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Francesca Rossi: “O come Ossolani”

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Dal 4 al 7 settembre si svolgerà la mostra fotografica, “O come Ossolani” di Francesca Rossi, al Chioschetto del Parchetto di Villadossola (orario: 15-21, ingresso libero). L’inaugurazione si terrà il 4 settembre a partire dalle 17.30, presentata da Giuseppe Possa, con visita alle opere esposte ed esplicazione delle istantanee da parte dell’autrice; letture di poesie in dialetto a cura di Rosanna Ramoni di Villette, che reciterà, oltre a una propria poesia, alcune liriche del Torototela e del Tami, accompagnate dalla musica del fisarmonicista Gabriele Viscardi, che proseguirà poi suonando diverse canzoni popolari. Sarà un piacevole e interessante momento culturale, coi protagonisti vestiti nei costumi del passato dei rispettivi paesi e con la presenza di alcune donne del Gruppo Arsciol di Vagna con Assunta Vescio e dell'accademia dei Runditt di Malesco con Laura Minacci.

Chi è Francesca Rossi? E’ lei stessa a presentarsi: <<Sono nata nel segno del Sagittario nel 1992. Sono un’instancabile trottola giramondo, che ama le maschere di bellezza coreane, bere the nero nollente in Uzbekistan, girovagare tra le bancherelle dei mercati kazaki e cantare canzoni di Albano a bordo di una Lada scassata in Armenia. Nella mia breve vita ho avuto il privilegio e l’opportunità di visitare ben 54 Paesi, tra i quali Corea del Nord e Biellorussia. Non mi ritengo una fotografa professionista, ma amo la fotografia, perché è in grado di cristallizzare un momento, rendendolo duraturo nel tempo, senza bisogno di fronzoli, in un mondo che urla a gran voce, vomitando parole>>.

In questa esposizione, Francesca si sofferma su volti, espressioni, costumi del nostro territorio, facendo emergere quella percezione gioiosa che è alla base della gente di montagna, colta non solo negli aspetti tradizionali e umani, ma calandoli pure in un’atmosfera delicata e poetica.

Come suggerisce il titolo della mostra, i suoi scatti (non limitandomi a trattare quelli presenti in questa esposizione, ma anche quelli realizzati nei suoi numerosi viaggi) si potrebbero anche considerare nell’insieme un ampio reportage per immagini, che assume un’evidente forma narrativa. Il tutto scandito dalla descrizione di scene di vita nel loro evolversi in frammenti, in movimenti colti da vicino, “congelati” nel loro attimo e regalati a chi ha voglia di guardarli al di là di un risultato puramente tecnico. C’è in tutto questo la volontà di raccontare storie che non si limitano alla realizzazione di un servizio fotografico, ma che vanno oltre, fino a rivelare la componente artistica che vi è contenuta.

Questa suggestiva ricerca, su cui Francesca Rossi punta il suo obiettivo, comunica diverse sensazioni e ogni scatto si presta a una lettura, come in questa immagine, “Primavera”, ricca di fascino. Un’istantanea colta con naturalezza mentre una bambina in costume, dal delicato profilo, si disseta con serena spontaneità a una delle tante rustiche fontanelle, esistenti un tempo, neppure tanto lontano. Nell’inquadratura, i chiaroscuri sono elementi sapientemente sparsi, con le luci filtranti del sole che sembrano tremare nell’acqua appena smossa dalle labbra accostate della fanciulla. Una fotografia affascinante che pare custodire la stessa sensazione emozionale di un quadro impressionista.

Com’è nato questo progetto, Francesca.

<<E’ nato senza premeditazione, ma dal desiderio di far conoscere ai forestieri e riscoprire agli ossolani, la nostra bella valle, attraverso i suoi volti e le storie di vita collegate… Ho rivisto così il mio territorio con occhio più umano, convincendomi ancora di più che la scoperta di nuove terre e lidi da esplorare può cominciare a pochi chilometri di distanza dalla propria casa>>.

Elencaci, qualche soggetto.

<<Per questione di spazio in questa mostra, espongo solo trenta foto, per cui non sono riuscita a condensare tutte le “storie” raccolte, che spero di pubblicare in un prossimo libro. Attraverso gli sguardi, i volti, i gesti, i corpi e le azioni di persone comuni, ho, comunque, cercato di raccogliere, tra gli altri, alcuni temi che abbracciano il passato degli spazzacamini, le donne maleschesi che preparano i rundit, i Walser di Macugnaga e Formazza oppure quelle antronesi con l’arte del puncetto>>.

Francesca Rossi, ovviamente, rende il reale nel modo più fedele possibile cogliendone, nelle inquadrature, gli aspetti maggiormente significativi dal punto di vista “documentario”, ma anche da quello puramente emotivo. Predilige, tuttavia, spaziare in modo libero e senza schemi né temi precostituiti, finché all’improvviso una qualche fascinazione segna l’inizio di un’ispirazione o di un percorso più precisi. E’ magari frequentando cerimonie o feste tradizionali, che può essere sorto in lei il desiderio di cogliere la vita contadina di un tempo coi suoi mestieri e il vissuto della quotidianità dei nostri avi, per invitare a riflettere sull’esistenza faticosa di un tempo, espressa, però, con i volti di oggi.

Giuseppe Possa

Una poesia di Rosanna Ramoni che accompagna la fotografia “Gugnitt” di Francesca Rossi

Rosanna Ramoni dice di sé: <Sono orgogliosa delle mie radici che affondano in un mondo così speciale, ma mi piace conoscere e condividere altre realtà e altre culture>>. Di Villette (VB), classe 1968, sposata, due figlie, assistente di Direzione in una multinazionale svizzera, Rosanna ha uno spiccato talento per le lingue (ne conosce ben 5) e una passione per il dialetto del suo paese. Come poetessa, ha partecipato a diversi concorsi, ottenendo numerosi riconoscimenti, e vincendo i premi “Armando Tami” di Villadossola e il “Testore-Martini: salviamo la montagna” di Toceno. Da otto anni è la “voce” che commenta la sfilata del Raduno Internazionale degli Spazzacamini in Valle Vigezzo. Per 3 mandati ha ricoperto la carica di Vicesindaco del suo paese e attualmente è Consigliera Comunale.

GUGNITT

Cavii sgrazei cun la vartesa,

i trecc tirà cume spaai,

e la gala du scusal da scola tuta ciciaa,

magari gnucc sui libar

ma spiirt cume quuii grenc

a faas fora i su busch!

Chirius cume berul,

sempar scuuz a sautà dan balm a l’aut

cume camus,

magari cun in ciuirun at fen su la goba!

Fuurb cume la vulp a ampiniis la buca

at ceres o basagnuii e fraiala via cun la

mania par mia faas nacorg

ul misun e i ginucc sempar gibilei cume

in San Bartulamé a füria da

sbarlanciaas su ina quai rama o da fa

cavariooi sui mucc dul fen….

Gugnitt augnuui grenc a pan negar e

crust at pulenta e par cumpanadi anca

ina quai pasciaa,

Gugnitt, ad in mund ca n’ié pu!

 Rosanna Ramoni

Traduzione letterale di "Bambini": <<Capelli ben pettinati con la riga. Trecce tirate come spallacci ed il fiocco del grembiule tutto succhiato. Forse un po’ duri di comprendonio, ma esperti come adulti nel risolvere le proprie difficoltà. Curiosi come donnole; sempre scalzi a saltare da un pendio all’altro come camosci e magari con un gerlone di fieno in spalla. Furbi come la volpe a riempirsi la bocca di ciliegie o fragole e a pulirsela con la manica per non farsi scoprire. Il muso e le ginocchia sempre scorticati come un San Bartolomeo, a furia di dondolarsi sui rami o fare capriole tra i mucchi di fieno. Bambini cresciuti a pane nero e croste di polenta e per companatico anche qualche scarpata. Bambini di un mondo che non c’è piu’!>> (Rosanna Ramoni).

Gabriele Viscardi, fisarmonicista di S. Maria Maggiore, classe 1990, impiegato di professione, amante instancabile delle tradizioni, della musica da balera e di tutto quello che riguarda lo stile e il modo di vivere di un tempo. Di sé dice: <<Amo ascoltare le vecchie storie, i racconti del nonno e degli anziani del paese; le loro storie suscitano in me emozioni e curiosità su come si viveva “una volta”. Adoro girovagare per le montagne, fare escursioni in bicicletta e ho un debole per la fotografia, soprattutto per quella su pellicola in bianco e nero>>.  A 23 anni ha voluto imparare a suonare la fisarmonica, grazie ad un amico e poi successivamente prendendo alcune lezioni di base da un maestro e sorridendo prosegue: <<Così da poter “strimpellare” qualche canzone popolare con gli amici, un po' come si faceva una volta all’interno delle osterie o nelle piazze del paese; fare allegria insomma...tra la gente. La fisarmonica per me è uno strumento musicale unico, che oltre a divertire, suscita ricordi, emozioni; riesce ad entrare nel cuore e nel morale della gente>>. Fa parte da qualche anno del gruppo folkloristico della Valle Vigezzo, con l’intento di non perdere, ma di vivere in prima persona, le emozioni e le tradizioni che caratterizzavano la gente di un tempo.

