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Franco Esposito ricorda Giuliano Crivelli

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Riceviamo dallo scrittore Franco Esposito di Stresa, direttore della rivista culturale “Microprovincia”, questo ricordo dell’amico e artista Giuliano Crivelli, scomparso di recente, come riportato sul blog PQlaScintilla

https://pqlascintilla.wordpress.com/2021/01/11/e-morto-giuliano-crivelli-artista-ossolano

Preso da altri impegni culturali, confesso con una punta di amarezza di aver trascurato il mondo dell’arte, in modo particolare della pittura. Dei nostri artisti ho comunque seguito in silenzio, con discrezione, soltanto i migliori. Tra questi, in modo particolare per la bravura e la non comune personalità, l’amico Giuliano Crivelli.

In un tempo di tristezza, di sofferenza e di confusione come quello che stiamo vivendo, la notizia della sua scomparsa mi è giunta in lieve ritardo dagli amici di Domodossola.

La pittura, o forse meglio l’arte di Crivelli, mi ha sempre affascinato, fin dai lontani anni Settanta. Ho sempre sostenuto che fosse il più preparato e ne sono convinto ancora oggi: il pittore più rappresentativo non solo per la sua presenza nella nostra provincia, ma anche per la bravura con cui ha saputo oltrepassare i confini geografici, per sbarcare persino a New York e a Detroit con la sua splendida serie di ritratti dei più grandi sassofonisti jazz. Per anni sono andato a trovarlo nella sua Trontano e ho sempre trovato il solito Giuliano Crivelli, amico carissimo e lavoratore infaticabile, perseverante più che mai nel suo mestiere ed eccezionale esperto di ogni tecnica pittorica. Affascinante acquarellista, colorista insuperabile, illustratore e incisore essenziale, sicuro nei tratti, efficace.

Insomma era una gioia trascorrere un pomeriggio nel suo studio, osservando le sue ultime opere. E non meno importante discorrere con lui di pittura e di musica.

Tutto questo per lanciare un messaggio ai più giovani: per diventare artisti non basta scarabocchiare su tele o su fogli, ci vuole soprattutto cultura, che si acquista leggendo, osservando, discutendo. E poi, ancora la predisposizione ad accettare i ritmi di una disciplina severa e continua, la stessa che poi consentirà di realizzare le proprie idee con rigore e perseveranza. Questo insegnava l’utopia di Crivelli e questo esige la pittura, come ogni lavoro artistico, affinché si possa raggiungere qualcosa di valido, di originale.

Ancora oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, se qualcuno mi chiedesse di classificare Giuliano Crivelli, non saprei cosa rispondere. A mio parere è sempre stato “al di fuori del coro” per le sue talentuose e intrinseche qualità. Ad ogni visita mi sorprendeva, sia con la sua quasi innata immediatezza tecnica, sia con le scale cromatiche, capace di spaziare in campi che ti lasciavano senza parole.

Proprio in questo, in questo lasciare senza parole, penso che si nasconde la grandezza dell’amico Giuliano Crivelli.

Addio Giuliano, un altro grande amico che ci lascia.

Franco Esposito










F. Esposito e G. Crivelli

Altre notizie su Giuliano Crivelli pubblicate dal blog

https://pqlascintilla.wordpress.com/2018/12/16/rime-colorate-di-giuliano-crivelli

https://pqlascintilla.wordpress.com/2019/09/17/crivelli-ha-esposto-al-detroit-jazz-festival/#more-3481

https://pqlascintilla.wordpress.com/2017/11/26/mostra-a-domodossola-e-volume-di-giuliano-crivelli

https://pqlascintilla.wordpress.com/2017/07/16/the-saxophone-on-jazz-parade-nuovo-libro-di-giuliano-crivelli

 


Michele Scaciga, un geniale artista

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www.pqlascintilla.wordpress.com/2021/02/04/al-balabiott-di-domodossola-espone-michele-scaciga/#more-3220

Allo Studio Quadra di Domodossola, Michele Scaciga espone alcune opere astratte. La mostra si può visitare  fino al 28 febbraio 2021. Il personale tratto informale, dinamico e sicuro, dell'artista di Baceno, rende esclusive le sue creazioni.

di Giuseppe Possa

Michele ScacigaIMG_E0886[1], padrone del disegno, delle tecniche gestuali e cromatiche (dopo il diploma di geometra, ha frequentato a Milano la “Scuola di Fumetto” in via Savona e al Castello Sforzesco la “Scuola di Arte e Messaggio”), è stato il primo pittore ossolano - e allora era giovane - ad accorgersi che il mondo delle arti visive stava cambiando rapidamente, “contaminato” dai nuovi mezzi di comunicazione e di fruizione delle opere. Così ha pensato bene di usufruire di queste recenti - in quel periodo - modalità epocali, diventando uno dei professionisti locali, ma non solo, più apprezzati e ricercati. Nel contempo, tuttavia, ha sempre dipinto anche con tavolozza e con mezzi o strumenti tradizionali, alla maniera classica, mosso da una grande passione. In pittura ha lavorato su temi che riguardano la sofferta vita dell’uomo, ne ha indagato i malesseri esistenziali, testimoniando, in particolare nel suo primo decennio, un reale disagio e rilevando le inquietudini contemporanee.

In seguito, non sono mancati soggetti più distesi, con animali, miti e archetipi, nudi, figure, ritratti e volti inquietanti. Il tuttIMG_E0887[1]o espresso con un segno grafico forte, quasi incisorio, con cromie intense e vive, che lasciano emergere la carica geniale dell’autore. Lo testimoniano un CD giovanile, le numerose mostre (in particolare quelle nella prestigiosa associazione culturale svizzera Kunstverein Oberwallis), unitamente ai numerosi articoli su giornali, riviste e video. Naturalmente, Scaciga (di Baceno, classe 1968) nel frattempo ha insegnato disegno e pittura; ha operato nel campo del fumetto, della grafica e della pubblicità (ha prodotto spot a cartoni animati e cortometraggi); ha realizzato installazioni artistiche, ha ideato soluzioni per creare videoarte e videogame interattivi, anche per scopi didattici (ne sono un esempio le due installazioni permanenti al Museo del Profumo di S. Maria Maggiore). Ha vinto il primo premio al concorso “Malescorto”, ma ha pure conseguito altri premi e riconoscimenti importanti.

STUDIO QUADRA - Allo studio Quadra di Domodossola,IMG_E0888[1] in via Marconi 30, alcuni quadri di Michele Scaciga, resteranno esposti, fino a fine febbraio 2021. Queste composizioni recenti su tavola in tecnica mista, completamente diverse dalle precedenti, sono astratte, liricamente evocative, dentro cui - in ritmiche strutture ambientali e architettoniche dalle cromie tenui e sapientemente distese - paiono vibrare energie vitali. In queste raffinate tavole l’autore ha saputo abilmente combinare estensioni di colori ocra, bianchi, grigi, ravvivati da altri più caldi, dentro scansioni spaziali, in cui regna un ordine geometrico tramato da segni grafici sottili o, a seconda, più marcati a dare vita a zone di differente valore tonale.

In altre opere, qui non presenti, l’artista sceglie una tessitura cromatica più forte, squillante, sapientemente giustapposta, con un’attenzione ai diversi colori. È facile intuire in lui una profonda conoscenza della cultura pittorica del passato, dal rinascimento all’impressionismo, via via fino al contemporaneo, frutto di una tensione passionale, immune da cedimenti romantici.

Ecco, la lezione intima di Michele Scaciga: le emozioni che ci trasmette si percepiscono scavando dentro e osservandole attraverso queste impercettibili, trasognate, forme poetiche che evitano le secche di un astrattismo assoluto e favoriscono una elegia luminosa. Il personale tratto informale, dinamico e sicuro, rende esclusive le sue creazioni.

Quattro domande a Michele Scaciga

<<A causa del lockdown, non ho potuto proseguire il mio progetto di ricerca nel campo dell'arte cinematografica, chiamato ‘Gara di Moonwalking’, mi sono comunque tenuto ‘sul pezzo’, realizzando a novembre, un video ricco di effetti speciali su Babbo Natale, con tanto di renne in volo e piccoli aiutanti pasticcioni>> dice uno dei più geniali artisti, Michele Scaciga di Baceno, nato a Domodossola nel 1968, che al disegno e alla pittura alterna una personale ricerca in ambito multimediale.

Cos’altro hai ideato, in questo periodo?

<<Ogni giorno dedico alcune ore all'utilizzo di software con cui creo videogiochi per scopi didattici e divulgativi. Ne sto ora ideando uno più complesso di quello dell’Orso in Ossola, che ho prodotto nello scorso ‘confinamento’. Fornirò alle scuole un servizio didattico con questo nuovo media attraverso l'avanguardistico progetto ‘Creogame’. Da tempo sostengo che ai giovani che utilizzano i videogame gioverebbe acquisire anche un'infarinatura culturale, che li metta nelle condizioni di creare contenuti loro stessi, se vogliono porsi in modo partecipe e costruttivo nella contemporaneità. In un altro senso, vale pure per gli adulti, infatti, ho dato la mia disponibilità a tenere un corso pratico sul linguaggio cinematografico all’Uni3>>.

Mentre il progetto di Wikipoesia.it sta sempre procedendo?

<<Ti dirò che io e il gruppo di volontari, di cui sono presidente, non abbiamo subìto alcun rallentamento, anzi le statistiche di Google rilevano un crescendo di visualizzazioni. La cultura attraverso il web non risente della pandemia e posso affermare che, così come Wikipedia, di cui utilizziamo lo stesso software, non abbiamo subito effetti negativi, in quanto non c'è correlazione tra questa crisi sanitaria, economica, sociale, con l’espansione del progetto, anzi osserviamo una crescita della comunità. Abbiamo attualmente catalogato 200 poeti premiati e 600 pagine dedicate a cultura e a concorsi sul territorio italiano>>.

Quindi il confinamento non ha rallentato la tua attività?

<<Le distanze sociali si fanno sentire, ma cose da fare, da migliorare, ce ne sono tantissime e questo ritiro obbligato senz'altro mi sta fornendo la concentrazione giusta per lo sviluppo dei miei interessi. Nelle arti classiche sto percorrendo strade nuove nell'ambito del disegno, tale ricerca dovrebbe profilare scenari didattici che possano potenziare notevolmente le capacità nel visualizzare idee>>.

A proposito di pittura, qual è stata l’ultima tua esposizione?

<<L’ho allestita a ottobre coi miei quadri astratti dal titolo "Musica da camera" allo Studio Quadra di Domodossola e resterà aperta per tutto febbraio. In essa ho proposto opere realizzate in tecnica mista su legno, che seguono rigorosi principi aurei di armonia compositiva e adottano colori ricercati, presenti anche nella pittura ottocentesca, stesi in modo gestuale e netto>>.

Ritmi visivi per animi elevati.

Giuseppe Possa

P1340429a

 











Giuseppe Possa e Michele Scaciga

(questo articolo di G. Possa in parte è apparso su Eco Risveglio Ossolano)

Michele Scaciga

 

 

BOSSONE GIOVANNI (1931-1985): pittore nel senso più conservatore del termine

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www.pqlascintilla.wordpress.com/2021/03/07/bossone-giovanni-1931-1985-pittore-nel-senso-piu-conservatore-del-termine/#more-5255

DOMODOSSOLA – Tra gli anni Sessanta e Novanta vi è stato un grande interesse in Ossola per la pittura, mai forse come in quel periodo vi è stata tanta attenzione per le mostre personali e collettive. Questo sicuramente anche grazie al considerevole impegno che Carlo Bossone ha dedicato negli anni della sua vita per far crescere artisticamente una schiera di allievi, tanto da essere considerato un capostipite. Tra costoro, sicuramente uno dei più capaci nella distribuzione del colore sulla tela, c’è stato pure suo figlio Giovanni, morto prematuramente nel 1985, il più “bossoniano”, non solo perché legato da vincoli familiari. Giovanni Bossone, pittore nel senso più conservatore del termine, ebbe un’intensa attività espositiva, fino a raggiungere nei suoi periodi migliori una decina di personali all’anno, in varie regioni d’Italia e all’estero (espose anche a Buenos Aires in Argentina), sponsorizzato dal cugino Giuseppe. In occasione di una sua mostra a Roma nel 1972, la ‘Cine Luce’ girò un ‘reportage’, che fu poi proiettato in tutte le sale cinematografiche prima dell’inizio dei film.

Soprattutto nelle ‘nature morte’ e negli ‘interni’ ha ottenuto quella pienezza espressiva e vigorosa degli ambienti montani, in una dimensione ancora di umanità vallegiana, con la pace e il silenzio che si respirava nelle baite immerse nella quiete, lungo i sentieri di un’Ossola ormai scomparsa. La scelta tematica dei paesaggi, il colore pastoso e intenso della tavolozza, i tagli delle luci nelle vedute e scorci degli alpeggi sono quelli tradizionali, tipici della nostra pittura all’aperto. L’impostazione visiva dagli ampi orizzonti, di respiro più esteso, è però senz’altro personale vista nel tratto più intimo e poeticamente popolare, essendo egli stato un amante della natura in senso schietto.

Nato a Torino nel 1931, ha quasi sempre vissuto in Ossola, tra Domodossola e Vanzone S. Carlo. Anche il figlio di Giovanni, Riccardo, ha seguito le orme paterne e del nonno, ma ampliando la sua produzione artistica dal figurativo, con scelta moderna, all’astratto. Racconta Riccardo Bossone: “Nonostante la nostra tradizione, la mia strada sarebbe stata quella di fare il geometra. Mio padre voleva a tutti i costi che finissi gli studi prima di insegnarmi a dipingere. Purtroppo morì appena mi diplomai, ma nonostante questo appresi e mi dedicai alla pittura facendone il mio lavoro”. (Nella foto: ritratto di Giovanni Bossone eseguito dal figlio Riccardo. Sotto un paesaggio montano di Giovanni Bossone)

Giuseppe Possa

(articolo apparso anche su Eco Risveglio Ossolano)

 

 

 

 

Francesco Federico: tra esistenza e poesia

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www.pqlascintilla.wordpress.com/2021/03/11/francesco-federico-tra-esistenza-e-poesia/

E’ nato a Palermo nel 1949, dove vive e opera. Svolge attività letteraria e si occupa di critica d’arte, collaborando con riviste e periodici. Pubblica dal 1966 e ha dato alle stampe libri di poesie, narrativa e critica.

di Giuseppe Possa

Francesco Federico, noto poeta siciliano, ha dato alle stampe, nella sua lunga carriera letteraria, numerosi volumi di poesia, racconti, saggi e prose varie. Il suo modo di scrivere colpisce per la musicalità del ritmo agile dei versi, sempre limpidi nell’ispirazione, per il ritmo pacato e forbito nel narrare e per i contenuti umani e sociali sempre presenti nei suoi libri.

