a essere altro da sé. Quindi, godiamo di queste bellezze, di questa poesia e battiamoci tutti insieme per salvaguardare la natura e i suoi colori>>.

Giuseppe Possa

gpparseb S. Parasiliti e G. Possa
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