 

 

una sintesi l'ho pubblicata anche su Eco Risveglio Ossolano (g.p.) - a lato il parchetto e i gestori


Intervista a Salvo Iacopino (a cura di Giuseppe Possa)

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Salvo Iacopino articola il suo discorso poetico intriso di riflessioni raffinate e sorvegliate da risonanze universali, che è venuto maturando nel corso degli anni. In esse, la ricerca semantica e linguistica si dispiega in strutture limpide e appropriate, intense e sofferte; le parole, le aggettivazioni, sempre forbite, il ritmo sinuoso e musicale, rendono più corposo lo spessore dei suoi versi, i quali scaturiscono da cadenze della nostra migliore tradizione, da percorsi dell’inconscio o da pause del silenzio, che coinvolgono la partecipazione emozionale del lettore.  Infatti, la sua poesia irradia sentimenti e trepidazioni nel percepire la vita, là dove pulsa in profondità. Ne consegue un messaggio convincente nella sua umanità e la componente meditativa contiene la dimensione lirica, le ragioni del cuore, una speranza cosmica e un pathos umano di fronte alla caducità dell’esistenza.

Per conoscerlo nel profondo, sia come poeta, sia come intellettuale, gli ho proposto una serie di domande, le cui risposte ce lo rendono in tutte le sue qualità liriche ed emotive (Testi sulla vita e sulle opere di Salvo Iacopino si possono trovare consultando i link posti alla fine dell’intervista).

Innanzitutto, cos’è la poesia?

Io non credo si possa definire razionalmente la poesia. Certo, si può tentare di coglierne e descriverne alcuni aspetti, come ad es. la sua differenza dalla prosa, ma non la si può definire nella sua essenza. Essa è un fatto dello spirito più che dell’intelletto. Ha in sé un qualcosa di misterioso e il mistero, ovviamente, è indefinibile. Del resto, la rivoluzione del Novecento (penso in particolare alla grande libertà metrica, che ha affrancato la poesia dalle strutture chiuse e dalle esigenze di rima, strofa, ecc., aprendo ai versi liberi) ha evidentemente aumentato la difficoltà di definirla. Naturalmente, l’impossibilità di una definizione rigorosa non giustifica l’adozione di luoghi comuni, come quello per cui <<tutto è poesia>>, come quando chiamiamo poetica un’immagine, un tramonto, un’espressione sentimentale, dimostrando in tal modo di confondere la poesia con la generica categoria del “poetico”. Allo stesso modo, non si può definire poeta chiunque provi ed esprima emozioni o sentimenti profondi, caratteristica, questa, che evidentemente attiene ad ogni uomo (ogni uomo, infatti, prova sensazioni, emozioni, sentimenti, ecc.). Poeta è colui che non soltanto “sente” (sia pure, spesso, con una sensibilità particolare), ma che riesce a tradurre efficacemente in immagini e parole quegli impulsi, quelle sensazioni. In un certo senso, la poesia è una sfida alla indicibilità del sentimento. Di per sé, infatti, il sentimento è incomunicabile: noi non trasferiamo agli altri i nostri stati d’animo (la nostra gioia, il nostro dolore), ma soltanto parole. Ecco, la poesia può forse aiutare a superare, in parte, l’indicibilità del sentimento. Ma, attenzione: non si tratta semplicemente di comunicare i propri sentimenti. Poeta è colui che riesce ad andare oltre la propria biografia, per arrivare a quel sostrato comune dell’animo umano, grazie al quale il lettore, leggendolo ci si ritrovi, trovi cioè se stesso in quei versi.

Ma tu perché scrivi poesie? Cos’è per te la poesia?

Per me la poesia è un mezzo per lasciare che emerga e che trovi una qualche forma quel magma di emozioni e sentimenti che si agita nella mia più profonda intimità. Quindi, scrivo poesia per dare sfogo a quella necessità comunicativa sentimentale che a volte sento dentro di me. Mi viene in mente, a proposito di questa tua domanda, il commento del professor John Keating (Robin Williams) nel film "L'attimo fuggente": <<Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore…, sono queste le cose che ci tengono in vita>>.

Parlaci del tuo incontro con la poesia a scuola e di com’è nata dentro di te.

Beh, a scuola non credo di averla incontrata, se non distrattamente. Il mio amore per la poesia non è nato tra i banchi di scuola. E in verità, credo che raramente ciò accada a qualcuno, malgrado la professionalità, la passione e l’impegno degli insegnanti. I programmi scolastici e l’impostazione delle antologie sembrano fatti apposta per allontanare gli studenti dalla poesia. Nelle Antologie scolastiche troviamo sempre i soliti pochi autori, dei quali si propongono sempre le stesse tre o quattro poesie, e spesso pure le più difficili. Da parte loro, i programmi scolastici affogano la poesia all’interno di uno studio tecnico e storicistico della letteratura, utile forse a formare degli esperti di storia della letteratura, non certo a creare degli amanti della poesia. Proprio per il loro impianto storicistico, infatti, i programmi sono impostati su una lunga sequenza di nomi, biografie, movimenti letterari, opere, scuole di pensiero, ecc. A volte, la singola poesia sembra soltanto funzionale a conoscere la biografia dell’autore. Ma secondo te, l’alunno si appassiona alla poesia e si apre alla possibilità dell’esperienza estetica leggendo “Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia” o studiando la biografia e il mondo culturale di Leopardi? Certo, a scuola si studiano anche i versi de “Il canto notturno….”, ma solitamente lo si fa dopo aver studiato il contesto storico, la vita dell’autore, il mondo culturale di appartenenza, la sua vicinanza o meno ad una determinata scuola poetica, ecc.; e quando finalmente si arriva alla poesia, eccola ingabbiata in schemi, esercizi, analisi del testo, studio delle figure retoriche… Una tale mole di informazioni che rischia di provocare nei ragazzi noia e rigetto. Certo, anche la conoscenza tecnica è importante, ma un alunno dovrebbe leggere la tale lirica di Montale per godere delle immagini e della forza che sprigiona da essa, non per apprendere la tecnica del correlativo oggettivo. Per questo, ci sarà tempo!  Insomma, come per la biografia e per il contesto storico-culturale dell’autore, fatte salve le necessarie nozioni essenziali, anche l’insegnamento dell’aspetto tecnico-formale delle poesie sarebbe meglio, secondo me, che fosse demandato ad un secondo momento: quello nel quale si andrà a studiare in maniera appunto tecnica e approfondita, la storia della letteratura. La poesia invece andrebbe sperimentata liberamente in aula, letta e fatta leggere, soltanto per goderne esteticamente. Tornando, comunque alla tua domanda, non saprei dire come sia nata questa passione dentro di me: <<Accadde in quell'età... La poesia/ venne a cercarmi. Non so da dove/ sia uscita, da inverno o fiume./ Non so come né quando,/ no, non erano voci, non erano…/ parole né silenzio,/ ma da una strada mi chiamava,/ dai rami della notte...>> sono i primi versi di una bellissima lirica di Pablo Neruda, che credo esprima bene questo affiorare inaspettato ed enigmatico della poesia dall’interno dell’anima.

Da dove ha origine la tua poesia? Si lega più al passato o al presente? Ha uno sguardo al futuro?

Credo si leghi soprattutto alla memoria. Ma non nel senso della celebrazione nostalgica di un passato che non c’è più. È una memoria di ieri che interagisce con l’oggi, una memoria del passato che esercita una funzione trasformatrice sulla percezione del presente e sull’immaginazione del futuro, risultando essa stessa ridefinita da queste. Del resto, cosa sono passato, presente e futuro? Il tempo della coscienza è uno e indivisibile. Ogni momento abbraccia e include tutti gli altri.  Così, in un certo senso, il tempo non “passa”, non si muove, non scorre da nessuna parte: sono io che mi muovo nel tempo, chiamando ieri il movimento del ricordo e domani quello del sogno o desiderio. Ciò che giace nell’animo è senza tempo. E senza tempo è la poesia.

Tu utilizzi rime, assonanze, versi metrici ecc. Perché questa preferenza?

Innanzitutto io ritengo che anche per chi voglia scrivere in versi liberi, la consapevolezza metrica (relativamente almeno al computo delle sillabe, agli incontri di vocali, al ritmo, all’andamento dei versi, ecc.) sia un punto di partenza imprescindibile. Nella poesia contemporanea il verso sembra essersi ridotto ad un semplice fatto grafico: sembra cioè che basti spezzare la frase andando a capo ogni tanto per avere dei versi, laddove invece nella poesia classica, il verso è costituito da un numero ben definito di sillabe, raggruppate oltre che a livello grafico, a livello metrico, ritmico e sintattico. Naturalmente, non sto dicendo che si debba scrivere in metro, ma che, anche solo per andare oltre la scrittura in metro, anche solo per superarla, occorra prima conoscerla. Altrettanto necessaria – e non solo, questa volta, in termini di consapevolezza – è l’eufonia del verso, la musicalità della poesia, la quale dipende, oltre che dal suono delle singole parole, anche dalla loro disposizione, dalle rime, dal ritmo, dalle assonanze, allitterazioni, ecc. Il suono delle parole, inoltre, andrebbe scelto anche in funzione del clima e dello stato d’animo che si vuole creare (la grandezza di un Pascoli o di un D’Annunzio, è anche quella di riuscire, attraverso, appunto, il suono delle parole, ad indirizzare i lettori verso uno stato d’animo allegro piuttosto che triste, agitato piuttosto che sereno, ecc.). Nel mio piccolo, cerco di essere molto attento alla forma: scrivo in versi sciolti, prevalentemente endecasillabi e settenari, cercando di prestare la dovuta cura alla musicalità del verso. Naturalmente, la poesia non è soltanto una questione estetica. L’aspetto formale è imprescindibile, ma pur sempre strumentale: alla fine, quel che conta è il contenuto. Sicché, in definitiva, il mio tentativo è di tenere insieme forma e contenuto, tentare cioè di raggiungere un buon equilibrio tra l’aspetto formale e quello contenutistico della poesia.