Pur conoscendolo e recensendolo dagli anni Settanta, ho avuto modo di incontrarlo solo nell’ultimo decennio, quando ha vinto, in Val d’Ossola alcuni importanti premi: Val Vigezzo “Salviamo la montagna”, Quantarte di Domodossola e il Premio Bognanco 2013, in cui come giurato stilai il seguente giudizio: <<Lirica cosmica quella di Francesco Federico. Con “Canto dell’acqua e del cielo”, il poeta è affascinato dal moto perpetuo dell’universo, dove l’acqua, per un inspiegabile mistero della natura, è diventata fonte di vita e si chiede, con l’angoscia della finitezza, chi mai siamo in questo “sciame della luce ignota”. Naufrago o viandante, il poeta acquieta la sua ansia ammirando le bellezze dello spazio infinito. E nell’azzurro del cielo e dell’acqua disseta i suoi giorni>>.

Se i poeti hanno più di tutti il dovere di interpretare e di esprimere i caratteri fondamentali della gente a cui appartengono e della realtà in cui vivono, la poesia, a mio parere, non può, o meglio non deve, essere fine a se stessa, ma deve proporsi di intendere e di esprimere la volontà, le aspirazioni, i sogni, i dolori e le gioie del mondo.

Proprio in questa logica – a me sembra – si muova tutta la poesia e la prosa di Francesco Federico, che partecipò attivamente ai movimenti studenteschi del ’68, aderendo, poi, all’Antigruppo ’73, fenomeno letterario, artistico e culturale nato in Sicilia in quegli anni.

Così con tale formazione, egli si è poi sempre battuto per i diritti etici, sociali e di salvaguardia degli esseri viventi e dell’ambiente che ci circonda.

In mezzo ai poeti capaci di parlare solo di sé e di esibire il proprio io ipertrofico e narcisistico, Francesco Federico, ancora oggi, propone una lirica capace di parlare contemporaneamente alla testa e al cuore; così a lettura ultimata si avverte il bisogno fisico di fermarsi un attimo e di pensarci su, soprattutto perché si avvertono nuovi orizzonti e nuove prospettive: “… altre stagioni sono possibili / ricche di frutti / arbusti e fogliame rigoglioso / L’alba magica del mattino/ ostinata ritorna / ci regala cieli sereni / e nuove avventure”.

Al di là dei contenuti, ciò che fa dei suoi volumi (ne ho in libreria una decina, di cui diversi recensiti) un esempio unitario di stile è la rigorosa scelta formale, il lavoro di cesello, il modo sintetico di espressione, l’assenza di sbavature (tanto più difficile quando gli argomenti che vengono trattati sono di “impegno” e il linguaggio limpido, d’una sofferta lacerazione che si fa palpito pacato e disteso.

Voglio qui riportare - in generale senza distinzione di silloge - alcune considerazioni critiche, che in passato ho scritto, recensendo le sue pubblicazioni.

… Subito, fin dal titolo, si avverte il desiderio dell’uomo di uscire dallo sfacelo in cui viviamo, per un viaggio che <<conduce altrove/ tra le città di grigio giorno/ dove non profumano/ l’alloro e la zagara/ e le valli dove si adagia la luce/ respiro il muto verde>>. In Federico, c’è, quindi, la necessità di raccogliere e di raccontare “la vita” con le ali delle parole, sempre con un filo di speranza, un’ansia di rinnovamento sociale e umano: “dove l’uomo condivide il suo pane”, mentre il povero bussa “alla nostra coscienza vischiosa”; e una ricerca di grazia mistica, perchè  “l’intelletto s’arrende/ al mistero della vita”. L’autore, insomma, è sempre teso a quei valori morali ed esistenziali che ci permettono di vivere un destino felice, anche se oggi è quasi impossibile per chi ha perso o non trova lavoro, che “già non dorme/ ed è sul baratro dei giovanili abissi/ a pochi passi dal nulla”

… Ci sono poi liriche tra sogni e realtà, canti d’amore, sentimenti universali, stati interiori, scandaglio di misteri sulla vita e sulla morte: <<Come naufraghi/ ci ritroviamo nostro malgrado/ nella matassa della storia/ con le ferite in metastasi:/ il disgusto degli schemi/ e il tetro dominio/ del potere economico>>.

I versi sono sobri, armonici, le espressioni delicate: direi che il valore di queste poesie sta nell’immediatezza delle loro emozioni, nel clima naturale in cui fioriscono, in quanto “fatte” (in greco poesia deriva appunto da “fare, produrre, creare”) di suggestioni sottili, segrete, di “giorni inquieti”, che si rivelano ai lettori più attenti e restano sicuramente nella memoria, per la potenza evocativa in esse contenuta: <<Hanno conficcato la lama delle ruspe/ nel nostro giorno immortale/ insudiciato la fertile madre-terra/ e contaminato con le scorie tossiche/ il cielo e i nostri corpi>>.

Sono, queste di Francesco Federico, poesie belle, caratteristiche di una vita veramente vissuta, sofferta, e recano il segno di un animo elevato, inconfondibile, in un mondo in cui il dolore, la disperazione e la sopraffazione “urlano alla nostra coscienza/ intorpidita”

… Attraverso questa dirompente poesia si disegna anche un paesaggio, quello aspro, solatio della terra siciliana, e s’intravedono costumi e pregiudizi, voci e amare presenze, fiati di gerarchie di censo e di potere, a pesare sulla sorte degli sconfitti:  “più non conosco la strada / gli amici / le formiche che trascinano eroismi / in una casa di odori di galline e cani / e mancano giorni al nostro calendario”.

Federico, dunque, insegue l’uomo, lo scava, lo mette a nudo, lo dipinge nel suo verso ricco di toni e di problemi, sprofondato in una vita senza molte alternative, eppure non inutile, inquieta, carnale: “Svuotato / senza alcuna gravità / vivo distratto in una città / di morti ammazzati nelle viuzze arabe / nelle piazze barocche / ed ho voglia delle tue mani / in questo agosto di fughe dal cemento”.

Avverte, quindi, lo sbandamento delle coscienze, lo sfacelo morale, l’apatia e l’indifferenza, il pericolo di sprofondare e diventare massa amorfa e lo supera con un’assidua partecipazione alla vita e ai suoi problemi: “Trasportiamo / pesi di piombo e sorrisi da robot / il dare e l’avere / viaggiano su rotaie / di stagioni discutibili / improvvisi / i tuoi abbracci / mi trovano disorientato / in una città di sangue”. Lo spunto, come si vede, della sua poesia viene dalla cronaca e dalla riflessione, dalla realtà affrontata con convinzione sincera in quella “piccola luce” che brilla nel segreto di ogni uomo e che lo conduce al richiamo della sua problematica e della sua esistenza … Nei suoi versi Federico, con lucida razionalità descrive la società contemporanea, computerizzata (“… non riesco a codificare / con freddi computers / questa instabile voglia di vivere”), accecata dai miti dell’avere (“avvoltoi e sciacalli / ordiscono profitti”), dalla violenza (“uomini dormono assassinati / alla scuola dell’omertà”), dall’imperialismo (“qualcuno ha piantato missili / tra i prati di papaveri”) e dalla tracotanza del potere che predica “promesse di fumo / in uffici di potenti”, che lascia “i giovani delusi / ad ammuffire come rifiuti” e che mercanteggia “strani compromessi / e ideali svenduti”…

Giuseppe Possa





Notizie su Francesco Federico

Francesco Federico (Palermo, 1949) vive a Palermo. Collabora a riviste e periodici con note sull'arte e sulla letteratura. Nel 1991 insieme alla moglie, la poetessa Cristina Casamento, ha istituito il Premio Internazionale di Poesia “L'Acàlypha” e nel 1992 con alcuni amici pittori (Fabrizio Avena, Nino Bruno, Susanna Laura Ciaccio, Enzo Orlando, Francesco Pintaudi e Tommaso Serra) costituisce l'Associazione Culturale “Documenta 2000”. Nel 1998 è fondatore dell'omonima Federico Editore, che cesserà di esistere nel 2012, successivamente promuoverà il Premio di Narrativa “Le Driadi”.

Ha pubblicato (poesia): Valle del Belice e altre poesie (1968); L'imbroglio (1983); Disagio e Tregue (Ed. Il Vertice, Palermo-1986); Amori Amore (Ed. I Quaderni di Arenaria, Palermo-1989); Via dell'orologio (Ass. Culturale “Documenta 2000” Palermo-1993); Caro Alceo (Federico Editore, Palermo-1998); Diario svelato (Federico Editore, Palermo-2001); Il viaggio difficile (Federico Editore, Palermo-2004); Sulla linea del cerchio (Federico Editore, Palermo-2011); Dalla terra acida (Associazione Culturale LucaniArt, San Severino Lucano / Potenza-2012); L'autunno ha veglie di parole (Este Edidition, Ferrara-2013); Le ali d'argilla (Edizioni Helicon, Arezzzo-2014); Fiori di umido vento (Edizioni Helicon, Arezzo-2015).

Ha pubblicato (narrativa): Il cielo di corallo (Federico Editore, Palermo-2009); Come i fenicotteri rosa (Este Edition, Ferrara-2014); nonché i due saggi sull'arte: Le forme dell'anima / Riflessioni sul lavoro creativo (Federico Editore, Palermo-2004); e Le forme del nostro esserci (Drepanum Edizioni, Trapani-2013); e il saggio sulla poesia: Le ragioni della poesia (Ed.autorinediti, Napoli-2014) e le Riflessioni sull'esistere / Frammenti di pensieri (Associazione Culturale LucaniArt, San Severino Lucano /Potenza-2015); I pensieri viventi (Associazione Culturale "Documenta 2000" Palermo-2019); Esistenza e poesia (Associazione Culturale "Documenta 2000" Palermo-2019).

E' presente in antologie e riviste letterarie: Scritti & Scrittori in Sicilia (Ed. Centro Studi Sikania, Ragusa-1987); Rosa senza Ragioni (Edizione Il Vertice, Palermo-1987); Gli Eredi del Sole (Ed. Il Vertice-1987); Pietra su Pietra (Ed. Insiemenel'arte, Palermo-1989); Quaderni antologici n.2 (Ed. Ila Palma/Ottagono Letterario, Palermo-1989); Poeti siciliani e non (Associazione Culturale “Documenta 2000” Palermo-1992-1994-1996-2001); Feritoia dei sensi (Edizione Fondazione Cerilli, Supino / Frosinone-1994); Le poesie di San Valentino (Federico Editore, Palermo-1999); Dal Pensiero ai segni / a cura del prof. Dante Cerilli (Ed. Bastogi, Foggia-1999); Rosa fresca aulentissima (Federico Editore, Palermo-2000); Unni siti palori (Federico Editore, Palermo-2001); Il verso dell'autoritratto (Ed. Arte Cultura, Milano-2002); Se la parola non tace (Federico Editore, Palermo-2004); La costanza dei grilli, (Federico Editore, Palermo-2005); Nuovi Salmi (Edizioni CNTN, Palermo-2012); Premio di Poesia “Quantarte è anche poesia” (Associazione Culturale Quantarte, Domodossola-2013); Antologia Letteraria del Premio Nazionale di Poesia “Il Litorale” (Centro Culturale “Il Litorale” Massa - anno 2013, 2014, 2015); Agenda Poetica 2015 (Archeo Club d'Italia / Nicola Calabria Editore, Patti/Messina-2015); Poeti e scrittori contemporanei allo specchio (Edizione Helicon, Arezzo-2015); Letteratura Italiana Contemporanea (Edizione Helicon, Arezzo-2015); Poeti per un anno (Edizione Helicon, Arezzo-2016); Dizionario critico della Nuova Letteratura Italiana (Edizione Helicon, Arezzo-2017); Antologia La Ginestra/Premio Letterario (Edizioni Helicon, Arezzo-2019) ed è presente nelle riviste culturali: Alla Bottega (Milano), Arenaria (Palermo); e Pagine Lepine (Roma) diretta dal Prof. Dante Cerilli, con cui collabora dal 1995. In passato è stato anche recensito nel blog PQlaScintilla: http://pqlascintilla.ilcannocchiale.it/2015/02/15/francesco_federico_le_ali_darg.html

I suoi testi sono stati tradotti in rumeno; in inglese da Sabina D'Alessandro e Licia Chianello, entrambe di Palermo; in francese da Anna Maida Adragna (Palermo) e Renata Bertorotta. (Roma); in tedesco da Manuela Heidler - Cortini e Fabio Richard Heidler (Friburgo - Germania); in spagnolo da Hebe Spolansky (Friburgo - Germania), Giulia Caronia (Palermo) e Giulia Lupo (Genova).

Nei suoi libri, in copertina e all'interno, sono presenti opere pittoriche di Nino Bruno, Fabrizio Avena, Gabriella Lupinacci, Tommaso Serra, Francesco Pintaudi, Guido Irosa, Enzo Orlando, Naire Feo, Giuseppa D'Agostino, Ferdinando Caronia, Salvatore Calò, Mariella Ramondo, Eleonora Fogazza, Marion Fernhout. Inoltre, sono presenti le opere fotografiche di Nino Giordano, Marisa e Pia Coniglio, Nino Bellia e di Piero Gucciardi. Dal 1966 ad oggi 2019, i suoi testi hanno ricevuto notevoli riconoscimenti a livello nazionale dalla critica specializzata.

Una poesia di Francesco Federico
 
 
 
NO, ALLA VIOLENZA SULLE DONNE
(a Carolina di Novara)
 
 
 
La ferita è aperta
come la terra
dopo la frana.
Dalla ringhiera
del balcone
lo strazio di morte
si è diffuso
sui rigogliosi alberi
del tuo condominio
e tra le strade
del deserto giorno.
Sull'asfalto giace
quasi indistinto
il tuo corpo di ragazza
con il sorriso disperso
e gli occhi al cielo.
Anche noi
inchiodati sulla croce.
 