Quando scrivi versi pensi a un lettore particolare?

Tranne che per quelle poesie che hanno un preciso destinatario, direi di no: non penso ad un lettore particolare. Ma ciò non significa che io scriva prescindendo dal lettore. Tutt’altro: la figura del lettore, sia pure di un generico lettore, mi è sempre presente, anche perché la poesia deve parlare al lettore e del lettore. Anche nella poesia cosiddetta lirica, infatti, il testo non può riguardare esclusivamente l’io, colui cioè che parla in prima persona, ma deve dare al lettore la possibilità di identificazione e di condivisione. La suggestione emotiva del testo deriva appunto dal fatto che esso esprime qualcosa che anche il lettore ha provato o potrebbe provare. Del resto, per quanto mi riguarda, è proprio l’attenzione al lettore che mi spinge a pormi spesso il problema della comprensibilità del linguaggio.

A proposito di comprensibilità, cosa pensi dell’oscurità di certa poesia?

Solitamente, un certo grado di oscurità nella poesia è un fatto intenzionale, che serve a preservarne il mistero, a darle un’atmosfera indefinita e incerta, che la rende più affascinante. Se una poesia si capisce troppo, se è eccessivamente chiara, infatti, perde di fascino. Allo stesso modo però, una poesia troppo oscura, una poesia di cui non capisco nulla, perché, ad es., a livello lessicale e sintattico è poco accessibile, è una poesia che perde ai miei occhi ogni interesse. Occorre trovare il giusto equilibrio. Naturalmente, bisogna distinguere: una cosa è l’oscurità, lessicale o sintattica, altra cosa è la difficoltà di concetto. La mia critica, naturalmente, è rivolta alla prima. Per quanto mi riguarda, io cerco di fare (ma ovviamente non è detto che ci riesca) una poesia anche concettualmente profonda, dal significato magari un po’ ambiguo e indeterminato, che però non sia mai troppo oscura lessicalmente; una poesia la cui parola sia chiara, aderente agli oggetti, e però capace di trasmettere visioni, di portare con sé schegge di un senso ulteriore. Il fascino dei versi, secondo me, risiede appunto nella loro natura polifonica, nella stratificazione semantica, piuttosto che in un alone di oscurità, magari artificiosamente ricercato.

In che modo andrebbero lette e interpretate le poesie?

Intanto, ci sono poesie che non richiedono di essere interpretate, perché non vogliono comunicare un concetto, ma semplicemente evocare un sentimento, un’immagine. Spesso il testo poetico opera una comunicazione emotiva, subliminale, che giunge al cuore senza passare per l’intelletto. Ma anche laddove l’interpretazione si ponga, dobbiamo tener presente che la poesia non è un enigma, che chiede di essere risolto; è un testo aperto, contenente significati diversi, domande che possono avere più di una risposta. Non c’è una soluzione interpretativa. Le interpretazioni di un lettore o le spiegazioni di un acuto critico letterario, non chiudono il discorso una volta per tutte, perché raramente il significato della poesia è univoco. Sicché, la mia lettura di una data poesia, anche quando non sarà migliore della tua, potrà sempre essere diversa.

Quali sono i poeti che ti hanno formato e che più hanno influito su di te? Quali sono stati i tuoi modelli o maestri poetici? Quali gli autori preferiti?

Non so se si possa parlare di veri e propri modelli o maestri. Di sicuro anch’io, come chiunque altro, ho i miei poeti preferiti. Pur leggendo, a partire dai Lirici greci, un po’ di tutto, la mia conoscenza dei grandi Classici è piuttosto superficiale: la poesia che meglio conosco è quella italiana dell’Otto-Novecento, da Leopardi a Pasolini, passando per Pascoli, Ungaretti, Montale, Quasimodo, fino ai poeti della generazione di Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, ecc. Amo, in particolare, leggere gli autori del primo Novecento, quelli che ruotavano intorno alla Rivista la Voce, soprattutto Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora e Dino Campana. Ho una conoscenza invece poco profonda degli autori post-sessantottini, come Fortini, Giudici, Raboni. Se, però, devo rispondere puntualmente alla tua domanda sui miei poeti preferiti, dovendone per forza scegliere soltanto un paio, direi: Leopardi e Montale. Tra i miei testi preferiti invece: Pianissimo di Camillo Sbarbaro e gli Ossi di Seppia di Montale.

Che significa essere poeta oggi? Si può parlare di crisi della poesia?

La figura del poeta si è oggi profondamente ridotta in termini di rilievo sociale. Da molto tempo ormai (almeno, direi, dalla scomparsa di Giosuè Carducci) è stata definitivamente superata la concezione del poeta vate, del poeta di alta e nobile ispirazione morale e civile, considerato un maestro, quasi una guida spirituale. Così, si è tornati (e forse era ben ora!) a considerare i poeti niente altro che dei cantori dell’animo umano, degli uomini che sanno leggere e scrutare, a volte con una sensibilità accentuata e particolare, il mondo esterno e il proprio mondo interiore, traducendolo in parole e immagini capaci di coinvolgere ed emozionare il lettore. Analogamente alla perdita di rilievo della figura sociale del poeta, c’è una concomitante perdita di importanza della poesia. La sua crisi è oggi evidente soprattutto dal punto di vista editoriale: basta fare un giro tra gli scaffali di una libreria per rendersi conto di quanto poco spazio e quanta poca promozione sia destinata alla poesia, e ciò, in linea con lo scarso interesse dei principali marchi editoriali. Naturalmente, il disinteresse dell’editoria può essere visto sia come concausa della crisi che come conseguenza inevitabile di un mercato che dimostra di non amare più tanto la poesia (personalmente, protendo per la prima chiave di lettura).

Oggi, però, anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, sembra esserci un ritorno alla poesia. Ma è vera poesia?

Indubbiamente i nuovi mezzi di comunicazione agevolano la trasmissione e la diffusione della poesia. Grazie ai Siti Web, ai Blog e soprattutto ai Social Network, sembra che la poesia stia conoscendo una nuova fase di diffusione. Ma come si fa a dire se si tratti di vera poesia? Sicuramente, insieme a tanti versi di buon livello, circola anche molto materiale mediocre, quando non addirittura scadente. Ma chi lo può giudicare? Si può sottoporre una poesia ad un giudizio di valore basato su criteri, diciamo così, “oggettivi”? Il fatto è che nel momento in cui si è rotto con i canoni della tradizione (e non mi riferisco solo all’introduzione del verso libero), ogni espressione poetica in versi appare legittima quanto l’altra. Del resto, a meno di voler tornare alla storica contrapposizione tra oggettività e soggettività dell’opera d’arte, io credo che anche nella poesia, come in altre forme dell’espressione artistica, dobbiamo riconoscere che ogni giudizio è per definizione soggettivo: l’esperienza estetica del fruitore dell’opera discende dall’oggetto artistico in maniera alquanto misteriosa e oscura.

Che valore può avere la poesia per la società? E cosa pensi della cosiddetta poesia sociale?

Seppure possa avere importanti funzioni, come ad es., aiutare a prendere coscienza di qualcosa, consolare, denunciare un certo disagio, dilettare, ecc., il nostro mondo non sembra riconoscere alla poesia un particolare “valore sociale”, tendendo piuttosto a considerarla qualcosa di inutile. Quanto alla poesia sociale, se intendi con tale espressione la poesia di denuncia sociale, beh, essa è sempre esistita nel corso dei secoli: dall’antichità, passando per il medioevo e l’età moderna, fino all’epoca contemporanea (si pensi solamente, per restare vicino a noi, a certa poesia di Ungaretti o di Pasolini, ad esempio). In senso però più allargato e generale, poiché ogni fatto è un fatto sociale se rispecchia i sentimenti della società che la esprime, possiamo dire che tutta la poesia è poesia sociale. Di qualunque cosa essa parli, di dolore, d’amore, di natura, nel momento in cui viene letta e condivisa da un gruppo significativo di persone, è di per sé stessa poesia sociale.

Lasciamo da parte un attimo la poesia. Parliamo del tuo incontro e della tua partecipazione alla politica. La tua vita pubblica, insomma.

La mia partecipazione “politica” in senso lato inizia nell’ambito delle Associazioni e dei Movimenti, per poi approdare all’interno di un Partito politico, del quale sono stato per breve tempo Coordinatore provinciale, prima di dimettermi perché chiamato nel frattempo ad assumere il ruolo di Assessore nella mia Città, Domodossola. Ho svolto con passione e impegno questo ruolo, di cui mi sento onorato, dal 2011 al 2016, cercando di essere sempre disponibile e aperto al dialogo con tutti. Finita l’esperienza amministrativa, mi sono allontanato dalla politica militante, tornando a coltivare le mie passioni, tra le quali appunto, la poesia.

Tu non sei ossolano di nascita. Quando e come sei arrivato in Ossola?