 
 
(da "L'autunno ha veglie di parole"
silloge poetica di Francesco Federico.
Prefazione di Riccardo Roversi.
Traduzioni in inglese di Licia Chianello.
In copertina opera pittorica
di Giuseppa D'Agostino.
All'interno opere fotografiche di:
Nino Bellia, Lucia Cartoni,
Simona Goxhoi, Bianca Lo Cascio,
Este Edition, Ferrara 2013)
 
 

Adriana Pedicini: “Fiordalisi e papaveri” (raccolta poetica pubblicata da “Edizioni il Foglio”)

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www.pqlascintilla.wordpress.com/2021/03/22/adriana-pedicini-fiordalisi-e-papaveri-raccolta-poetica-pubblicata-da-edizioni-il-foglio/

Le sensazioni e le immagini che, con varietà e ricchezza, si affollano in noi, durante la lettura di “Fiordalisi e papaveri” di Adriana Pedicini, travalicano il dato autobiografico di partenza, per farsi canto universale, come, per esempio, nelle liriche dedicate ai genitori: “Memories”, “A mia madre”, “A mio padre”. Filtrate, infatti, attraverso la consapevolezza dell’<anima anelante all’amore>, queste tre composizioni si sublimano in comprensione umana di sé e dei propri affetti nei ricordi: <<Solo l’amore/ ricompone sul ciglio/ della memoria/ l’immagine/ svanita come neve al sole/ di fredda primavera>>.

Così avviene anche nell’ardere sottovoce dei versi dell’autrice che ovunque sgorgano con emozione e passione, rievocando tutto ciò e tutti coloro che camminano con noi, tra gli alti e i bassi <del ritmo faticoso della vita>, accompagnandoci inesorabilmente, <nel lento scivolare delle ore>, alla morte. Con la speranza nel cuore, però, perché la poetessa, anche se sa di non poter <bloccare il passo del tempo>, canta: <<Mi godo il mio cielo di nulla tinto di stelle e di sogni>>.  Cosciente, comunque, di vivere hic et nunc, perché in seguito aggiunge: <<Non posso vivere reclinando il capo/ a guardare il cielo e la vita/ è su questa terra/ e manda il suo richiamo>>. Anzi, quando non sente più <le tristezze ammassate nel cuore> aggiunge: <<Sono felice ma non ne conosco la ragione./ Non voglio saperlo mentre godo/ quest’istante di felicità>>.

Talora - come in “Catene” - risuona una nota di dolente trepidazione dell’essere che si trova nel mondo e si riconosce pari a ogni altra creatura, immersa nella vita, ma <<Le parole non hanno più suoni/ Babele è la torre di ogni città./ Confusi i colori, confuse le lingue/ gli odi e gli amori>>. Talaltra, nei momenti più sereni dei componimenti, l’amore per la vita, per le sue manifestazioni più elevate, diventa la nota saliente della poetica di Adriana, dove ogni espressione esistenziale viene ad assumere un posto di primaria importanza.

Dove l’espressione diventa più forte ed emotiva, i suoi versi - sempre sciolti, concisi, perfetti stilisticamente - raggiungono i massimi risultati, toccando diversi timbri simbolici: la memoria, i gesti d’affetto e amicizia, i soprassalti di un dolore vivo, i segnali di un’inattesa gratificazione o i sentimenti e le emozioni della natura. Qui la commozione per ciò che ci circonda si stempera e diviene passionale: in questa direzione si muove “Nume tutelare” e “Fiordalisi e papaveri”.

Anche perché, accanto agli uccelli migranti, al mondo dei fiori, dei campi di grano, c’è la ricchezza di abitazioni immaginate o di un paesaggio tra le spighe arse dal sole, popolato di suoni di campane o trafitto dai canti di grilli e cicale, mentre lassù nel cielo <la luna argentea più delle stelle>. Il tutto, in questo senso, restituisce una percezione delle cose e degli esseri viventi che convivono nel pianeta, perché l’uomo non esiste solo, la sua permanenza, però, a differenza degli animali, è legata alla “coscienza” della morte, per far posto a chi sboccia alla vita, ma che secondo Adriana <restituisce la speranza dell’Eterno>. <<D’altronde>> scrive nella prefazione Nazario Pardini, <<l’idea della morte è quella che fa di noi degli esseri viventi, unici, a soffrirne, in quanto di fronte al nulla e al sempre la nostra mente si perde, si sente a disagio, fino a patirne la splenetica meditazione>>. Siamo, insomma, legati al tempo: <<…Così il murmure del tempo ninna/ il gorgoglio dei pensieri/ le emozioni che stridono ferite/ blandisce la paura di essere, di esserci/ il timore di non esserci>>.

L’anima che sia quell’infinita e misteriosa “eco” (pianto alla nascita, “rantolo” alla morte) dalla quale veniamo e alla quale torniamo? Un nulla infinito e misterioso, (<senza più pensiero del domani>)? Sembra meditare diversamente Adriana Pedicini, se si chiede: <Il senso… il senso di tutto dov’è?> e nel ricordo della madre scrive: <<Pure ti sento/ nella carezza tiepida/ del vento e nel profumo/ dei petali che di quella primavera/ mi restituiscono la tristezza/ e la speranza dell’Eterno>>, e altrove: <<Ti restituirò all’incontro la calda carezza/ come allora e il tuo amore e il mio/ insieme saranno spirito di fuoco>>.

Giuseppe Possa









(Adriana Pedicini con Raffaela De Nicola che ha dipinto il quadro in copertina)

Sergio Bertinotti: "Scenografie dell'anima"

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 Sergio Bertinotti e monografia

www.pqlascintilla.wordpress.com/2021/03/26/sergio-bertinotti-scenografie-dellanima/

E' fresca di stampa la monografia del pittore di Mergozzo (VB), corredata da una sua autobiografia artistica e dalle opere: sacre e profane. Sessant’anni di pittura portata avanti con passione, sia negli anni in cui operava con studio professionale, sia quando ritiratosi dal lavoro si è dedicato a tempo pieno.

MERGOZZO - È fresca di stampa la monografia di Sergio Bertinotti con i suoi dipinti dal 1960 al 2020. Ci sono i quadri realizzati negli anni giovanili fino a quelli esposti nella prima mostra personale del 2001 a Palazzo Visconti di Verbania e poi i cicli pittorici, dalle “Storie di S. Francesco”, alla “Via Crucis”, a cui sono seguite la “Via Lucis”, la “Via della Fede” per concludere con la “Via Vitis”, tutti a suo tempo accompagnati da cataloghi con testi critici e riproduzioni delle opere. Il volume, dal titolo “Scenografie dell’anima”, è anticipato da quaranta pagine con cui il pittore di Mergozzo, classe 1938, ha voluto raccontare il suo vissuto artistico, che è iniziato già sui banchi di scuola, dove eccelleva nel disegno.

Poi com’è proseguito il suo percorso:

<<L’incontro con il maestro Mario Molteni, docente all’Accademia di Brera, fu determinante. Lo frequentai per 10 anni fino alla sua prematura scomparsa. M’invitò ad abbandonare lo stile impressionista, per dipingere in modo spontaneo che più si addiceva alla mia personalità e mi spinse a lasciare l’olio, per utilizzare l’acrilico, che mi ha consentito maggior accuratezza>>.

Si avviò così a una prolifica carriera iniziata in silenzio.

<<Sì. Dapprima come passione laterale alla mia professione e poi come dedizione a tempo pieno, quando a 60 anni decisi di lasciare il lavoro per dedicarmi completamente all’arte. Quindi il primo catalogo “La geometria del sogno” che accompagnava la mostra di Verbania con la gallerista Carla Surian, con la quale iniziai un buon rapporto di collaborazione e partecipai a diversi eventi collettivi, da lei organizzati in importanti città: in Italia, in Austria, in Francia e nelle Fiere d’Arte di Padova, Reggio Emilia e Bari>>.

Come l’ha impostata questa monografia, un insieme di immagini laiche e sacre, realizzate in sessant’anni di dedizione?

<<Dopo la mia autobiografia artistica e le prime opere, quelle laiche, ho inserito i dipinti legati ai cicli sacri, che lei hai già ricordato, con i quali ho esposto a Villadossola, al Sacro Monte di Orta, alla Basilica S. Francesco in Assisi, a Castel Sant'Angelo e in cinque Basiliche di Roma, grazie all’interessamento della presidente dell’Ucai, Fiorella Capriati e di Mons. Giovan Battista Gandolfo, che introducono la monografia con i loro scritti. Le immagini dei cicli - fotografate da Walter Zerla e Giancarlo Parazzoli - sono alternate dai testi critici di Marco Rosci, Giorgio Segato, Luigi Codemo, Pier Franco Midali e Giuseppe Possa>>.

Sergio Bertinotti è nato a Premosello, ma ha sempre vissuto a Mergozzo, dove ha ricoperto anche la carica di Sindaco. Al Convegno Eucaristico Nazionale, tenutosi ad Ancona dal 3 al 10 settembre 2011, alle pareti della sala della Meditazione dove è stato accolto Papa Benedetto XVI, sono stati esposti i dipinti delle 14 stazioni della “Via Lucis”, ricavati dalle diapositive e stampati a misura reale (cm. 50 x 60).

Giuseppe Possa

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Sergio Bertinotti e Giuseppe Possa

 

articolo apparso anche su Eco Risveglio VCO

 

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https://pqlascintilla.wordpress.com/2019/05/14/mostra-di-sergio-bertinotti-via-vitis/

https://pqlascintilla.wordpress.com/2018/10/24/la-via-vitis-di-sergio-bertinotti-intervista-a-pier-franco-midali/#more-2853

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MARCO TRAVAGLINI: Racconti singolari di gente comune

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www.pqlascintilla.wordpress.com/2021/03/30/marco-travaglini-racconti-singolari-di-gente-comune/#more-5389

Lo scrittore, nato a Baveno nel 1957, ha vissuto a Omegna sul lago d’Orta; ora risiede a Ivrea e lavora a Torino. Giornalista pubblicista, scrive su numerosi periodici e riviste. Da anni cura una rubrica sul settimanale Eco Risveglio del VCO. Tra gli anni Settanta e Novanta ha collaborato a “L’Unità”, “La Prealpina, “Il Riformista”. Fa parte del GISM, il gruppo italiano scrittori di montagna. Ha ottenuti alcuni importanti premi e riconoscimenti, tra cui: il “Tau d’Oro- Premio Orta della TV e della Comunicazione Europea”; la prima edizione per la saggistica del “Premio letterario Valle Vigezzo – Andrea Testore – Salviamo la montagna”; il riconoscimento speciale della giuria nel 2003 e della critica nel 2007 al “Premio Stresa”. Autore di narrativa e saggistica, i suoi libri di racconti (come fossero un unico romanzo fatto di tanti brevi capitoli) sono pubblicati da “Impremix - Edizioni Visual Grafika” (Torino).

 MARCO TRAVAGLINI non arriva da una cultura classica acquisita nei licei e nelle università (gli studi superiori li completerà da studente lavoratore); il suo sapere giunge da una conoscenza personale della vita di provincia, nutrito di tutte quelle letture popolari, attuali, militanti, che di solito vengono ignorate dagli studenti, ma che sono risultateTRAVAGLINI 1 fondamentali per la sua narrazione. Di sicuro, lo hanno affascinato soprattutto i romanzi di Piero Chiara, molti dei quali ambientati proprio in quei paesaggi lacustri, in cui ha vissuto da giovane. Naturale, che in seguito, approfondita la conoscenza letteraria, il suo modo di raccontare si è fatto impegnato, tenuto sul filo dell’essenzialità, con ritmo fluente e di respiro intenso, raggiungendo un senso dell’eleganza che incide sulla bellezza dei diversi “quadri”, con cui l’autore coglie la condizione umana. Certamente, nel susseguirsi di ricordi e avventure, di gioie, sofferenze e dolori, nello scorrere della vita, di ieri e di oggi, coesisteranno, con quelli di fantasia, pure spunti autobiografici, altri di cui ha testimonianza perché gli sono capitati sotto gli occhi o per sentito dire o perché appresi dagli anziani che li hanno salvati dalla deriva del tempo.

COME CAPITOLI DI UN UNICO ROMANZO - Travaglini, costruisce così “storie” singole in contesti locali molto speciali, come sono quelli della provincia del VCO, narrando di amici, di operai, di artigiani, di pescatori, di ubriachi, di balordi, di sognatori. Oppure rievoca, usi e costumi di tradizioni del passato; favole e leggende ormai dimenticate, dove si trovano spesso anche animali che assumono quasi dimensioni umane. Inoltre, mescola, in modo intrigante ed emotivo, individui inventati o realmente vissuti, luoghi immaginari e luoghi esistenti di fantastica bellezza (il Sacro Monte d’Orta, l’isola S. Giulio, il Mottarone, le cittadine e i paesaggi attorno ai laghi Maggiore, d’Orta e di Mergozzo), in una rievocazione che lascia, da una parte, l’amaro di vedere crollare il mondo di una società periferica, povera ma ben organizzata con le risorse allora disponibili, dall’altra, ne lascia una coinvolgente memoria.

A questo punto, è opportuno precisare che sto prendendo in esame, nell’insieme, i libri di Travaglini, dati alle stampe in oltre trent’anni (in calce l’elenco con le note editoriali): analisi utile per fornire un’indicazione generale dei pregi della travaglini 12sua prosa, con i personaggi e gli ambienti, in cui è nato, ha trascorso l’infanzia e la giovinezza e in cui ancora torna spesso, nonostante che lavori da anni a Torino. Questi luoghi sono dislocati per lo più nel Verbano Cusio e Ossola, nella terra novarese o altrove, comunque, all’interno del Piemonte, dove Travaglini, nel frattempo, è considerato uno dei protagonisti della letteratura della nostra regione che ormai, scomparso Sebastiano Vassalli, non annovera più grandi scrittori viventi, se si esclude l’ossolano Benito Mazzi (oggi il più noto a livello nazionale) e pochi altri. In questo panorama, Marco coglie, combinando realtà e fantasia, l’avventura umana della sua gente, in cui si caratterizza la gestualità popolare, che gli fa narrare di vicende, episodi, fatti - che si estendono da una pubblicazione all’altra in canovacci ben costruiti e coinvolgenti - fino a rievocare l’eco di un mondo contadino, lacustre, alpino, che poi da rurale è stato trasformato in aree industrializzate e in seguito in bacini turistici. Quindi, oltre che di un mondo agreste precedente, Travaglini accenna anche alle fabbriche, all’inquinamento lacustre e alle vacanze trascorse sul lago dai villeggianti che vengono da fuori.

MEMORIE D’UMANITA’ SEMPLICE - Da notare altresì l’avvincente sequenza che egli propone nella descrizione ora degli ambienti (forse pure per cogliere la differenza tra ciò che erano e ciò che sono diventati); ora degli stupendi spettacoli della natura, simili a pennellate pittoriche per segno e colore, in cui affondano le sue radici umane e culturali.

Ogni racconto ha i suoi personaggi, i suoi contenuti spontanei, (ripeto: reali o inventati), e l’autore, più che nella propria modalità di costruzione e di andamento letterario, trova i suoi momenti efficaci di confronto nelle tensioni intellettuali, sicuramente progressiste, per le sue idee socio-politche, per la passione e gli interessi che lo muovono, in questo suo straordinario mosaico narrativo.

Scrivere, per lui è soprattutto un piacere intimo, a cui si aggiunge il desiderio di conservare quelle “memorie” della vitatravaglini 23 ordinaria, dove le persone dall’umanità semplice “amano, soffrono, frequentano le osterie e si sostengono le une con le altre”. Sono esse (come annotavo nell’introduzione di una mia raccolta di liriche giovanili, intitolata “Quotìdome”, termine che avevo coniato dalla fusione di quotidiano e domestico) a rappresentare coloro che, vivendo dietro le quinte, non avranno mai il diritto a una comparsa sul palcoscenico della vita, perché la storia registra unicamente i grandi personaggi della terra.

Travaglini, però, possiede il gusto dell’eccezionale, per “immortalare” anche chi lotta con tutti i problemi quotidiani ed esistenziali della gente comune, con tanti valori umani, ma sovente pochi benefici materiali, in perenne conflitto tra il desiderio di vivere, nonostante le difficoltà, e la paura della morte. Spesso il tutto narrato dall’autore pure con una punta di ironia, nella descrizione di alcune situazioni sociali e di costume, ma dimostrando di conoscere a fondo i cuori dei suoi conterranei.

Come sottolinea Benito Mazzi, Travaglini ha <<una scrittura che nasce dal cuore e arriva al cuore, che sa cogliere con passione e slancio poetico la vita delle strade, dei piccoli paesi del lago e della montagna, con attenzione particolare al passato, ai giorni dell’infanzia, della giovinezza, a tempi meno facili ma più ricchi di semplicità, di saggezza antica, di rapporto umano>>.

PER RIFLETTERE - Nel concludere questa breve disanima - senza volermi addentrare nei dettagli dei singoli volumi dello scrittore - sostengo, e in modo diverso mi ripeto, che Marco Travaglini è riuscito, a trasferire sulla carta sentimenti e percezioni che il suo animo ha assimilato e raccolto dai propri luoghi di appartenenza, con una potenza evocativa di rara limpidezza, ma forse pure da esperienze che ha assimilato altrove, ma che ha voluto riambientare all’interno del suo amato territorio, in cui si sente di camminare sicuro. Ed è facile, per me e per i lettori delle nostre zone - tra le sponde dei laghi e i pendii prealpini, ma non solo - conoscere o imbattersi in persone simili, nel carattere o nei comportamenti, ai personaggi dei suoi libri, vissuti ieri o di altri che ancora vivono oggi, nelle nostre cittadine o nei paesi periferici. Anche per questo, i libri dell’autore suggeriscono e inducono a fare molte riflessioni, a non scordarci del passato e a ricordarci del presente, per non lasciar disperdere il loro patrimonio lungo i rivoli e gli spezzoni della storia che finisce dimenticata.

Giuseppe Possa

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 Libri di racconti di Marco Travaglini (di cui si parla nella recensione. Le note sono editoriali)

IL TEMPO DEI MAGGIOLINI

“Il tempo dei maggiolini” è un libro che contiene sedici racconti. Confesso che mi ha sempre attirato la narrativa di Marco Travaglini perché intesa a dare voce soprattutto alla gente comune, a quel mondo piccolo ma non minore col quale lo scrittore di Omegna ha sempre amato convivere, assimilandone i problemi, le speranze, le gioie e i dolori. (Prefazione di Benito Mazzi).

L’OROLOGIO CONTESO

Quattro racconti per tutte le stagioni e per tutte le età, dove si mescola la poesia dei luoghi con le storie di uomini e animali. Ambientati tra Domodossola, il lago Maggiore e il Mottarone, caratteristici personaggi raccontano le loro avventure. (Prefazione di Giorgio Rava).

LA CURVA DEI PERSICI

Trentuno capitoli, tanti quanti i giorni della maggior parte dei mesi, per raccontare le storie di un gruppo di amici e di un luogo molto speciale, sul lago d’Orta: la Curva dei Persici. (Prefazione di Mercedes Bresso).

QUANDO LA NOTTE SI MANGIA LE STELLE

Quarantacinque quadretti di vita nera, quasi tutti ambientati sul Lago Maggiore, a Baveno o nei paesi limitrofi, sulla sponda piemontese del Verbano.

LA REPUBBLICA DEI PESCATORI

Tre racconti ambientati sui laghi: Maggiore, d’Orta e Mergozzo. Nel primo, che da il titolo al libro, si narra la lotta dei patrioti repubblicani contro la monarchia sabauda…

Altri libri di Marco Travaglini (dello stesso editore)

NOTE A MARGINE

Le note a margine, per definizione, sono brevi appunti nei quali si concreta un’osservazione o una considerazione. In questo caso si tratta di punti di vista, sottolineature, riflessioni. Spesso pubblicate, nel tempo, su quotidiani e periodici, commentando un fatto di costume, un libro letto, brani musicali che ci hanno fatto sognare, un evento che ci ha colpiti, un problema sociale…

VOI PERSONAGGI AUSTERI, MILITANTI SEVERI…

Ma i comunisti italiani (quelli del PCI, per intenderci) erano davvero così seri e poco inclini al sorriso? Sono stati veramente quei “personaggi austeri, militanti severi” cantati da Francesco Guccini nella sua “Avvelenata”? Anche. Tuttavia, non erano privi d’ironia, soprattutto nei confronti di loro stessi.

BRUCIAMI L’ANIMA

Bruciami l’anima è un taccuino di un viaggio che si svolge attraverso i volti, le immagini, i paesaggi, i profumi, le voci e i rumori di una terra orgogliosa e meravigliosa, di un Paese che ha saputo resistere e rialzarsi, che sa aprire il suo cuore con generosità, un cuore ferito, ma non vinto: la Bosnia Herzegovina.

CAROLA MAZOT (1929-2016): IL FASCINO DEL SEGNO CHE INCIDE

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di Giuseppe Possa

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www.pqlascintilla.wordpress.com/2021/04/02/carola-mazot-1929-2016-il-fascino-del-segno-che-incide/#more-5377

Una pittrice dal tratto vigoroso e lirico. Nei suoi quadri: figure colte ai miti di oggi e alla vita di tutti i giorni; gesti e spunti quotidiani, sospesi tra mistero e realtà; immagini zoomate, così riassuntive ed emozionanti. Sono le pagine di un diario moderno, intriso d’antico. Morta a Milano nel 2016, era nata a Valdagno nel 1929. Si era diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera con Pompeo Borra.

Quando Carola Mazot nasce a Valdagno (VI), il mondo sta attraversando una delle crisi economiche più profonde dell’era moderna, aperta dal crollo della borsa di Wall Street a New York, ma la sua famiglia non vive in ristrettezze finanziarie, visto che in casa sono ospitati spesso pittori, musicisti e artisti vari. L’atmosfera culturale è favorita dalla madre, che si diletta nel dipingere, e dai nonni materni: il pittore veneziano Vettore Zanetti Zilla e la figlia del noto artista sloveno Carlo Matscheg, che è stato maestro di Guglielmo Ciardi. Ben presto, i genitori si trasferiscono a Milano e la giovane Carola frequenta gli studi regolari; nel frattempo, inizia a disegnare, sotto la guida del nonno (<<Mi faceva notare di quanti verdi era composta una campagna d’alberi e di cespugli, oppure scoprire il barlume di luce che contorna gli oggetti dando un senso al volume…>>): la passione è grande fino al punto, nel prosieguo degli anni, di dedicare tutto il proprio tempo libero alla pittura.

È appena sedicenne, quando entra, come allieva, nello studio di Donato Frisia: <<Mi diede soprattutto una 281858_2345352952098_3288348_npreparazione tecnica e di abilità>>, mi disse in un’intervista anni fa (pubblicata sulla rivista ControCorrente) e aggiungeva con una punta di stizza, <<mi faceva copiare dal vero soggetti che preparava per sé, nature morte, ritratti di signore. Ricordo ancora con odio un cartoccio di castagne arrostite rovesciate sul tavolo di cui non mi importava proprio nulla…>>. L’esasperazione di questo metodo d’insegnamento la porta a una crisi profonda, superata dopo l’incontro con lo scultore Lorenzo Pepe che la prepara per l’ammissione all’Accademia di Brera: <<Pepe mi insegnò a operare senza mai perdere di vista l’insieme: abbozzando, dovevo disegnare subito la gran massa geometrica in cui era compresa la figura, anche entrando nei particolari, non distogliendo mai l’occhio dal tutto. Scopersi, così, l’armonia e il legame dei vari punti tra loro, della realtà che copiavo e da cui sgorgava un mistero, un fascino che mi accompagnò sempre, mentre prima coglievo solo il divertimento nel riprodurre immagini>>.

Carola è troppo attratta dall’arcana forza che coglie dalle persone e dagli oggetti per attardarsi sui particolari; le sue tele, infatti, promanano proprio da una spontanea visione d’insieme: <<C’è un mistero>> mi confidava, <<qualcosa di indefinibile che arriva dipingendo. Da dove viene? So che lavorando, dopo la prima impostazione degli spazi e della dinamica del quadro, devo seguire l’impulso e le mie opere finiscono quando lo vogliono>>. Poi aggiungeva: <<Del resto tutta la nostra esistenza è un intreccio di combinazioni, con una forza che ci accompagna da dove arriveremo>>. All’inizio degli anni Cinquanta, mentre frequenta Brera sotto la guida di Giacomo Manzù, la sua famiglia, per volere della madre che desiderava tornare nella sua città natale, si trasferisce a Venezia e lì prosegue gli studi all’Accademia di Belle Arti. A 23 anni si sposa e torna a Milano. Il marito Guido Di Fidio è scultore e lei, oltre ad accudire la figlia, opera nel campo della ceramica. Dopo gli anni Sessanta riprende a frequentare gli ambienti culturali e termina gli studi all’Accademia di Brera, dove consegue il diploma coi maestri Gianfilippo Usellini e Pompeo Borra.

Della sua arte sono entusiasti Antonino Carbè, Dino Villani e Franco Loi che le presenta una mostra all’Istituto di qu_image_427_lCultura Italiana di Vienna: “Quel suo modo stupido di guardare alle persone e alle cose lo si ritrova in un certo idealismo neoclassico dei suoi quadri e non va disgiunto dal suo incantamento per le luci e i colori”. Le mostre si susseguono a Verona, a Venezia, a Milano e in altre città italiane e straniere. A metà degli anni Ottanta le Edizione d’Arte Ghelfi di Verona nei quaderni “Artisti italiani oggi” pubblica una cartella con introduzione di Liana Bortolon, che definisce i personaggi della Mazot come delineati “a colpi di sgorbia”. E in effetti le sue figure, studiate sul modello e poi emergenti a memoria, attraverso un tratto vigoroso, narrano fatti di vita e di morte, di guerre e di amori, con una espressiva carica creativa, dalla linea scabra, quasi scultorea. Nel 1997 dà alle stampe un importante volume di calciatori e ritratti con presentazione di Mario De Micheli. Sue opere sono apparse sulle copertine di alcune riviste e sul libro <<Ribelli non si nasce>> dello scrittore Francis Sgambelluri. Negli ultimi anni, è stata un po’ “rintanata”, come sosteneva lei, anche se, nel 2001, ha esposto a Milano contemporaneamente alla Libreria dell’Angolo e al Nuovo Aleph e poi ha allestito una mostra allo Studio XRAY, in zona Loreto.

Alla domanda: c’è qualche maestro che ha influito più di altri sulla tua formazione, così rispondeva: <<Pensando al mio percorso di lavoro devo mettere Mario De Micheli tra i miei maggiori maestri, per l’importanza esistenziale che ha avuto nella mia vita artistica e conseguentemente umana in diversi momenti. Soprattutto quando mi fece uscire dal soggetto unico, delle teste a memoria: “Prendi una tela grandissima e fai una composizione”, e scoprii la bellezza dell’impostazione degli spazi, e le nuove spinte e attrazioni che derivavano>>.

qu_image_641_lLe qualità pittoriche e la raffinatezza di Carola Mazot, come abbiamo visto, affondano le radici nell’ambiente artistico familiare e nel considerevole apprendistato giovanile. Ella dipingeva di getto, veloce, sicura e senza ripensamenti; non si è fermata allo stile del nonno, ma neppure ha ceduto alle tentazioni avanguardistiche; si è aperta una propria strada, secondo le personali doti istintive, fatta di sintesi disegnativa: un segno rapido e impetuoso, quasi a scatti improvvisi, che sa cogliere cose e figure con spontaneità, come ha scritto Dino Villani: <<Una pittura la sua, dall’impostazione virile addolcita dal sentimento, che si attiene alla sostanza espressiva, ma che lascia tuttavia largo spazio ai trasporti poetici di un animo sensibile e delicato dalla personalità singolare>>.