Io sono nato e cresciuto in Calabria. L’Ossola e il Novarese però mi erano in qualche modo noti fin da ragazzo per via dei tanti parenti e conoscenti che vi erano emigrati. E sebbene con in spalla un moderno zainetto anziché la valigia di cartone, io stesso sono emigrato al Nord, come prima di me aveva fatto mio padre e mio nonno prima di lui (solo che nel mio caso non si è trattato di una emigrazione stagionale!). Ho lasciato la mia terra d’origine appena concluse le scuole superiori, e dopo qualche anno vissuto in giro per l’Italia, mi sono stabilito in Ossola. Qui ho completato gli studi (all’Università Statale di Milano), mi sono sposato e creato una famiglia, e qui continuo a vivere questa vita, che ha di fatto una sorta di doppia Cittadinanza: quella ricevuta per nascita dalla mia amata terra d’origine e quella acquisita per adozione dall’altrettanto amata terra in cui vivo.

Hai fatto una ricerca approfondita sulle origini del tuo passato: ce ne vuoi parlare?

Ho sempre avuto grande interesse per la famiglia. Non mi riferisco al solo nucleo familiare, ma alla famiglia in un’accezione allargata, sia in termini di grado parentale che di antenati e discendenti. Da bambino amavo farmi raccontare storie e aneddoti sui miei familiari, anche su quelli che non avevo potuto conoscere, perché morti da tempo, o su parenti di grado lontano, che non avevo mai incontrato.  Così, è stato abbastanza naturale che il mio amore per la famiglia si trasformasse prima in interesse per la genealogia ossia per la ricostruzione delle origini familiari e dei legami di parentela, poi in amore per la storia familiare. Faccio questa distinzione perché la storia familiare è molto di più della genealogia intesa come semplice raccolta di nomi e date riguardanti i propri antenati. Ho lavorato forsennatamente per circa sei anni, prima acquisendo informazioni dalla memoria di famiglia, poi intraprendendo affannose ricerche nei Registri parrocchiali, negli Archivi di Stato, in quelli dello Stato civile, ecc., a caccia di certificati di nascita, morte, matrimonio, di atti notarili, di mappe catastali, ecc. È stato un lavoro faticoso, ma estremamente affascinante, che mi ha pure obbligato a cimentarmi con nozioni (che non avevo) relative al diritto di famiglia, alla onomastica, all’archivistica, ecc. Alla ricerca dei documenti ha fatto seguito la meticolosa elaborazione dei dati e la costruzione delle diverse linee di ascendenza. Il risultato però non è stato la semplice stesura di un albero genealogico, ma la scrittura di una vera e propria storia di famiglia, dalla seconda metà del Settecento ad oggi. Una storia, ricca di aneddoti ed esperienze personali, di informazioni sul grado di istruzione e sui mestieri praticati dai miei antenati, sugli arruolamenti in guerra, le esperienze di emigrazione, insieme a tante notizie sulla vita del Paese. Di questa Storia della famiglia Iacopino di Palizzi, pubblico di tanto in tanto qualcosa, ma solo i dati essenziali, sul mio sito web (http://salvatoreiacopino.it). Indagare le origini della mia famiglia, scoprire dove e come sono vissuti i miei antenati, conoscere le loro storie personali e tanti dettagli delle loro vite, è stata un’esperienza affascinante, che ha arricchito la conoscenza di me stesso.  Eh già, andare a ritroso attraverso i genitori, i nonni, i bisnonni, i trisavoli, per trovare, infine, me stesso: perché quella storia è la mia storia distesa nel tempo, è la mia storia colta nella sua evoluzione attraverso le generazioni e i secoli.

Quali sono i tuoi rapporti con l’Ossola? A quali suoi aspetti sei più legato?

Amo questa Terra, mia patria di adozione, anche per il suo patrimonio storico e culturale. Naturalmente, ciò che più mi coinvolge e che meglio conosco è la mia Città, Domodossola, la cui storia recentemente è stata in parte riscritta dallo storico Enrico Rizzi, che ne ha post-datato l’origine, facendola risalire agli anni intorno al Mille, come progressiva aggregazione attorno alla Domus Episcopi, alla Chiesa di San Protasio e al Mercato (“Storia dell’Ossola”, Edizioni Grossi, 2014). In realtà, il lavoro di Rizzi ha operato una radicale revisione della storia antica dell’intera Ossola, demolendo una serie di radicate convinzioni, come il riferimento storico all’«Oscella dei Leponzi» (sarebbe, infatti, «Oxila» il riferimento etimologico esatto), la presunta «Provincia romana dell’Ossola» (che non sarebbe mai esistita), ecc. Ciò, naturalmente, nulla toglie alla ricchezza storico-culturale dell’Ossola, che non è solo una ricchezza antica: si pensi, per venire ai giorni nostri, all’eccezionale ed unica esperienza della cosiddetta Repubblica partigiana dell’Ossola, grande motivo d’orgoglio per questa terra, come motivo d’orgoglio è l’aver avuto tantissimi personaggi illustri: penso, per stare nell’ambito letterario contemporaneo, a uomini come Antonio Rosmini, Clemente Rebora e Gianfranco Contini, oppure, andando su altri ambiti, a persone come il conte Giacomo Mellerio, Giuseppe Chiovenda, ecc. Come si fa a non amare una Terra storicamente e culturalmente così ricca?

Racconta la tua partecipazione al volontariato, alla vita di Domodossola.

L’Ossola è una terra molto attiva nel mondo del Volontariato. Ci sono tantissimi Gruppi e Associazioni che operano nei vari campi del Terzo Settore. Il mio coinvolgimento ha riguardato principalmente l’ambito delle politiche ambientali e della solidarietà. Anni fa ho contribuito alla nascita di alcuni gruppi di varia natura, ma l’impegno principale è stato nel mondo dell’assistenza e dell’accoglienza. A parte comunque il volontariato, alla vita di Domodossola ho potuto partecipare attivamente anche perché – come dicevo prima - ho avuto l’onore di far parte dell’Amministrazione della Città, in qualità di Assessore, per cinque anni.

Passando dal pubblico al privato, cosa pensi tu della vita, della morte?

La morte occupa costantemente i miei pensieri: è l’invisibile compagna che mi segue di continuo e con la quale ho un dialogo ininterrotto. Credo sia proprio l’interazione immaginaria con la morte ad influenzare la mia visione del mondo e l’interpretazione della mia stessa condizione esistenziale. Ma, attenzione, pensare la morte non vuol dire (almeno non necessariamente) assumere un atteggiamento lugubre, triste: pensare la morte significa, secondo me, pensare più autenticamente la vita. Vedi, in un certo senso, il concetto di morte non dovrebbe essere contrapposto a quello di vita: il contrario della morte dovrebbe, forse più correttamente, essere indicato nella nascita. Si nasce e si muore: sono questi i due estremi, questa è la vita! Nascita e morte fanno parte di essa. E se la morte fa parte della vita, pensare la morte significa porsi in modo più vero e autentico nei confronti della vita. Anzi, potremmo dire di più: la morte non solo fa parte della vita, essa in un certo senso è ciò che dà un senso alla vita.

Cosa intendi? Spiegati meglio!

Quando non la si concepisca religiosamente come ‘passaggio’ o inizio di una nuova vita, la morte non ha alcun senso: essa è il non-senso assoluto. Di conseguenza, anche la mia vita, proprio perché irrevocabilmente destinata ad essere annientata dalla morte e dissolversi nel nulla, non ha un senso, non scorre in nessuna direzione. Ogni cosa, infatti, ha un senso, una finalità, solo in quanto è inserita all’interno di qualcosa di più ampio.  Le azioni della nostra vita (come recarsi al lavoro, intraprendere un viaggio, ecc.) hanno un senso, una finalità, solo in quanto inserite all’interno della vita. Ma qual è il senso della vita presa nella sua interezza? Se essa non è inserita in un insieme più vasto (ed è ciò che avviene quando appunto si consideri la morte una scomparsa totale), allora è chiaro che questa mia vita non ha senso: questa mia apparizione nel mondo diventa una breve passeggiata senza capo né coda, senza senso. Ecco: il discorso sembrerebbe chiuso qui: la morte è il non-senso assoluto che, di conseguenza, toglie un senso alla mia vita, la rende insensata. Sennonché, la questione può essere inquadrata anche da un’altra angolazione, che porta ad un vero e proprio capovolgimento del significato. È facile, infatti, rendersi conto che, lungi dall’intaccarne la fiducia e impoverirla, è proprio l’assenza di senso a dare un senso alla vita. Con un’espressione un po’ curiosa, ma molto profonda, il filosofo francese Vladimir Jankélévitch esprimeva questo concetto affermando che la morte è il “non-senso che dà un senso negando questo senso”.  Se, infatti, a prima vista la presenza della morte toglie alla mia vita il suo senso, la sua direzione, proprio questo fa sì che essa mi appaia infinitamente preziosa. È proprio la morte cioè a dare un senso alla vita. Cosa sarebbe, infatti, la nostra esistenza senza la morte? Cos’è che rende unici un’emozione, un amore, un viaggio, un’amicizia, se non la loro precarietà, il loro essere effimeri? Capita, a volte, che trovandoci di fronte ad una piacevole esperienza ci sentiamo quasi aggrediti da un senso di malinconia; ciò, evidentemente, deriva dalla presa di coscienza che questa esperienza non dura, e proprio perché non dura, essa riveste per noi una bellezza eccezionale. Insomma: proprio perché trovano nella morte la loro radicale, insopprimibile negazione, le cose della vita acquistano ai nostri occhi grande bellezza e valore.

Resta il fatto però che la morte oggi è sempre più allontanata, nascosta, tanto da far parlare gli studiosi di vera e propria rimozione della morte.

Si, è vero. La civiltà moderna è andata via via rimuovendo dalle coscienze il pensiero della morte e di tutto ciò che più direttamente la riguarda. Ed è stata una rimozione non soltanto psicologica: con il XX secolo, il processo di allontanamento e occultamento della morte si è esasperato fino al bisogno di cancellarla anche visibilmente dalla realtà (pensiamo all’isolamento del morente in ospedale, alla contrazione dei riti funebri, al rifiuto del lutto e dei gesti che lo accompagnano, all’aumento della distanza (non soltanto simbolica, ma anche materiale) dai defunti. Tanto nel momento dell’agonia, quanto durante i funerali, le sepolture, ecc., la morte ha cessato di essere uno spettacolo familiare e in qualche modo solenne, riducendosi a fatto privato e quasi imbarazzante: dalla morte pubblica si è passati alla morte in solitudine dietro il “paravento”, in una fredda camera d’ospedale o in una anonima sala del commiato,  mentre tutto intorno la vita continua freneticamente nella più assoluta indifferenza (il Carro funebre si confonde nel traffico cittadino come un’auto fra le tante). Il tentativo di occultamento oggi è talmente forte che la morte non deve essere neppure “nominata”, e quando proprio non se ne può fare a meno, allora, si impone il ricorso - assieme agli eventuali scongiuri – all’uso di perifrasi e termini di gergo per evitare, appunto, di nominarla direttamente (così, oggi quel tale di cui parla il giornale, la televisione e persino il manifesto funebre, non è morto, ma ‘ci ha lasciato’, è ‘scomparso’, è ‘venuto a mancare,’ ecc.). La morte è il nuovo grande tabù delle società avanzate nell’epoca post-moderna. E l’uomo, per millenni padrone consapevole delle circostanze della sua morte, oggi muore, non soltanto in solitudine, ma pure senza rendersene conto, senza cioè che gli sia concesso di prendere coscienza della prossimità della sua fine, (si pensi alla difficoltà del medico nel “dire o non dire” la verità al malato terminale, oppure all’inganno dei parenti, che di fronte al congiunto morente, iniziano a recitare le consuete battute: “vedrai che non è niente!!”, “presto ti riprenderai e tornerai a casa!”, ecc.

Ma quali sono, secondo te, le cause di questo atteggiamento di silenzio nei confronti della morte?

Molti studiosi hanno tentato di indagare le cause di questo atteggiamento. La questione è lunga e complessa. Certamente, tra le caratteristiche della società contemporanea che influiscono sulla nostra rappresentazione della morte e sul nostro atteggiamento nei suoi confronti, vi è la maggiore distanza da essa. Se nei precedenti stadi di sviluppo della società la vista dei moribondi e dei morti era uno spettacolo pressoché quotidiano, oggi i nostri figli diventano grandi senza aver mai visto un morto “vero” (noi genitori, non soltanto parliamo raramente della morte con i nostri figli, ma se capita un lutto in famiglia, anziché portarli alla veglia o ai funerali, li mandiamo a casa di parenti o di amici). A questa distanza spaziale dalla morte si aggiunge la maggiore distanza temporale, grazie all’aumento della vita media, che fa si che un individuo possa allontanare il pensiero della propria morte per gran parte dell’esistenza. Ma a favorirne ancora di più la rimozione è forse la generale cultura e logica capitalistica di un mondo che privilegia la produttività e il consumo (è evidente quanto le tradizioni e usanze legate alla morte siano di impaccio e di ostacolo agli interessi della frenetica società moderna: si pensi al rallentamento delle attività durante le veglie e i funerali, all’astensione dal lavoro per le persone in lutto, ecc. Oggi non ci sono più le condizioni necessarie a culti e rituali comunitari. Le pratiche di un tempo, quali, cerimonie, grandi cortei funebri per le strade, commemorazione dei defunti, lunghi periodi di lutto, riti di passaggio, numerose visite ai cimiteri, ecc., sono diventate incompatibili con la vita moderna e destinate a sparire. Così, la crescente deritualizzazione e la progressiva desocializzazione della morte (che da esperienza collettiva è diventata esperienza individuale) hanno fornito una spinta decisa alla tendenza alla rimozione. E poi ci sono il pensiero positivista nei confronti della scienza e il progresso tecnico-scientifico della medicina moderna, che tendono a farci concepire la morte non più come un evento naturale, un limite intrinseco, quanto piuttosto come un ostacolo, come qualcosa che deve essere superato; e poiché, ovviamente, non la si supera, si fa come se non esistesse: la si estromette dalla vita quotidiana, non se ne parla. Del resto, in un contesto sociale e culturale dominato dai principi della bellezza, della salute e della vitalità, diventa quasi inevitabile rimuovere il pensiero della morte e tutto ciò che la riguarda.

Torniamo alla poesia. Che cosa occorre per diventare un poeta? O Meglio, si può diventare poeta?

Di cosa occorra per diventare poeta, non ne ho proprio idea (occorrerebbe eventualmente chiederlo ad un poeta). Di sicuro, non lo si diventa come si diventa elettricista o ragioniere ossia andando a scuola e imparandone il mestiere: ci vuole evidentemente una certa dose di talento naturale, bisogna cioè “esserci portati”. Dopodiché, però, come per l’atleta, il ballerino o il musicista, il talento da solo non basta: serve conoscenza, studio e tanto esercizio. Occorre conoscere la poesia precedente, studiarne le forme e le tecniche principali, fare molta pratica... Insomma, la poesia è un’arte e come tale richiede sia talento naturale sia tecnica ed esercizio. Del resto, è evidente che non basti provare delle emozioni per fare poesia né qualunque espressione di sentimenti può essere considerata di per sé poesia. Detto questo, trovo comunque positivo il fatto che se ne scriva. La grande quantità di versi che si trova in rete, ad es., anche se non sempre di grandissima qualità, mi fa ben sperare. 

Cosa bisognerebbe fare per appassionare alla poesia?

Beh, intanto, per far appassionare qualcuno alla poesia occorrerebbe cominciare ad offrirgliela sul serio. L’odierna presenza diffusa di versi in rete non è evidentemente sufficiente ai fini di una sua promozione. Un incremento dell’oggetto poesia nei programmi scolastici, unitamente all’adozione di un diverso approccio nel suo insegnamento, non guasterebbe affatto, e forse potrebbe aiutare a correggere i tanti giudizi stereotipati su di essa. Ma, soprattutto, servirebbe un cambio di passo nelle politiche editoriali relative alla poesia.

A tuo avviso perché siamo più un paese di poeti che di lettori?

È vero che oggi si legge poca poesia, come è vero, del resto, che se ne scrive molta, ma i due aspetti non sono connessi. Il fatto che se ne legga poca dipende da una molteplicità di fattori, non ultimo, secondo me, il suo scarso peso editoriale. Neppure la scuola, come dicevo prima, sembra aiutare molto nel promuovere l’oggetto poesia (mentre mi pare riesca meglio con la Narrativa e in genere con la Storia della Letteratura). Il fatto invece che si scriva molta poesia è probabilmente legato anche all’errata impressione di facilità. Chi non ha mai scritto in gioventù (soprattutto nel corso dell’adolescenza) dei versi o almeno delle frasi, assecondando quella naturale esigenza interiore di annotare esperienze, pensieri, sensazioni? Il che, naturalmente, è una cosa molto bella, anche perché quasi sempre fatta senza pretese letterarie.  Sennonché, capita che si sviluppi, in maniera a volte ingiustificata o comunque con eccessiva facilità, la presunzione di considerare il proprio diario poetico alla stregua di vera e propria poesia. Il fatto poi di vedere ogni anno moltissime persone pubblicare versi (anche se i grandi libri pubblicati sono davvero pochi), aumenta l’impressione di facilità. Anche la sua brevità può indurre a pensare che la poesia sia una cosa facile, laddove invece, come ben sappiamo, “breve” non è affatto sinonimo di facile: dietro una poesia breve c’è spesso una lunga esperienza interiore, c’è la conoscenza e lo studio degli autori del passato, c’è tanta pratica, ecc. In ogni caso, preferisco un paese di molti poeti per pochi lettori piuttosto che un paese di molti lettori di nessun poeta.

Tra i poeti di oggi, quali ritieni più significativi?

Confesso di non riuscire a seguire molto gli autori contemporanei. A maggior ragione, qualunque risposta in tal senso da parte mia sarebbe decisamente presuntuosa, oltre che impossibile non conoscendoli tutti. Posso solo dire che tra i contemporanei guardo con particolare interesse e ammirazione Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Valerio Magrelli e Patrizia Valduga. Ma ce ne sono, naturalmente, molti altri che meritano di esser letti, come Fabio Pusterla, Franco Loi, ecc.

Cos’è per te l’ispirazione?

Personalmente non amo il termine ispirazione: preferisco parlare piuttosto di intuizione, di spunto creativo, di occasione... E più che chiedersi cosa sia, ritengo interessante semmai chiedersi se codesta “ispirazione”, o come la si voglia chiamare, sia di origine sensuale o intellettuale, se sia cioè più legata al corpo o alla mente, consapevole che la risposta sarà diversa da poesia a poesia e da autore ad autore, oltre che non sempre possibile, vista l’interconnessione di spirito e materia. Per quanto mi riguarda, la poesia nasce sempre da un’urgenza comunicativa, da qualcosa di forte, come può essere un grande dolore, una gioia o un sentimento d’amore: sempre, però, da un sentimento intenso, da qualcosa che giace nell’animo e che preme per emergere. Naturalmente, “l’ispirazione” non esaurisce il processo creativo. Raramente, infatti, la poesia è frutto di un’ispirazione immediata! Certo c’è sempre il momento intuitivo iniziale (la voce della Musa), dopodiché però c’è tanto lavoro e tanta fatica. L’ispirazione, insomma, può dar luogo all’anima della poesia, la quale però, per darsi un corpo e una forma compiuti, necessita di tanto lavoro. E questo lavoro, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, non è qualcosa di incompatibile con l'ardente necessità dell'ispirazione, ma un suo necessario complemento.