Nota negli ambienti culturali milanesi per le sue doti artistiche, ma anche per la simpatia e l’umanità che sprigionava dalla sua personalità (<<molto più forte di quel che l’apparenza svagata e stupefatta lascia supporre>>, come affermò Franco Loi), Carola Mazot è stata seguita e apprezzata da diversi intellettuali e critici. Uno di questi, Antonio Carbè, sull’ultimo tema della pittrice (“i calciatori”, i nuovi gladiatori degli stadi: un soggetto che la affascinava, che le dava più libertà), così annota: <<La sua gestualità si esalta nel “fermare” il movimento dei corpi, la sua pittura è legata all’umano perché è affascinata dalla natura: da un volto, da un corpo come da un fiore, da un cielo come dalle stagioni mutevoli>>.

Gli ultimi anni, Carola Mazot li trascorse tra Milano e la sua casa rurale nelle Alpi Lecchesi, dove dipingeva soggetti della natura: fiori, alberi e paesaggi. Si è spenta nel capoluogo lombardo nel 2016.

Giuseppe Possa

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Carola Mazot, tra Patricia e Gioxe De Micheli

per ulteriori informazioni si può visitare il sito: www.mazot.info


Le farfalle di Moreno Panozzo

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Le ultime grandi opere di Moreno Panozzo, come “Suburban Doors”, risalgono all’inizio del recupero dei container: i container (voluminosi quanto un palazzo di quattro piani) destinati al macero, sono trasformati dalle sue braccia, tecnicamente abili per sensibilità e maestria, a lavorazioni artistiche di elevato e palpitante spessore. Dopo quel periodo, che lo ha impegnato per una decina d’anni, a partire dal 2018, Moreno incomincia a progettare nuove sculture, più piccole e concentrate, sempre derivanti dal riutilizzo del container, dove ha trovato “materia viva” da trasformare, in modo egregio, in creazioni plastiche e poeticamente dinamiche. Nel frattempo e per un lungo periodo, esplora il formato “15x15” “Road”, ricercando e sperimentando tutto ciò che era possibile, operando senza tregua e con coinvolgente libertà di espressione. Già da questi fondamentali elaborati artistici, si denotano chiaramente delle forme curvilinee, delle estroflessioni, che in piccola parte siamo stati abituati a vedere su alcune tele di grandi maestri moderni.

Da quelle “formelle”, raccogliendo i vari pezzi come fossero delle pagine, su cui poi appunta i personali segni-graffiti delle proprie impronte, Moreno inizia a costruire dei “libri”, denominati “Container Book”. Le forme curvilinee si accentuano, l’autore comincia su alcune opere a intravedere “vibrazioni alari”. Da lì, prova il taglio nelle diagonali, di quelli che fino a poco prima erano dei quadrati e subito in quelle iniziali azioni ritmiche, quasi a scandire il tempo, il suo tempo, intuisce quello che sarebbe stato il percorso successivo da intraprendere. Dalle forme dinamiche, quasi aereodinamiche di questi “libri”, legate a quelle continue ricerche e sperimentazioni, lo portano nell’aprile del 2019 a realizzare, con geniali accostamenti, le prime farfalle, di eccellente bellezza e armoniosa eleganza.

Le “Container Butterflies

Le farfalle, con la loro effimera e soave leggerezza, in Panozzo, si trasformano nella consistenza della scultura e si fanno “gioielli”, in materie forti, indistruttibili, che resistono al tempo, a testimonianza che l’arte è lunga, come asserivano gli antichi. Mentre, al contrario, le farfalle volano per brevi attimi, libere, come gli ideali romantici dei giovani: sogni che non sopravvivono all’avanzare degli anni, quando ci si accorge di come sia breve la vita. Tra le mani talentuose di Moreno, i materiali, che danno origine a questo “stuolo” di farfalle, sono assemblati, sagomati, saldati, decorati e resi raffinati dall’autore, senza una vera programmazione progettuale. Infine, vengono plasmati con i polpastrelli delle sue dita, impastati di colori e rifiniti con grazia e partecipato spirito lirico. Molte di quelle farfalle diventano anche simbolo della “joie de vivre”: la poetica esistenziale dell’anima, che canta un inno alla bellezza e alla speranza. Agli occhi di chi le ammira, a seconda anche del punto tridimensionale di osservazione, suscitano profonde riflessioni mistiche, umane, sociali. Con questi “manufatti” d’arte, in cui è stata creata la sensazione del volo, la giusta apertura alare e gli equilibri formali necessari, Panozzo vuole sensibilizzare al rispetto per l’ambiente che ci circonda e dimostrare quante meraviglie esistono ancora, senza che ci si allontani troppo da casa, osservando questi visitatori comuni di prati, parchi e giardini di ogni dove, che volteggiano leggeri e liberi tra i fiori selvatici o coltivati, di prati e giardini.

Inoltre, l’autore con la sua abilità artistica, nel dare forma e colore ai voli metafisici delle sue farfalle, pare riuscire a far loro perdere nell’aria la pesantezza della materia con cui sono state realizzate. È, comunque, sufficiente pensare alla trasformazione da bruco-crisalidi a farfalle, simbolo di speranza e trasformazione, per richiamare l’essere umano a quella libertà a cui aspira. In quel soffio vitale si percepisce il simbolo di una gioiosa rinascita, di un festoso rinnovamento, in particolare, per il brillio delle loro preziose cromie, che esprimono allegoricamente una felice positività, nel prosieguo cosmico della vita. Se poi sulle loro ali appaiono pentagrammi e note, subito una musica serena avvolge i nostri animi di sacrale celestialità; o ancora, se vi sono le impronte, le tracce o i tagli, i segni arcani e primordiali di civiltà antiche o moderne, personali di Moreno fin dai suoi inizi scultorei e pittorici, si rimane incantati dalla sorta di spiritualità laica che emanano: un pathos universale che urge nel suo cuore e si manifesta nell’energia creativa delle sue farfalle.             

Giuseppe Possa


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(Moreno Panozzo e Giuseppe Possa)

















<<Basta che le farfalle di Moreno Panozzo siano poste sopra fili spinati, che possono ricordare presagi di memorie tristi o messaggi di pace e libertà, a seconda che si trovino di qua o di là del reticolato>> (G.P.)



Giacomo Bonzani: “Detti vigezzini illustrati”

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Giacomo (Gim) Bonzani ha riordinato in un unico volume illustrato le sue vignette sui modi di dire vigezzini, alcune delle quali risalenti a una decina di anni fa. <<Col tempo la raccolta si è accresciuta>> ci informa l’autore, <<arricchendosi di espressioni, sapide talune, ormai desuete altre, ma non per questo prive di saggezza e fascino, anzi! Gli argomenti facilmente individuabili relativi a questi modi di dire sono stati suddivisi in capitoletti; altri, di carattere generale, inseriti in un comune contenitore “Miscellanea”>>. E così tra paesi della Valle Vigezzo, tra lavori, errori, utopie, amore e famiglia, politica, considerazioni varie, espressioni usate qua e là, Bonzani coglie quelle citazioni, ossia i semi nascosti della popolare saggezza locale, che si trasformano nel libro in allegria e che costituiscono una sintesi divertita e divertente dei proverbi e dei motti della vita montanara.

Ovviamente Gim si giustifica anche sull’uso del dialetto, che purtroppo varia da zona a zona, e che non ha regole fisse: <<Seppur ricordando con nostalgia i tempi in cui il dialetto era parlato da tutti, non si può certo pretendere di elevare questo piccolo libro a “testo dialettale”, ma spero sia almeno utile per ricordare in un modo originale alcuni modi di dire. Espressioni apprese sin dall’infanzia, spesso attorno al focolare domestico quando questo scaldava ancora ed attorno a cui, inconsciamente, si cominciava a tessere la vita. Frasi, racconti, aneddoti, tutti velati consigli trasformatisi con gli anni da parole a realtà>>.

Le “strisce” di Gim (in dialetto, ma con una traduzione in italiano e spesso con ulteriori precisazioni o spiegazioni), infatti, sono brillanti, caustiche, non scadono nel moralismo, sono un distillato di passione, d’allegria e, soprattutto, appaiono autentiche e genuine. Esse, tuttavia, sono sì mordenti, a volte spregiudicate, ma pregne d’intuizioni critiche, considerazioni e battute che con veloci tratti di penna e poche parole fanno riflettere. Per quanto riguarda la tecnica fumettistica, il tratto segnico di Gim è sciolto, genuino, per nulla aspro, senza spezzature popolaresche, né trasandatezze o estrose movenze parodistiche di certi vignettisti, ma con quella lucida sottigliezza mentale che sa cogliere ottimamente il rapporto fra disegno e testo, in una giocosa miscela naïve e folgorante.

Il libro è stato stampato da “Associazione Turistica Pro Loco Villette”; si avvale di un’introduzione di Melissa Gnuva (presidente della Pro Loco Villette) e di Monica Balassi (sindaco di Villette) che definiscono questi detti vigezzini: <<Divertenti e immediati nella forma, ma anche sagaci e talvolta profondi come la sintetica espressione delle nostre genti che nella quotidianità non usavano giri di parole per definire concetti ed esprimere pensieri>>; di una presentazione di Mariavittoria Gennari: <<Questo nuovo lavoro mi dà l’opportunità, mentre sorrido e ricordo, di rinfrancare il legame con la mia terra, anzi la nostra terra, i miei padri>>.

(Il libro è dedicato a Mario Gnuva , protagonista della Pro Loco e testimone autentico del dialetto Villettese. Scomparso lo scorso gennaio a 60 anni, è stato anche per anni Assessore nel Comune di Villette).

Giacomo Bonzani (Gim), vignettista autodidatta, appasionato di fumetti fin da bambino, dopo aver illustrato giornalini e periodici locali a partire dal 1967, ha pubblicato un volumetto nel 1980 sia in fumetti che in vignette, con alcuni personaggi originali (Mino, Tirkjus, Funigiak, Tunnel, Cavalier Verdura, a cui poi se ne sono aggiunti altri) e con la prefazione di Benito Mazzi. Ha, inoltre, collaborato alla rivista Pucianiga di Domodossola, presentata all’Euro Festival del fumetto di Grenoble ed ha partecipato ad alcune edizioni del Salone Internazionale dell’umorismo di Bordighera (IM). Diverse sue strisce sono apparse, in periodi diversi, su Eco Risveglio e su altri settimanali del VCO. Nel 1995 ha pubblicato “Le vignette di Gim” e nel 1997 ha illustrato il volumetto del giornalista, Antonio Ciurleo: “Strafalcioni sui binari, doppi sensi e disavventure di ferrovieri FS”. Nell’estate del 2000, Gim ha preso parte allo HUMORfest di Foligno (vignetta a tema fisso sul Giubileo). Architetto, più volte sindaco e amministratore di Villette, ha pubblicato una decina di monografie di tipo storico, tecnico e saggistico.

Giuseppe Possa














(G. Possa e G. Bonzani, vincitore del premio Bognanco Terme 2015)

The Hawk: Memorie de “Il Falco”

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www.pqlascintilla.wordpress.com/2021/04/10/the-hawk-memorie-de-il-falco/#more-5500

Un libro di racconti di Luigi Papanice pubblicato con lo pseudonimo “The Hawk” (Il Falco). Tante storie intriganti e spassose sono ambientate in Valle Vigezzo, dove l'autore trascorreva le vacanze e in cui oggi abita. Pubblicato dalle edizioni "Mnàmon" di Milano.

Al telefono, conversando con Luigi Papanice del suo libro di racconti, <Memorie de “Il Falco”>, fresco di stampa, dice: <<Durante il periodo di “confinamento”, parlando della nostra gioventù con un mio coetaneo, che ha già pubblicato alcuni romanzi, sono venuti a galla diversi episodi intriganti e spassosi della sua vita e gli ho chiesto il permesso di raccoglierli in un libro>>. E glielo ha concesso? <<Certo, mutando i nomi dei protagonisti e utilizzando il suo pseudonimo in copertina e all’interno nominarlo come “autore”. Il libro l’ho scritto in terza persona>>. E dove sono ambientati le storie? <<Parecchie in Valle Vigezzo, altre nel milanese, qualcuna in luoghi diversi. Ma in questa raccolta c’è solo la prima parte, ne seguirà una seconda l’anno prossimo>>.

Poi, scarico il libro e-book dalle edizioni Mnàmon di Milano (per ricevere la copia cartacea, sullo stesso sito, cliccare sulla voce “Amazon”) e vedo che l’autore è “The Hawk” (Il Falco), che ormai tutti i suoi lettori sanno essere lo pseudonimo dello stesso Papanice, che nato nel 1940 a Milano, vive da vent’anni a Malesco. Da studente scriveva racconti d’avventura per il giornalino di scuola, poi con gli impegni di lavoro ha accantonato in parte la passione giovanile, solo negli ultimi anni si è dedicato ai romanzi di spionaggio e fantapolitici (ne ha già pubblicati 16 con lo pseudonimo “The Hawk”), ambientati ai tempi della guerra fredda tra Unione Sovietica e Stati Uniti.

Quindi i fatti rievocati, in queste “memorie”, risultano autobiografici, narrati con ironica leggerezza, ma con profondità e prosa scorrevole. Si scopre, così, che il piccolo Luigi (“l’autore”!) era già arguto da ragazzo, con un carattere “peperino” (“un po’ turbolento” sostiene lui) e proprio per questo, durante le medie, è mandato dai genitori a studiare in Collegio. Da lì la memoria gli riporta tutta una serie di vicende vivaci, alcune anche buffe, accadutegli nell’infanzia, a casa, a scuola, durante le vacanze al mare o tra le nostre montagne, fino alla maggiore età, che a quei tempi si raggiungeva a 21 anni.

È impossibile qui segnalare tutti gli aneddoti che lo scrittore propone: bastino alcuni accenni per far comprendere che molti racconti sono ispirati dall’ambiente familiare (“La festa”, “La puntura”, “La caduta”, “La depurazione”), dai suoi amici o compagni di scuola (“Il collegio” “La rissa”, “Gli esami”, “La staffetta”) o da vicende spassose (“Il gatto”, “Le imprecazioni”, “La guida”).

 Giuseppe Possa










(G. Possa e L. Papanice)












Articolo pubblicato anche su Eco Risveglio Ossolano

Ornella Pelfini, pittrice neosintetista

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Ornella Pelfini, pittrice neosintetista, è nata a Domodossola nel 1961. Sin dall’infanzia ha dimostrate spiccate attitudini all’arte e dopo iniziali influenze di tipo espressionista si è orientata verso un figurativo di ordine e sintesi dello spazio, ampliando la sua ricerca sul ritmo, movimento e colore più materico.