Come intendi tu la poesia: contenuto, forma, linguaggio, tecnica ecc.

Io credo che cimentandosi con il cosiddetto “linguaggio poetico” occorra tener conto di alcuni elementi imprescindibili. Il primo è la consapevolezza della metrica (non dico, l’uso, oggi in gran parte superato, ma almeno la consapevolezza metrica, relativamente al computo delle sillabe, agli incontri di vocali, al ritmo, all’andamento dei versi, ecc.). A ciò si deve aggiungere l’attenzione all’eufonia ossia al suono delle singole parole, alle rime, alle assonanze, ecc.; sono il ritmo dei versi e i suoni delle parole, infatti, a determinare la musicalità della poesia. Non meno importante è poi la scelta appropriata delle immagini, l’uso di figure retoriche e l’attenzione al registro linguistico, con la scelta adeguata dei vocaboli e l’uso di concetti il più possibile “concentrati”. Per quanto mi riguarda, quando posso cerco di lavorare pure sulla valorizzazione del bianco tipografico, attraverso l’inserimento di “vuoti” o la disposizione dei versi a gradino (spesso, frutto dello spezzettamento dell’endecasillabo). Analogamente alla “punteggiatura nera”, infatti, anche la bianca può aiutare a rispondere alle esigenze di pausazione ritmica, sintattica o semantica oppure a segnare il movimento del pensiero. A scanso di equivoci, devo però precisare che, per quanto attenta alla forma e al linguaggio, la mia non è una poesia praticata come ricerca formale o linguistica. Io rifiuto ogni forma di sperimentalismo di tipo avanguardistico, preferendo una poetica dell’interiorità e della tensione metafisica; una poesia il cui fascino sia eventualmente dovuto ad una certa (si spera) profondità concettuale piuttosto che ad una artificiosità sintattica e lessicale. Del resto, la poesia non è mai una questione soltanto estetica: anche quella meglio realizzata sotto tutti i punti di vista “formali”, dovrà avere un contenuto, un messaggio: l’aspetto formale è imprescindibile, ma pur sempre strumentale: alla fine vale il contenuto, la cui l’importanza, però, è legata non soltanto al “cosa” si dice, ma anche a “come” lo si dice. Insomma, io intendo la poesia come un tutt’uno di forma e contenuto. Per me, cioè, è fondamentale unire insieme, in maniera strettamente connessa e interdipendente, l’una e l’altro, o perlomeno tentare di raggiungere un buon equilibrio fra di essi.

In ogni lirica che scrivi, tu sembri cercare sempre la perfezione, la bellezza, l’eccellenza di ogni verso. Parlacene.

Forse più che di aspirazione alla perfezione si tratta semplicemente della mia naturale e perenne insoddisfazione.

Fare poesia significa tradurre in messaggi significativi i propri sentimenti o la realtà esterna, ma la costruzione del verso non si esaurisce con l’espressione del contenuto ossia con il “che cosa” bensì con l’adeguatezza del “come”. Il verso per me non è finito nel momento in cui ha espresso quei sentimenti e quella realtà che intendevo esprimere: è importante che lo faccia nella forma migliore possibile, e che quella forma sia non soltanto valida di per sé, ma anche adeguata al contenuto. Così, può accadere che io ritorni più volte sulla forma di una poesia, non perché il ritmo, il suono delle parole, l’andamento dei versi, ecc., non mi piacciano, ma perché, magari, quel ritmo e quel suono mi appaiono poco coerenti con il clima e lo stato d’animo che volevo creare. In definitiva, ritengo che si dovrebbe lavorare sul testo come lo scultore con lo scalpello sul marmo: massima attenzione alla forma e sempre tenendo presente la strettissima connessione tra questa forma e il contenuto.

Cosa pensi della poesia in prosa?

Io credo che poesia e prosa siano due forme artistiche ben distinte e per certi versi contrapposte, per cui già la sola espressione “poesia in prosa" mi pare un ossimoro. E lo stesso vale per l’espressione “prosa in versi”. Dietro l’espressione “poesia in prosa" si nasconde il rischio di voler spacciare per poesia ciò che in realtà è semplicemente prosa: magari della buona, dell’ottima prosa, ricca di sentimento e musicalità poetica, ma pur sempre prosa. Allo stesso modo, è evidente che non basta andare a capo, utilizzare vocaboli poetici e uno stile lirico, per trasformare un brano di prosa in poesia. Certo non è facile, o almeno, non lo è per me, definire puntualmente in cosa consistano le differenze (che non riguardano evidentemente le regole metriche), ma le distanze tra poesia e prosa ci sono, eccome! Oggigiorno poi è ancora più difficile stabilire dove finisca l’una e dove inizi l’altra, dal momento che gran parte di quella che oggi chiamiamo poesia sembra collocarsi in realtà in una sorta di zona intermedia, una terra a metà strada tra le due, così da consentirci di parlare a volte indifferentemente di “poesia in prosa” o di “prosa poetica”. Naturalmente si può fare della buona “poesia prosastica” come pure dell’ottima “prosa poetica”. Personalmente, però, preferisco una poesia che non si confonda affatto con la prosa.

Come s’inquadra la poesia con le altre espressioni dell’arte oggi?

Io non vedo rigide barriere tra le arti. L’oggetto o contenuto poetico, sia esso emotivo, reale o fantastico, può essere “detto” con la parola, prodotto con i suoni, dipinto con il colore oppure cantato con la voce, ma in fondo ciò che cambia è solo lo strumento dell’espressione, della comunicazione: alla base, infatti, c’è sempre una certa facoltà del sentire e un forte impulso creativo. Forse fra tutte le arti, quella che vedo più vicina alla poesia è la musica: non soltanto per le origini storiche della poesia, che, come è noto, presso i Greci, veniva cantata con l’accompagnamento del suono della lira, ma anche e soprattutto per la musicalità interna della poesia, originata dalle rime, dalle assonanze, dalle allitterazioni e da tutte le altre figure fonetiche. La poesia è ritmo, suono, armonia, tanto da far dire a Montale che essa è “parole in musica” e a Fabrizio De Andrè che “la poesia è musica dell’anima”. Allo stesso modo che musica, la poesia è anche pittura poiché con l’immaginazione ci fa vedere le cose. E proprio la relazione tra le parole e la forza espressiva delle immagini rende ulteriormente evidente l’affinità tra le arti. Del resto, credo sia proprio per la intrinseca relazione tra parola, immagine e suono, che oggi stanno diventando sempre più diffuse e valorizzate le cosiddette video-poesie.

Gioie e dolori, delusioni della vita, hanno importanza nell’inizio di tutti i tuoi processi, ricerche, cicli poetici o sono espressione di momenti di transizione?

Hanno importanza, eccome! Ma questo, credo valga per chiunque svolga un‘attività artistica. In generale, il materiale di lavoro di un artista è dato dai sentimenti e dalle passioni, da lui opportunamente elaborati e trasformati, i quali dipendono appunto dalle esperienze personali, dalle gioie, dai dolori, dalle delusioni della vita. E sono soprattutto le esperienze forti (positive o negative che siano) ad innescare il processo creativo e a far sì che l’esperienza artistica diventi parte integrante della vita di un autore. Non credo, infatti, che nell’Artista si possano separare l’uomo che soffre e gioisce dalla mente che crea.

C’è un filo conduttore in tutto quello che fai? A cosa tendi? Pensi di aver raggiunto i tuoi obiettivi o ti manca qualcosa?

Io sono per natura piuttosto volubile: mi appassiono alle cose con un’intensità pari alla velocità con la quale riesco a cambiare oggetto di interesse. Quindi, no, direi di no: non c’è un filo conduttore in quello che faccio né un obiettivo preciso cui tendo. Ciò non vuol dire, naturalmente, che mi senta appagato e che non mi manchi niente. Del resto, se anche mi trovassi a fare ciò che più amo fare, ad avere ciò che più avrei voluto avere o a dare ciò che più mi sarebbe piaciuto dare, ugualmente, credo, non mi sentirei realizzato. La mia natura, come credo quella di ogni uomo, è essenzialmente desiderio; quindi, il sentimento di mancanza, di privazione (che sono l’essenza profonda del desiderio, come già insegnava Platone nel Simposio) saranno sempre presenti nella mia vita.

Ma concretamente, cosa stai pensando di realizzare in futuro? Quali sono i tuoi futuri progetti?

Solitamente, più che programmare e progettare lavori per il futuro, aspetto di vedere cosa il futuro mi propone, sapendo che molto probabilmente lo asseconderò. Ma forse dovrei decidermi a riprendere in mano e completare qualcuno dei tanti lavori iniziati negli anni: penso, ad es., a quella Ricerca sulla storia, la cultura e le tradizioni popolari della Calabria antica, scritta molti anni fa, e di cui conservo non so dove solo una copia cartacea; oppure a quella corposa indagine genealogica, da cui è derivato un possibile libro sulla Storia della mia famiglia; o, ancora, a quel Saggio di tanatologia che avrei voluto completare, come prosecuzione e approfondimento della mia Tesi di Laurea “La morte e il morire nella civiltà tecnologica”. Stando invece all’ambito della poesia, mi piacerebbe realizzare una sorta di cofanetto, che affianchi alla versione cartacea delle mie poesie, parole recitate, musiche originali di accompagnamento, immagini e video montati ad arte, ecc. Qualcosa di più di un progetto di video poesia.