MASERA La pittrice Ornella Pelfini ha intrapreso il percorso nell’arte da oltre vent’anni, prima come autodidatta ai tempi della scuola magistrale, poi quale allieva del maestro Alessandro Giozza, che con lei ha fondato il “Neosintetismo”: un movimento pittorico che ricerca una sintesi nella forma e nel colore, respingendo particolari non essenziali al soggetto, per mantenere pura l’emozione e la percezione iniziale; quindi, energia ed essenza sono elementi per dare contenuto interiore all’opera.

Pelfini dipinge scorci e vedute di paesaggi, figure e nature morte, a olio e tecniche miste, combinando l’astrazione con l’immagine reale, in una sorta d’immersione negli strati pastosi e caldi della materia cromatica. Ha esposto in collettive e allestito mostre personali a Masera, S. Maria Maggiore, Stresa, Domodossola, Brissago (CH) e in altre località. Tiene corsi per bambini nel suo Atelier “Closlieu” a Masera, che da un anno è chiuso a causa del lockdown. <<La situazione attuale di restrizione covid>> ci informa la pittrice, <<ha ostacolato la continuità del progetto e sono stata costretta a sospendere le lezioni, a cui spero di ridare vita, considerata la loro importanza. Infatti nonostante tutto, ho avuto delle sollecitazioni per proseguire e sviluppare dei progetti, ma per ora non so se sarà possibile>>.

Come è arrivata a questo particolare tipo di insegnamento?

<<L’atelier l’ho aperto nel 2013 con l’aiuto di Alessandro Giozza. È stato necessario, però, da parte nostra fare un corso di formazione a Mendrisio, tenuto dall’ideatore Arno Stern, in cui abbiamo ricevuto la certificazione che ci ha abilitati alla creazione del “Closlieu”. Quell’esperienza è stata determinante per comprendere che ai bambini non serve fare arte o insegnare l’arte, perché, se l’adulto non interferisce, essi disegnano per il loro piacere, creando sulla carta, con modalità molto simili a quelle del gioco, veri e propri mondi a loro misura. Questo metodo li rafforza e li rassicura. Il laboratorio l’abbiamo portato avanti con entusiasmo e fatica in tutti questi anni, collaborando in progetti con scuole e corsi privati. Sarebbe un peccato non poterlo più riaprire>>.

Lei, artisticamente, come ha affrontato questo lockdown?

<<Negli ultimi anni ho eseguito molti bozzetti en plain air, che nel corso di questi mesi, visto le restrizioni, sono diventati una potente fonte d’ispirazione. Ho utilizzato lavori eseguiti in Sardegna, in Svizzera o in altre località, per progettare nuovi quadri, riportandoli in formati più grandi, oppure creando composizioni in cui ho introdotto figure o animali. Spero di poter presto allestire una mostra, per condividere il mio lavoro, perché l’osservazione e l’ascolto del pubblico permette alle opere di prendere vita, prima di essere archiviate>>.

Per concludere, nelle opere di Ornella Pelfini, segnalata sul CAM 55 (Catalogo dell'Arte Moderna), c’è un impeto coloristico smaterializzato in particolari paesaggistici, come una montagna, un fiume, un albero, uno scorcio qualsiasi della natura, che si trasforma in poetica contemplazione di quanto ci circonda. Il segno è dinamico, la forma appena delineata nei suoi elementi, l’insieme viene compendiato in fascino suggestivo di grande impatto emozionale, ma è il colore la straordinaria forza che fa del quadro un centro di irradiazione d’energia. Le immagini luminose che ne scaturiscono sono gioiose, giocate appunto sull’accordo cromatico forte e caldo e danno un vigore particolare ai dipinti, sia che si tratti di paesaggi, sia di nature morte.

Giuseppe Possa













(intervista apparsa in parte anche su Eco Risveglio Ossolano)

“ALBERO”: UN’OPERA DI ORNELLA PELFINI

“letta” da Giuseppe Possa

 Un “Albero” spoglio – dipinto con istinto espressionista sul filo delle proprie emozioni e sensazioni – domina il quadro, avvolto in colori energici, la cui luminosità pare provenire dal cosmo.

Le decise pennellate, inferte dalla pittrice come colpi di bisturi, creano un vortice-spirale attorno a questo protagonista della natura che, simile ad un uomo disperato in una cruda solitudine, sembra abbracciarsi al suolo con mani-appigli. Le sue radici, viste ai “raggi x”, ci appaiono pure come una bocca avida che si aggrappa alla collina infuocata su cui sorge, come ad una mammella, per “succhiare” un possibile nutrimento. Questa forma tra il vegetale e l’umano, che tende angosciosamente in alto i suoi rami, simili a braccia gotiche al cielo, va al di là del significato della “pianta”, per ritrovare il sentimento e il mito di un mondo misterioso, in un’atmosfera di rapida apprensione e di ben espresso ermetismo. La “visione” di Ornella Pelfini ha, quindi, qualcosa che richiama al simbolismo e alla metafora.

In un’altra interpretazione, sembra di essere dinnanzi a una spirale di fuoco: quasi figura antropomorfa che sorge da un pianeta, per scattare ad ali tese verso un altro globo, in una visione turbinosa da “big bang”; ma l’albero – le radici fortemente aggrappate al terreno, i rami secchi sparsi al vento, verso un cielo da tregenda – cerca disperatamente di rimanere radicato al suolo “materno” in cui si trova. Un’immagine ricca di potenzialità, come se l’autrice fosse presa da un’ansia, da un’attesa, da una volontà di difesa o dalla ricerca di un rifugio; dalla commozione di chi è tutto intento a scandagliare un proprio patrimonio intimo, nutrito di ricordi e di sentimenti, in cui ritrovare la più profonda ragione di sé e della propria esistenza. Il tutto dipinto da Ornella Pelfini in una sintesi del reale, filtrata attraverso una personale interpretazione, nell’immediatezza dell’esecuzione libera e gestuale (G.P.)













(O. Pelfini e G. Possa)

www.ornellapelfinipittrice.it

The Hawk: Memorie de “Il Falco”

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Un libro di racconti di Luigi Papanice pubblicato con lo pseudonimo “The Hawk” (Il Falco). Tante storie intriganti e spassose sono ambientate in Valle Vigezzo, dove l'autore trascorreva le vacanze e in cui oggi abita. Pubblicato dalle edizioni "Mnàmon" di Milano.

Al telefono, conversando con Luigi Papanice del suo libro di racconti, <Memorie de “Il Falco”>, fresco di stampa, dice: <<Durante il periodo di “confinamento”, parlando della nostra gioventù con un mio coetaneo, che ha già pubblicato alcuni romanzi, sono venuti a galla diversi episodi intriganti e spassosi della sua vita e gli ho chiesto il permesso di raccoglierli in un libro>>. E glielo ha concesso? <<Certo, mutando i nomi dei protagonisti e utilizzando il suo pseudonimo in copertina e all’interno nominarlo come “autore”. Il libro l’ho scritto in terza persona>>. E dove sono ambientati le storie? <<Parecchie in Valle Vigezzo, altre nel milanese, qualcuna in luoghi diversi. Ma in questa raccolta c’è solo la prima parte, ne seguirà una seconda l’anno prossimo>>.

Poi, scarico il libro e-book dalle edizioni Mnàmon di Milano (per ricevere la copia cartacea, sullo stesso sito, cliccare sulla voce “Amazon”) e vedo che l’autore è “The Hawk” (Il Falco), che ormai tutti i suoi lettori sanno essere lo pseudonimo dello stesso Papanice, che nato nel 1940 a Milano, vive da vent’anni a Malesco. Da studente scriveva racconti d’avventura per il giornalino di scuola, poi con gli impegni di lavoro ha accantonato in parte la passione giovanile, solo negli ultimi anni si è dedicato ai romanzi di spionaggio e fantapolitici (ne ha già pubblicati 16 con lo pseudonimo “The Hawk”), ambientati ai tempi della guerra fredda tra Unione Sovietica e Stati Uniti.

Quindi i fatti rievocati, in queste “memorie”, risultano autobiografici, narrati con ironica leggerezza, ma con profondità e prosa scorrevole. Si scopre, così, che il piccolo Luigi (“l’autore”!) era già arguto da ragazzo, con un carattere “peperino” (“un po’ turbolento” sostiene lui) e proprio per questo, durante le medie, è mandato dai genitori a studiare in Collegio. Da lì la memoria gli riporta tutta una serie di vicende vivaci, alcune anche buffe, accadutegli nell’infanzia, a casa, a scuola, durante le vacanze al mare o tra le nostre montagne, fino alla maggiore età, che a quei tempi si raggiungeva a 21 anni.

È impossibile qui segnalare tutti gli aneddoti che lo scrittore propone: bastino alcuni accenni per far comprendere che molti racconti sono ispirati dall’ambiente familiare (“La festa”, “La puntura”, “La caduta”, “La depurazione”), dai suoi amici o compagni di scuola (“Il collegio” “La rissa”, “Gli esami”, “La staffetta”) o da vicende spassose (“Il gatto”, “Le imprecazioni”, “La guida”).

 Giuseppe Possa










(G. Possa e L. Papanice)












Articolo pubblicato anche su Eco Risveglio Ossolano

A Villadossola: mostra “Il Mistero e l’Assurdo”

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Personale di Giulio Adobati e collettiva di Dolores De Min, Daniela Castellin, Carola De Antoni, Alberto Poggia e Valentina Marchiafava 

VILLADOSSOLA (G.P.) – Sarà visitabile fino a domenica 8 agosto, al Centro Culturale La Fabbrica di Villadossola, la personale di Giulio Adobati e la collettiva di Dolores De Min, Daniela Castellin, Carola De Antoni, Alberto Poggia e Valentina Marchiafava (orari: 16-19; 21-22.30; sabato e domenica anche dalle 10 alle 12). Il titolo della mostra, ‘Il Mistero e l’Assurdo’, è emblematico, tenendo conto che i sei artisti appartengono al gruppo “Enigmic Art”, fondato da Adobati e De Min, i cui aderenti sono uniti da un denominatore comune: il desiderio di libertà espressiva e la rivendicazione di emozioni e sentimenti che sorgono da impulsi e pensieri profondi.

Giulio Adobati propone opere, per lo più in stile geometrico, che vanno da figure serene, principalmente femminili, a scene di interni o esterni con critiche al sistema sociale, politico, religioso (inquietante un’ultima cena con alieno). Un po’ ovunque personaggi provocanti, robot o zombi che paiono telecomandati da oscure forze extraterrestri. Altre tele sono più tenui con paesaggi e visioni cosmiche, dove spaziano a volte persone strane inserite in civiltà passate o futuribili.

Le tematiche degli altri artisti presenti, variano in una pluralità di stili e tecniche diverse. Dolores De Min così sintetizza: “il mio è un viaggio introspettivo in spazi e in universi immaginari, legato al mio vissuto intriso di influenze spirituali ed esoteriche, con visioni astratte e colori brillanti”.

La rappresentazione figurale di Daniela Castellin, come lei stessa sostiene, si esprime “in una scala cromatica e geometrica capace di trasmettere un sentimento terrestre e cosmico che sale dal profondo del mio animo”.

Nel salone in fondo, Valentina Marchiafava espone le sue fotografie, come ci informa: “sono immagini di me stessa… ‘paesaggi’ del mio corpo”.

I quadri di Carola De Antoni appaiono fortemente cromatici e risentono della sua esperienza con le vetrate; altri, come afferma: “richiamano le problematiche della terra che brucia e si rinnova o elementi della natura rigogliosa che rinasce”. 

Decisamente da forme e colori spirituali sembrano ispirati i quadri di Alberto Poggia che asserisce: “oltre l’invisibile c’è il visibile, il quale si espande oltre il firmamento”.

Col patrocinio del Comune che sta dando profilo culturale e artistico alla città con eventi e incontri, la mostra merita di essere visitata, per gli accostamenti delle opere esposte, circa 130, che lasciano sorpresi e ben impressionati per la varietà delle ricerche.

Giuseppe Possa

Mostra collettiva d’arte 2021 al Centro Culturale “La Fabbrica” di Villadossola

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Sono 153 gli artisti del VCO (pittori, fotografi, 1 scultore) che espongono!

E' stata inaugurata il 18 agosto, alle ore 18.00, la mostra collettiva organizzata dal Comune di Villadossola e dalla Pro Loco, in concomitanza con la festa patronale di S. Bartolomeo (ingresso libero). L’esposizione sarà visitabile fino al 29 agosto, tutti i giorni dalle 16 alle 19 e dalle 20 alle 22.30

La mostra, che annota la presenza di 153 artisti (pittori, fotografi, uno scultore) del VCO, è stata inaugurata con grande successo di pubblico, e quest’anno offre un’importante novità. Nel salone in fondo, infatti, sono presenti le scuole di pittura dell’AdaCon, associazione per i diritti degli anziani, di Domodossola, dirette dai maestri Ugo Pavesi e Giulio Adobati, e quella della Bottega dell’Arte di Gravellona Toce, condotta da Michela Mirici Cappa. Ci saranno anche momenti di pittura dal vivo. Una sala apposita è stata dedicata alla memoria di alcuni illustri pittori che hanno reso nobile e grande l'arte del VCO, le cui opere sono state proposte dalle proprie famiglie (in particolare Giuliano Crivelli, morto di recente, poi Gianni Mellerio e Angelo del Devero scomparsi lo scorso anno), a cui sono stati aggiunte quelle di alcuni maestri in possesso del Comune di Villadossola e della Comunità Montana.

E’ una mostra - giunta alla terza edizione e coordinata da Roberto Bassa - da visitare, sia per i nomi di chi partecipa, sia per il livello contenutistico, che fa ben sperare per il futuro, affinché si trasformi in un avvenimento annuale sempre più determinante per la nostra provincia, come ha affermato il sindaco, Bruno Toscani, che inaugurato la mostra: <<Una proposta di elevato livello culturale, che torna ad animare le belle sale della Fabbrica e a offrire, in occasione della Patronale, una stimolante visione ad ampio raggio sugli artisti del VCO>>. La mostra è stata introdotta da Giuseppe Possa, con interventi del Sindaco, del presidente della Pro Loco e dei responsabili delle scuole di pittura, Michela Mirici Cappa e Franco Gattuso.