Cosa consiglieresti a un giovane che volesse coltivare la poesia?

Beh, intanto di leggerne molta, meglio se in lingua originale, di scrivere, quando ha voglia di farlo (senza, però, farsi prendere dall’ansia di doverlo fare), ma soprattutto di non pensare di poterlo fare ignorando la tradizione poetica: non si può pretendere di scrivere senza aver mai letto. Se già “comprendere” e apprezzare un testo poetico non è sempre un’operazione facile e immediata, figuriamoci scrivere! Da una parte c’è qualcosa dentro l’anima (qualcosa originato dalle emozioni o dall’esperienza o dal pensiero) che preme per uscire, che reclama cioè la sua espressione, dall’altra c’è la poesia finalmente scritta su un foglio. Ora, il passaggio da una fase all’altra non è automatico: in mezzo c’è tanto lavoro di trasformazione, che richiede pratica e competenza. E queste si acquisiscono attraverso la lettura, soprattutto dei Classici, ma non solo.

A proposito di giovani, come ti pare che rispondano agli stimoli culturali i giovani d’oggi?

Solitamente noi parliamo di “giovani” come se si trattasse di una realtà univoca e ben definita, laddove invece mi pare si tratti di un’entità sfocata e spezzettata (i giovani di 17-20 anni sono già diversi da quelli di 13-15, e ancora diversi da quelli di 22-25), ma soprattutto abbiamo a che fare con un’entità in rapida e continua trasformazione, che sfugge ad ogni facile generalizzazione. Si dice spesso che i giovani di oggi non amino la cultura perché leggono poco o perché evitano le opere di un certo impegno, preferendo gli sms e le pagine web alle pagine di approfondimento dei libri, ma io mi chiedo: le cose stanno davvero così? Si sostiene che i giovani sono ormai abituati ad usare soltanto i social network come forma di interazione e di informazione. In questo, evidentemente, c’è del vero: è probabilmente vero, infatti, che la maggioranza di essi privilegi i canali informativi web e social, ma ce ne sono anche tanti altri che affiancano a questi canali quelli dell’offerta culturale più tradizionale, assicurata dall’editoria, dal cinema, dalle produzioni radiotelevisive, ecc. A me non pare che il rapporto tra i giovani e la cultura sia davvero così negativo come spesso si sente dire. Piuttosto credo che quando si parla di questo argomento non ci si dovrebbe porre la domanda: “Come rispondono agli stimoli culturali i giovani d’oggi?” bensì: “Qual è l’offerta culturale rivolta ai giovani d’oggi?”. I “decisori” pubblici conoscono abbastanza il mondo dei giovani? Sono in grado di dar loro un’offerta culturale adeguata, che non sia legata soltanto alla dimensione della spettacolarizzazione e dell’intrattenimento? Cosa fa il mondo politico per favorire il coinvolgimento attivo dei giovani nel mondo della cultura?  Insomma, quella del rapporto tra “giovani” e “cultura” è una tematica sulla quale dovrebbe concentrare la propria attenzione l’intero mondo politico, se volesse veramente cercare di costruire una società più attiva e consapevole.

La poesia, l’arte, la cultura in generale, devono star fuori dalla politica? Come vedi il rapporto istituzioni e cultura?

Io credo che, anche volendo, la cultura non possa star fuori dalla politica: in fondo, anche la cultura è politica, come del resto anche la politica (nel senso nobile del termine) è cultura. Certo, nel caso specifico dell’arte, la situazione odierna sembra suggerire un’immagine di separatezza tra cultura artistica e politica.  L’artista spesso appare come una figura lontana dalla politica, assente, quando non addirittura emarginata, ma a me sembra evidente che la cultura artistica possa giocare un ruolo importante nelle dinamiche sociali. Certo, per farlo, per essere cioè in grado di incidere su tali dinamiche, essa non può pensarsi come pratica intima e solitaria, centrata su sé stessa, ma deve porsi in un’ottica di partecipazione e di interesse all’altro, interpretando esperienze comuni.

Qual è il tuo ruolo nella vita? Chi senti di essere?

Io non credo che il proprio ruolo nella vita sia qualcosa che esista già, diciamo così, “in potenza”, e che quindi necessiti soltanto di essere scoperto e attuato. Il ruolo di un uomo è quello che egli si dà. Naturalmente, anche quando si è capito ciò che si sa fare e ciò che si ama fare, non è per niente facile darsi un ruolo, darsi uno scopo. Per quanto mi riguarda poiché continuo a passare da un “amore” ad un altro, da un progetto ad un altro, da una passione ad un’altra, il mio scopo cambia continuamente. Direi, quindi, che il mio ruolo nella vita non è, ma diviene.

A questo punto, ti chiedo, qual è la tua visione del mondo?

Devo dire che non ho una visione molto ottimistica del mondo contemporaneo poiché per quanto mi sforzi di vedere il bicchiere mezzo pieno, la mia attenzione è sempre più attirata dai tanti mali che affliggono questo mondo. Guerre, disastri ambientali, razzismo, disgregazione delle relazioni sociali, individualismo esasperato, primato dell’economia sull’etica e sulla vita, diritti umani in molti luoghi ancora calpestati, appropriazione privata delle risorse, diseguaglianze sociali così forti che ancora oggi, malgrado l’abbondanza di mezzi e di risorse, ci sono milioni di persone nel mondo che muoiono per scarsità di cibo o per malattie facilmente curabili. Insomma, ne vedo tanti di mali in questo nostro mondo! E ciò che più fa male è che non si tratta evidentemente di calamità naturali, di eventi indipendenti dalle azioni dell’uomo. I disastri ecologici, ad es. sono anche il frutto di un rapporto conflittuale tra uomo e natura. In senso più profondo, sono conseguenza di quella scissione tra io e non-io, di cui parla molta filosofia, soprattutto quella orientale. Alla base di molti mali del nostro tempo c’è appunto un errato atteggiamento mentale, c’è questa scissione tra Io e non-Io, la percezione cioè del nostro Io come separato dal mondo, dalla natura, dagli altri (separazione, che diventa facilmente contrapposizione). Serve quindi, come amava dire anche Tiziano Terzani, una rivoluzione nel rapporto tra Io e mondo esterno. Occorre avere consapevolezza dell’integrale unità del Tutto, della non separazione dell’io dal mondo esterno, dal mondo umano, dalla natura. Se mi convinco che tutto è uno, rinuncio a concepire gli altri e la natura come esterni ed estranei. Le conseguenze positive (non soltanto in senso etico) dell’assunzione di tale atteggiamento credo siano facilmente immaginabili.

Tu sei d’accordo quando si parla di perdita di valori nella nostra società? Come pensi debbano agire, in tal senso, la famiglia, la scuola, la politica, la società?

Personalmente ho sempre lamentato, con un certo dispiacere, la perdita dei grandi valori ideali ossia quella fine delle ideologie che, con linguaggio nietzscheano, si è soliti chiamare “morte di dio”. Ma la tua domanda è un’altra, evidentemente. Io non credo si debba parlare di perdita di valori. La nostra società cioè non ha perso i valori, lì ha solo cambiati: ha dei valori diversi da quelli che aveva un tempo (ogni epoca, del resto, ha i propri valori).  Quindi bisogna intendersi sul concetto di “valore”. Per quanto mi riguarda il problema principale è che la nostra società ha elevato a valori positivi, atteggiamenti e comportamenti che a mio avviso positivi non sono affatto. E non mi riferisco soltanto al culto dell’apparire, alla cura esasperata del corpo e dell’aspetto fisico, all’idolatria del denaro, ma anche ad aspetti, forse meno evidenti, ma altrettanto importanti.  Ti faccio un esempio.  L’idea della competizione ha una sua ragion d’essere nell’ambito economico, nell’iniziativa di impresa e nelle dinamiche del mercato: per promuovere l’attività della propria azienda occorre competere con le altre, e tale competizione può essere un bene per il mercato. Ma oggi questa idea della competizione ha permeato di sé tutti gli ambiti delle attività umane: è diventata una vera e propria ideologia positiva, un “valore sociale”, al punto che anche nell’educazione dei nostri figli tendiamo a promuovere lo spirito della competizione, della gara e della lotta anziché quello della collaborazione, dell’aiuto reciproco, della cooperazione. Da nozione specifica dell’ambito economico, la competizione è diventata un paradigma culturale. Ciò, del resto, è in linea con la contemporanea assolutizzazione dell’economia, quindi del mercato, che abbiamo elevato a solo e unico dio, cui non soltanto la politica, ma anche l’etica, deve inchinarsi (nella valutazione di ogni attività sociale, infatti, le considerazioni economiche prevalgono non solo su quelle politiche, ma anche su quelle morali). Quanto al ruolo della famiglia e delle altre agenzie formativo-educative, come la scuola, è giusto, certo, sollecitarle a fare di più in termini di promozione di valori positivi; ma non possiamo tuttavia non riconoscere la loro intrinseca debolezza e marginalità, dovendo esse competere con un grande e potentissimo “educatore” come il Mercato, che plasma gusti, costumi e comportamenti di noi tutti. E il mercato, ovviamente, è interessato a formare consumatori, non Cittadini.