Per la visita, bisogna attenersi alle recenti disposizioni sanitarie in vigore


A 95 ANNI È MORTO BRUNO FRANCIA: PARTIGIANO GARIBALDINO DELLA VAL D’ OSSOLA.

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Il 30 agosto nella casa di riposo di Vanzone, è morto il partigiano Bruno Francia di Piedimulera, nome di battaglia “Russo”. Vedovo non aveva figli, partecipò giovanissimo alla Resistenza tra le file dei Garibaldini al servizio del comandante Dino Vicario “Barbis”, di cui aveva seguito gli spostamenti fino al ritiro in Val Grande, dove partecipò ai fatti storici del ’44. È l’autore del libro “I garibaldini nell’Ossola”, pubblicato nel 1977, nel quale raccolse le testimonianze dei protagonisti della Resistenza, raccontando anche le proprie vicende partigiane, per tramandarne gli insegnamenti alle nuove generazioni.

Fu operaio, membro impegnato del consiglio di fabbrica, contadino nel tempo libero, con la sua pubblicazione contribuì a ricordare il contributo degli ossolani in quel tormentato periodo storico, e più che le gesta personali ha voluto portarci a conoscenza i pensieri di quei “ragazzi”, quando fecero la scelta più difficile della loro vita. Ne narrò le lotte, a cui partecipò coi suoi compagni garibaldini, quelli caduti e quelli sopravvissuti. Nel parlare dei suoi e loro ideali e speranze, non nascose le delusioni e i momenti di sconforto provati allora e dopo il 25 aprile 1945: <<Eravamo quasi tutti giovanissimi, molti tra i diciotto e vent’anni, ma cinque anni di guerra ci avevano insegnato molto… Ci sentivamo felici e allegri… Accettavamo di combattere quasi con gioia… a volte si sparava cantando… Come Kira a Gravellona che iniziò cantando “il mazzolin di fiori” poi “La guardia Rossa” fino al momento in cui una pallottola gli bucò il naso…>>.

(Foto apparsa sul giornale "Il Rosa")

Oltre a questo libro, Bruno Francia aveva predisposto una bozza relativa alla storia del movimento operaio della Pietro Maria Ceretti (fabbrica metallurgica dove aveva lavorato per tanti anni) di Villadossola, città in cui l’8.11.43  avvenne la prima insurrezione partigiana e popolare, che fu preludio e scintilla della Repubblica partigiana dell’Ossola. Il progetto di pubblicazione, però, non fu mai portato a termine. Parte delle bozze ancora scritte di pugno di quel lavoro sono anche in nostro possesso, rilasciate a suo tempo dallo stesso autore.

Per ricordare Bruno Francia, riportiamo qui di seguito l’introduzione al suo libro, “I garibaldini nell’Ossola”, scritta da Maura Allegranza.

Red Azione

<<Caro Bruno, finalmente sei riuscito a scrivere la storia dei Garibaldini nell’Ossola, che poi, in definitiva, è anche la storia della tua giovinezza. Sotto un certo punto di vista credo di invidiarti e con te di invidiare tutti coloro che oggi, dopo una trentina d’anni, si sentono veri uomini anche perché sanno di aver impegnato una parte della loro vita a difesa di un ideale che li faceva sentire vivi e partecipi del loro tempo.

Prima di conoscerti non avevo mai sentito parlare di te, e quando ti vidi per la prima volta pensai che non dovevi essere tu la persona che, stando a quanto mi avevano detto, stava scrivendo un libro sulla Resistenza. Forse non ricordi il nostro primo incontro, lassù, nella tua Cimamulera che hai descritto con tanto amore anche nel tuo testo. Stavi tornando dai campi e avevi appena finito di lavorare. Presentandomi ti dissi che avevo bisogno del tuo aiuto per svolgere un tema di carattere storico. Fu quando mi leggesti un brano del tuo manoscritto che cominciai a metterti veramente a fuoco e ad interessarmi del lavoro che avevi appena iniziato ma che già prometteva bene. Decisi di aiutarti non solo perché il tuo scritto suscitò il mio interesse e il mio entusiasmo, ma anche perché conoscendoti meglio mi resi conto che tu, inconsciamente, avresti potuto fare molto per aiutarmi a crescere, a maturare, a responsabilizzarmi, proprio mettendomi di fronte ad un lavoro che mi avrebbe fatta sentire utile a qualcuno e a qualcosa.

Su richiesta dei tuoi compagni e amici garibaldini hai cominciato, quasi per scommessa, a scrivere la vostra storia dagli inizi, dal tuo inserimento nella lotta contro i tedeschi ed i fascisti, fin dopo la fine della guerra. Sei stato bravo nel fare ciò perché non hai commesso l’errore di molti altri che hanno finito col mettere in risalto se stessi e loro azioni. Sei stato bravo perché hai parlato delle vostre sofferenze, delle vostre miserie, delle vostre speranze, di tutti i vostri sentimenti usando lo stesso linguaggio che ancora oggi usi, quello dialettale, semplice, umile, che ti caratterizza. Sei stato bravo perché non hai voluto narrare solamente la storia di chi ha combattuto, ma soprattutto perché hai descritto con immenso affetto e gratitudine un personaggio che, purtroppo, non sempre è stato esaltato sufficientemente: hai parlato della gente ossolana, la tua gente, quella che, come hai scritto tu, è stata una grande protagonista nella storia della Resistenza.

“Premurosa verso di noi come una madre lo è per il proprio figlio, aveva accettato la morte piuttosto che tradirci… Senza il suo aiuto non avremmo mai potuto vincere… Anch’essa, senza che nemmeno se ne rendesse conto, fu una combattente per la libertà d’Italia al pari di noi, e talvolta più ancora di noi che almeno avevamo un’arma per difenderci ed attaccare…”. Sono parole tue Bruno, e credo dicano tutto. Basterebbero queste frasi per far capire ai lettori quanto è grande l’affetto che hai per i valligiani, per i contadini, per la gente umile e semplice. Sono abbastanza anche per far loro capire che tu sei come quella gente, e che come lei hai un cuore grande così…

Scusa per questa strana lettera, scusa se ho scritto cose di cui tu non vuoi nemmeno sentire parlare per via della tua modestia. Ma, credimi, mi sentivo in dovere di mettere al corrente coloro che stanno per leggere questo libro, che tra le sue righe troveranno tantissima semplicità, freschezza, amore, gli stessi sentimenti che tenevano in vita te e i tuoi compagni durante quella guerra che abbatteva crudelmente ogni tentativo di libertà.

Grazie Bruno, grazie per avermi dato la possibilità di aiutarti, di far parte dei numerosi amici che hai e che da tanto tempo hanno imparato a stimarti e a volerti bene>>.

Maura Allegranza

Dicembre 1975

Elisa Contardi: L’urlo delle stelle (si trova su Amazon... sia in formato kindle che in cartaceo)

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BOGNANCO - È ambientato tra Domodossola e il lago di Ragozza, in alta Val Bognanco, l’ultimo romanzo della scrittrice Elisa Contardi, pavese, ma bognanchese d’adozione, perché si alterna tra la sua terra natale, per ragioni professionali, e il celebre centro termale ossolano, dove possiede una casa, in cui settimanalmente si ritempra nella quiete della natura montana.

“Ed è proprio sulla terrazza di questa casa” dice l’autrice “che nell'agosto del 2019 iniziai a scrivere la nuova indagine del commissario Greco, proseguita poi negli interminabili weekend di “zona rossa”, che dipingevo di giallo, in attesa di una mancata libertà. Come il lettore, nelle mie storie non conosco mai il finale, lo costruisco pagina dopo pagina, indizio dopo indizio”. La copertina è stata ideata da Salvatore Medau con una fotografia che come informa: “L’ho scattata in notturna, al Lago di Ragozza, un luogo magico, misterioso e anche un po’ inquietante, che è stato, ma solo nel romanzo, teatro di un avvenimento tragico come può essere il ritrovamento di un cadavere”.

Nel libro è narrata la nuova avventura del commissario Ascanio Greco che, trasferito a Domodossola, non ha neppure il tempo di ambientarsi e subito si trova alle prese con il ritrovamento del corpo senza vita di uno stimato professore di un liceo della città. Sembra non avere nemici, l’insegnate, quindi i sospetti ricadono sulla nuova giovane moglie francese, il cui passato è sconosciuto. Ben presto, però, le indagini del commissario si allargano ad altri sospettati, che in qualche modo sono legati alla vita del professore. Passano i giorni, ma diventa sempre più difficile risolvere il caso, quando un nuovo e inatteso indizio porta la vicenda a un finale inaspettato, in un crescendo che attanaglia il lettore. Il tutto è narrato con prosa stringata, coinvolgente e scorrevole.

Un paio di anni fa, Contardi aveva dato alle stampe “Silenzio in Arcadia”, un giallo coinvolgente, raccontato con arguzia, la cui trama si svolge in un bosco silenzioso e tranquillo sulle rive del Po. In gioventù, alla scrittrice, che è nata a Borni in provincia di Pavia nel 1979, le erano già stati editi due romanzi e una raccolta di poesie, ma il successo che l’ha lanciata nel panorama letterario nazionale è stata la pubblicazione di “Il mistero della Baita del cervo rosso”, la cui trama si sviluppa in un intreccio di arcani racconti nel racconto, sempre in Val Bognanco.

Giuseppe Possa

(Elisa Contardi e Giuseppe Possa)

https://pqlascintilla.wordpress.com/2018/05/01/elisa-contardi-silenzio-in-arcadia-romanzo-giallo/

FAUSTO PAGLIANO: UN ARTISTA “DI ECHI E DI SPECCHI”

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di Giuseppe Possa

Formatosi nelle sperimentazioni culturali e sociali degli anni Sessanta e Settanta, le sue ricerche artistiche spaziano tra pittura, scultura, fotografia, design, grafica ed elaborazioni al computer. Ha vissuto per venticinque anni in un voluto isolamento a Chezzo di Montecrestese, in Val d’Ossola, dove ha realizzato un suo progetto-modello di “città ideale”. Tornato da tempo a Milano, condivide le sue esperienze con gli allievi di un laboratorio artistico della città.

<<Ho sempre preferito l’ozio alla fatica, il tempo libero al lavoro: per questo la mia vita è sempre stata povera di avvenimenti e di fatti memorabili>>. Così si presenta il pittore Fausto Pagliano che si è formato a Milano nelle sperimentazioni culturali e sociali degli anni Sessanta e Settanta. L’artista da tempo è tornato a vivere nel capoluogo lombardo, dopo aver trascorso venticinque anni a Chezzo di Montecrestese (VB), dove c’è una delle più belle testimonianze della vecchia architettura alpina. Si era rinchiuso lassù, in un voluto isolamento, soprattutto per realizzare un personale progetto-modello di “città ideale”, in cui si possa sviluppare un ambiente armonizzato, dove i rapporti sociali tra le persone, ma anche tra cittadini e istituzioni, siano più vivibili, più a misura d’uomo. Alcune di queste opere – costruzioni, infrastrutture diverse, assemblaggi, sculture, quadri – sono state esposte in diverse mostre. Tempo fa, mi confidò che l’idea gli era stata ispirata, in particolare, dalla lettura dell’opera di Giordano Bruno, filosofo vissuto nella seconda metà del Cinquecento, uno dei personaggi più significativi di quel periodo, il Manierismo, che per troppi versi è simile al nostro. Approfondendo Bruno e il suo tempo, è giunto a scoprire i cosiddetti teatri di memoria e poi i linguaggi universali, le enciclopedizzazioni del sapere, da cui ha tratto molti spunti per il suo lavoro. Una ricerca, comunque, tutta propria – tra pittura, fotografia, design, scultura – che potrebbe dar origine, secondo i suoi intendimenti, al progetto di una città, di certo irrealizzabile oggi, ma che in un futuro, probabilmente ancora lontano, potrebbe soddisfare quelle esigenze e quei nuovi rapporti sociali – di comunicazione e di servizio – tanto auspicati dalle nuove generazioni. 

Nel 2002 Pagliano, col poeta Gaetano Delli Santi, ha pubblicato una tragedia in un prologo, tre atti e un epilogo, proprio dedicato a “Fra’ Giordano Bruno Redivivo”, componendo anche gli elaborati grafici che ne illustrano i contenuti, sulla stessa lunghezza d’onda della scrittura.

Il “Museo del Paesaggio di Verbania”, diretto allora da Gianni Pizzigoni, nel 2005 a Palazzo Biumi, gli ha dedicato un’esaustiva mostra antologica e per l’occasione è stato prodotto un film in dvd, “L’intelligenza della mano: conversazioni con Fausto Pagliano” di Gabriele Croppi, fotografo ossolano di fama internazionale. Nell’esposizione si potevano ammirare composizioni, per certi versi concettuali, in cui comunque la manualità ha ancora una propria importanza, e sono frutto della convinzione con cui ha partecipato e creduto alle entusiastiche proiezioni utopiche, alla generosità visionarie, della sua gioventù. I suoi nodi e intrecci, i suoi spazi tra strutture o architetture, le sue costruzioni interiorizzate, dove si mescolano e si confondono tracce di atmosfere urbane e segni d’emozioni individuali, stimolano memorie e sentimenti, perché quei lacerti di un mondo in bilico tra l’onirico e il surreale si rivestono d’inquietudine e di mistero. Il tutto in un’aspirazione alla sintesi, alla forma assoluta o come ricerca di una dimensione intellettuale, dove le immagini suscitano un richiamo alla propria interiorità e diventano pilastri portanti di una trabeazione fantastica.

Fausto Pagliano nasce a Genova nel 1942. Subito dopo la famiglia (il padre è ispettore di dogana), si trasferisce a Domodossola. A nove anni, nel capoluogo ossolano, frequenta la scuola di pittura del maestro Nino di Salvatore, dimostrando una naturale abilità nel disegno.  I genitori, spronati da questa passione del figlio, lo portano spesso con loro a visitare musei e gallerie in ogni parte d’Italia, tant’è che il ragazzo matura ben presto la decisione, mai più messa in discussione, di fare il pittore. Conseguita la maturità classica a Domodossola, s’iscrive all’Università Statale di Milano, sia ad architettura che a filosofia, ma come aggiunge lui: <<Con esiti che non andarono oltre un discontinuo interesse per la prima e una costante, ma insufficiente attenzione, per la seconda>>. Terminato il militare, lascia l’Ossola, per risiedere a Milano, dove si sposa con una stilista di moda, dedicandosi all’arte e collaborando anche nell’attività della moglie. Sono anni economicamente floridi che gli permettono di accogliere, nella propria ampia abitazione, amici e conoscenti, appartenenti ai più svariati movimenti o gruppi politici del tempo (siamo nel pieno del ’68). La sua maturazione artistica, infatti, deve molto alla partecipazione, sempre più convinta, a quel fermento di idee e di speranze: <<Credo - dice - che tutto ciò che faccio e penso oggi costituisca un naturale sviluppo, rispetto alle intuizioni e alle sperimentazioni socio-culturali degli anni Settanta>>.  In seguito, parte per un lungo viaggio in Oriente che durerà un paio d’anni e, al ritorno, va a vivere nell’entroterra toscano. Qui il suo matrimonio si esaurisce e nel 1975 Pagliano torna nel capoluogo lombardo, dedicandosi, oltre la pittura, anche alla grafica e alla fotografia.

Sul finire degli anni Settanta, vive le prime delusioni, da imputare soprattutto ai tradimenti di certi ambienti politici, che lo spinsero a trovare, come scrisse lui stesso: <<concrete proposte, se non di superamento, almeno di salvezza, per dare così validità a un oltre>>. L’episodio che lo convinse a modificare la sua esistenza è citato anche in un libro di Giorgio Bocca, sul terrorismo. Il 26 febbraio 1978, lui artista di sinistra, è aggredito a colpi di spranga da aderenti al gruppo MSL. Le gravi ferite riportate in quell’occasione – ancora oggi ne porta alcune conseguenze fisiche – lo tennero in coma parecchi giorni e lo costrinsero a una lunga degenza in ospedale. Nasce così il suo bisogno d’isolamento, per iniziare nuove esperienze artistiche, al di fuori della politica. Questa necessità lo ha portato, nel 1990, a trasferirsi a Chezzo di Montecrestese, in Val d’Ossola, dove ha terminato l’opera “La città ideale”, di cui ho parlato all’inizio e che ha esposto in alcune occasioni. Si nota osservando il lavoro di Pagliano - per certi versi concettuale, in cui, comunque, la manualità ha ancora una propria importanza - che egli costruisce la sua città multiculturale e multietnica, con dimensioni nuove che stimolano memorie e sentimenti, con spazi e architetture più biologiche che oggettuali: ne sorgono costruzioni cariche di un paesaggio metropolitano interiorizzato, dove si mescolano e si confondono le tracce delle atmosfere urbane e i segni delle emozioni individuali.

Molte sono le pubblicazioni che si sono interessate della sua ricerca artistica o che hanno ospitato scritti suoi, alcune sue poesie, numerosi saggi e riproduzioni di opere diverse. Oggi da tempo, l’artista, come già accennato, è tornato a vivere a Milano, dove condivide le sue esperienze con gli allievi di un laboratorio artistico. Dice, forse pensando ai lunghi periodi invernali trascorsi in Val d'Ossola: <<La solitudine lassù mi pesava sempre più e troppo spesso mi sorprendevo a pensare alla città e ci sono tornato, come del resto si auspicava la mia compagna>>.

Giuseppe Possa


Mostra bi-personale di Mengjie Huang e Cristiano Plicato

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Fino al 30 settembre 2021 - Frozen Time apre la stagione espositiva della galleria e vede per la prima volta in dialogo gli inchiostri su carta di Mengjie Huang e gli oli di Cristiano Plicato.

Sarà visitabile fino al 30 settembre alla MA-EC Gallery la mostra bi-personale di Mengjie Huang e Cristiano Plicato, a cura di Li Yuan. Il tempo sospeso è quello che stiamo vivendo, pieno di dubbi, di incertezze che però aspira ad essere un momento di riflessione, per comprendere quello che veramente conta, e dare il giusto peso alle situazioni, il giusto valore.

Gli inchiostri di Mengjie Huang dai toni delicati sembrano superare la dimensione del tempo, l’eleganza e la sobrietà del tratto evocano mondi lontani e rivelano una sensibilità d’animo fuori dal comune. Come ripete l’artista, i suoi migliori lavori appaiono non intenzionali, le figure, l’acqua, l’inchiostro, tutto sembra seguire un percorso casuale.

Per la pittura di Mengjie Huang la creazione della forma è fondamentale. La forma assorbe anche i nodi. Le pennellate devono seguire la struttura scelta ponderatamente. La forma riflette il mondo spirituale di un artista e il suo immaginario. Il ritmo dell'inchiostro orientale si confronta con la solidificazione dell'astrazione occidentale. Gli spettatori saranno inseriti in un contesto senza vincoli, spontaneo. Impostare il dialogo e la distanza tra sé e gli altri in modo ordinato, per percepire il pensiero filosofico sullo sfondo della vita in Oriente e in Occidente. Le pennellate gentili di Mengjie sbiadiscono la tonalità e tutto è silenzioso e solitario. Questo è il modo dell'artista di comprendere il mondo. Ha bisogno di guardare con calma, immergersi ed esplorare ripetutamente i cambiamenti nell'immagine e nella materia. Infatti, crede in una certa connessione tra il tempo e se stesso. Cerca una sorta di qualità indifferente ed elegante che non ha nulla a che fare con il mondo, che è uno stile artistico che anela alla bellezza. Tutto può essere bello.

Cristiano Plicato, come afferma il critico Giuseppe Possa: <<è un pittore vitale che ha trasfuso nei propri dipinti tutta la sua libertà segnica e cromatica. Dal magma del quadro la sua energia lirica, tra forma ed astrazione, crea masse materiche, racchiuse attorno al nucleo germinante delle immagini, unitamente a toni e semitoni taglienti, in un risalto di colori ribollenti, ma armonici>>.

L’artista, scrive il critico Alberto Veca, ha scelto come referente privilegiato il paesaggio. Ma si tratta di un “paesaggio” interrogativo, senza coordinate certe, compreso “punto di stazione” da cui leggere la scena in costante mutamento: allora dalla “memoria” di quanto soggettivamente si riconosce in un particolare spazio/tempo si passa all’esaltazione di un “non luogo”, in una operazione di metamorfosi delle figure che mantiene, per forma o per colore, una memoria di quella di partenza. E poi vi è la varietà della tavolozza cromatica che dal  contrasto di nero e rosso, elementare nel proporre un effetto bidimensionale dello scenario dipinto, può risolversi, con l’intervento di altri colori, in più sfumate e connesse relazioni, con il coinvolgimento di una profondità altrimenti negata: si tratta di una tavolozza cromatica che si basa alternativamente sull’addensarsi e sul rarefarsi della materia pittorica che parte dall’antitesi e giunge alla più articolata mescolanza, all’allusione di una profondità che è caratteristica linguistica dell’artista.

Mengjie Huang - Nato a  Zhao'an, Fujian, Cina nel 1975, si è laureato nel 1999 alla China Academy of Art.
Direttore della Fujian Flower and Bird Painting Society, è membro di Fujian Artists Association, China Federation of Literary and Art Circles, Chinese Meticulous Painting Association, Chinese Poetry Society, Sanyuesan Book Club e della Chinese Artists Association. Ha al suo attivo numerose esposizioni in Cina e in diversi Paesi, tra le più recenti  Wopart Fair, Lugano, Switzerland, Contemporary Ink Painting Exhibition, Xiamen, Post Road and Canal love, The 3rd National Art Exhibition.
Principali riconoscimenti: 2012 The Second Prize of the First Freehand Painting Exhibition of Fujian Province, 2012 Excellent Award of the Joint Exhibition of Works by the Professional Painting Academy, Shijiazhuang, China, 2011 Third Prize of the Sixth Fujian Youth Art Exhibition, 2010 National Chinese Painting Exhibition Excellence Award, 2009 The Excellence Award of the 2nd National Meticulous Landscape Painting Exhibition, 2007 Love on the West, Fujian Contemporary Art Exhibition Excellence Award (the highest award), 2006 Gold Medal of the First Zhangzhou Art Calligraphy Competition, 1998 Gold Award of Zhejiang Chinese Painting Essay Exhibition.

Cristiano Plicato - Cristiano Plicato nasce a Camastra (Sicilia). La sua famiglia si trasferisce a Milano e successivamente a Desio, città nella quale si stabilisce. Ha compiuto studi diplomandosi in Architettura degli Interni nel 1971 a Roma. Nel 1968, presentato da Rafael Alberti, esordisce in mostra collettiva ad Alba Adriatica. E nel 1971/72 in mostra personale a Milano alla Galleria Ticino presentato dal critico Gino Sordini. “Il giovane Plicato, pittore, espone una ventina di quadri alla Galleria Ticino di via Brera. Occorre dire, che dà buona prova di rigore, serietà e certezza.” Emilio Tadini, Milano 1972.
Da allora ha ordinato oltre centoquaranta mostre personali. Opere di Cristiano Plicato sono esposte nei Musei in Italia e Spagna. In raccolte e collezioni private, pubbliche e istituzionali, tra cui: Arcivescovado di Milano, Collezione Card. Giacomo Lercaro Bologna; Collezione Arte e Spiritualità Museo Paolo VI° Concesio BS; Museo de Arte de Aragua Venezuela; Museo di Gibellina TP; Museo Mariano d’Arte contemporanea Alessano LE; Museo Fondo de Arte Castell Platja de Aro GE - Spagna; Fundació Jordi Comas Matamala Platja de Aro GE Spagna; Museo del Disegno Salò BS; Museo della Permanente Milano; Strand Gallery Londra; Museo Salvador Dalì Berlino, Musee Site Oud Sin Jan Bruges Belgio; Museo Scalvini Desio MB; MAC - Museo Arte Contemporanea Lissone MB; Galleria Civica Ezio Mariani Seregno MB; Museo de Calonge GE Spagna. È stato titolare della cattedra di pittura alla Accademia di Belle Arti Fidia di Agrigento. Nel 1999 ha dato vita alla fondazione della Donazione Museale Giuseppe Scalvini, della quale è Curatore Artistico.

(a cura di Giuseppe Possa)

Antonella Marangoni: “Faccia a faccia”, Edizioni Amrita

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di Giuseppe Possa

Quando ci troviamo a faccia a faccia con gli altri, cosa dice di noi il nostro volto a loro? E noi che cogliamo negli sguardi altrui? Se l’è chiesto anni fa anche Antonella Marangoni, che durante un convegno fu attratta da un relatore, il quale illustrava “le possibili applicazioni dello studio del viso e spiegava quanto di noi si possa capire, analizzare e verificare attraverso la sua interpretazione”… come appunto scrive l’autrice nell’introduzione del libro che le ha pubblicato l’Edizione Amrita: “Faccia a Faccia”.

Ho avuto modo di leggerlo solo ora, ma lo recensisco seppure in ritardo, perché mi sembra un testo completo nel suo genere, fondamentale per i non addetti ai lavori che sentono, però, necessario il bisogno di interpretare le espressioni facciali, per migliorare le proprie relazioni sociali e individuali, cogliendo così maggiori indicazioni sulle persone. Ciò significa comprendere subito, a prima vista, chi abbiamo di fronte e permetterci, con più efficacia, di carpire dai volti emozioni e sentimenti anche istantanei. Del resto, la fisiognomica è “scienza” antica e gli stessi bambini apprendono le basi di questo tipo di lettura appena nati, nel gioco “faccia a faccia” con i genitori prima e via via poi con tutti gli “esseri viventi” che li avvicinano.

Lasciando da parte aberrazioni lombrosiane su tratti e lineamenti del viso, è difficile impedire al corpo, e in particolare al volto, di rivelare ciò che pensiamo e proviamo davvero, poiché le nostre emozioni trovano sempre un’espressione per manifestarsi, indipendentemente dalla nostra volontà. Quindi, basandoci anche sull’esperienza di vita, abbiamo la possibilità di interpretare, attraverso il viso (sicuramente la parte più sensibile di noi, perché sede di diversi sensi), molti aspetti del carattere delle persone. L’importante sarebbe, però, di non navigare solo a vista, ma di imparare a leggere con cognizione di causa ciò che sta scritto in faccia.

È ciò che Antonella Marangoni ci insegna in questo prezioso volume, utilizzando un linguaggio semplice ma forbito e inserendovi numerosi disegni esplicativi. Così ci è facile capire da uno sguardo se chi ci sta di fronte è interessato, se è sincero o se si sta annoiando, se è arrabbiato, triste o preoccupato, magari anche soltanto cogliendo il fremito di qualche ruga o di un leggerissimo tic… eh sì perché ora pure io ho scoperto i segnali che diventano specchio della mente e dell’animo.

Tuttavia, non voglio dilungarmi, poiché è sufficiente munirsi di questo libro dell’autrice ossolana (diplomata in Naturopatia all’istituto Riza di Milano con una tesi in Semiologia del volto e in Morfopsicologia presso la Societé Fran?aise de Morphopsycologie di Parigi) che in 13 capitoli, fa scoprire con chiarezza, semplicità e serietà una materia piacevole e interessante, per apprendere a comprendere il nostro linguaggio “segreto”, che personalmente mi era quasi oscuro.

Certo che ora mi trovo molto in imbarazzo. Incontravo Antonella col suo sorriso sereno, distensivo, e mi aprivo anch’io convinto che la mia maschera, nascondesse sentimenti ed emozioni, e scorrevo via sornione come acqua sui sassi. Adesso, invece, che mi si sono spalancati gli occhi della “conoscenza”, incrociandola, sentirò qualche bambino innocente, lì attorno, come nella favola di Andersen, gridare: “il Possa è nudo”.  E dopo l’incantesimo spezzato, come potrò non immaginarmi l'autrice che penserà: “O quanta species cerebrum non habet” (Oh quanta apparenza non ha cervello).

Non ce la posso fare!!!

https://pqlascintilla.wordpress.com/2021/07/27/mauro-polli-puer-pelosus/

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