E per finire, come consideri la scienza, il progresso, ecc.

I meriti della scienza e della tecnica per il miglioramento delle condizioni di vita sono evidenti e innegabili. La scienza e la tecnica ci hanno messo a disposizione risorse formidabili. Di ciò, l’uomo contemporaneo è talmente consapevole da aver sviluppato quasi un delirio di onnipotenza tecnico-scientifica. La nostra società, infatti, ha una fede pressoché assoluta nella scienza, dalla quale confida di ricevere, prima o poi, le soluzioni a tutti i problemi. Di fatto, la scienza è stata messa sugli altari al posto delle Religioni e delle Ideologie. Naturalmente, ciò che non mi piace non è la visione laica e secolarizzata del mondo bensì l’assolutizzazione della scienza e l’elevazione del metodo scientifico (il riduzionismo meccanicistico) a vero e proprio paradigma culturale. Se lo sviluppo scientifico e tecnologico ha indubbiamente portato all’uomo grandi benefici, bisogna però intendersi bene sul concetto di “progresso”, che, per quanto mi riguarda, non coincide tout court con lo sviluppo della scienza e con la crescita economica. Come lo sviluppo tecnico-scientifico senza un parallelo sviluppo etico e culturale non è esente da rischi e pericoli, allo stesso modo, nell’ideologia della Crescita si nasconde forse la più pericolosa insidia per il bene del Pianeta e quindi per il progresso dell’uomo.  Che cos’è, infatti, concretamente quella “Crescita”, di cui ogni giorno sentiamo celebrare le lodi e reclamarne la necessità? Essa, nel nostro sistema, ha un significato preciso, vuol dire: aumento, potenzialmente illimitato, della produzione e del consumo di merci. Il che, senza entrare nel merito di un dibattitto delicato e complesso, mi pare semplicemente folle. Come si può pensare ad una crescita infinita in un mondo finito? Insomma, per quanto mi riguarda, crescita economica (ossia aumento della produzione e del consumo di merci) e benessere non coincidono affatto.










Giuseppe Possa e Salvo Iacopino

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https://pqlascintilla.wordpress.com/2020/05/13/nel-mondo-poetico-di-salvo-iacopino

https://salvatoreiacopino.it

“VIETATO VIVERE” di Giorgio Quaglia

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Pubblichiamo l’intervento di Giorgio Quaglia durante la presentazione del volume di Rocco Cento, “Vietato Morire” (Ed. Mnàmon, Milano), alla Società Operaia (SOMS) di Domodossola, il 26 settembre 2020. (Nel libro è raccontata la storia di un insegnante che vive la condizione assurda, di chi pensa a una vita immortale, eterna, ma possibile solo sotto altre forme. Nel frattempo, appartiene a una comunità in cui è perseguitato, maltrattato dai suoi studenti, che lo accusano di pedofilia. In uno scontro con uno di loro, quest’ultimo vilmente colpito, cade accidentalmente da una finestra; portato in ospedale, muore. In obitorio ritorna in vita, nudo, poiché proprio in quel momento esce un’ordinanza che fa divieto di morire, “Vietato morire”, appunto).

*****

<<Non sappiamo dove la morte ci aspetta, aspettiamola ovunque. La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. Saper morire ci libera di ogni soggezione e da ogni costrizione>>.

All’antitesi di tale visione concepita da Michel de Montaigne nel 1500, il nostro sindaco impomatato alla Rodolfo Valentino impone con formale ordinanza il ‘divieto di morire’ a tutti gli esseri viventi nel suo Comune… che diventa così un territorio-fortezza preso d’assalto e come tale difeso.

Questo pretesto letterario per parlare della vita e del suo ‘caos’ di situazioni ed eventi (simboleggiato anche da una trama ingarbugliata e assurda intrisa di paradossi spiritualistici e umani), avrebbe potuto anche risultare troppo ridicolo (come alcuni personaggi stessi) e in qualche modo forzato e fantasioso all’eccesso. Un aspetto sminuente rispetto alla capacità non consueta di Rocco Cento di descrivere con le parole e giocando con le stesse, situazioni, vicende, sensazioni ed emozioni (tale da farlo ergere quasi in solitudine nel panorama letterario della nostra provincia e non solo).

Senonché, senza volerlo ma in fondo con presagio intellettuale, il libro e la sua storia (anzi le sue storie che si rimandano e si intrecciano a formare quasi più romanzi), concepita svariati anni fa, è apparso nel mese di Giugno 2020 e questo cambia in modo radicale il paradigma, se così si può definire, tanto da aver trasformato in una ‘geniale rivelazione’ il suo presunto punto di debolezza. Il nostro sindaco tinto di copertone, di fronte a gravi problemi di bilancio, vuole eliminare ogni spesa legata all’ospedale, all’assistenza e alle cure di persone e animali ammalati. Considera cioè la sanità (su cui peraltro nella vita vera negli ultimi quarant’anni si sono giocati e si continuano a giocare i destini di partiti e amministrazioni, nonché le carriere e gli interessi di molti politici), un onere insostenibile e così impone per legge il divieto di ammalarsi e soprattutto di morire.

Potremmo a questo punto -ribaltando la situazione ma poi neanche tanto: basterebbe cambiare il nome e le figure legate all’ordinanza- constatare con chiarezza che spesso la realtà (in particolare quando è terribile) supera di gran lunga la fantasia, ma non si tratta tanto o solo di questo rispetto a quanto di inimmaginabile invece è successo e sta succedendo in questi mesi.

Come ci ricorda il filosofo Giorgio Agamben nel suo ultimo pamphlet “A che punto siamo?  L’epidemia come politica”, già nel 2013 Patrick Zylberman aveva descritto il processo attraverso il quale la sicurezza sanitaria (che nella storia di Rocco arriva all’estremo del ‘divieto di morte’), fino allora rimasta ai margini dei calcoli politici, stava diventando parte essenziale delle strategie statuali e internazionali.  In questione è nient’altro che la creazione di una sorta di “terrore sanitario” come strumento per governare quello che veniva definito come ‘lo scenario peggiore’. È secondo questa logica del peggio che già nel 2005 l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) aveva annunciato da 2 a 150 milioni di morti per l’influenza aviaria in arrivo (peraltro mai verificatesi) suggerendo una strategia politica agli Stati che si articolava in tre punti:

  1.  costruzione, sulla base di un rischio possibile, di uno scenario fittizio in cui i dati vengono presentati in modo da favorire comportamenti che permettono di governare una situazione estrema;
  2. adozione della logica del peggio come regime di razionalità politica;
  3. organizzazione integrale del corpo dei cittadini in modo da rafforzare al massimo l’adesione alle istituzioni di governo, producendo una sorta di civismo superlativo in cui gli obblighi imposti vengono presentati come prove di altruismo e non si ha più il ‘diritto alla salute’, ma diventa giuridicamente un ‘obbligo alla salute’.

D’altro canto, sempre secondo Agamben (che si rifà allo storico del diritto romano Yang Thomas), quel che è avvenuto a partire dai primi decenni del 900 è che il diritto ha progressivamente teso a includere in sé la vita, a fare di essa il suo oggetto specifico, di volta in volta da tutelare o da escludere, con effetti non sempre positivi.  Come infatti gli studi di Michelle Foucault hanno mostrato, la biopolitica tende infatti fatalmente a convertirsi in tanatopolitica;  quanto più il diritto comincia a occuparsi esplicitamente dalla vita biologica dei cittadini come un bene da curare e promuovere,  tanto più questo interesse getta la sua ombra nell’idea di una vita che “non merita di essere vissuta” (l’esatto opposto del ‘messaggio’  implicito nel libro di Rocco,  quello cioè che ogni vita va vissuta nella sua interezza e complessità,  anche dolorose).

Non è per niente esagerato in tal senso l’invito rivoltoci sempre dal nostro filosofo a riflettere con attenzione sul fatto che il primo esempio di una legislazione in cui uno stato si assume programmaticamente la cura della salute dei cittadini sia l’eugenetica nazista; ad esempio, subito dopo l’ascesa al potere, nel luglio 1933,  Adolf Hitler fece promuovere una legge per proteggere il popolo tedesco dalle malattie ereditarie, legge che portò alla creazione di speciali commissioni per la salute dalle quali scaturì la sterilizzazione cotta … stavo per dire vaccinazione… di mezzo milione di persone; metodo che peraltro era già stato in precedenza programmato negli Stati Uniti.

In sintesi, quando il diritto e la medicina  si mischiano stringendo un patto ambiguo e indeterminato con i governi, questo, oltre a non condurre a risultati positivi sul piano della salute,  può invece portare a  inaccettabili limitazioni della libertà degli individui e costituire il pretesto ideale per un controllo senza precedenti della vita sociale; allargando in modo fantasioso all’intera Italia le antiche mura della città di Domodossola, il cui ingresso per ordinanza – e con filo spinato e tre mura di cinta – era negato ai musulmani,  agli ebrei  e a fedeli di altre confessioni… insomma ai ‘migranti’…, si ha una immagine emblematica di quanto sia successo in realtà con la cosiddetta pandemia, però evocata in concreto nel volume di Rocco fuori dal Comune, dove si era accampata e brulicava la massa dei disperati che non voleva più morire,  mentre il tutto -fuori e dentro-  veniva riportato e amplificato dai cronisti dei vari telegiornali accorsi da ogni dove.

A quest’ultimo proposito e per restare all’attualità che anche per l’angoscia e la rabbia provate io non voglio rendere avulsa o trascurabile, sta proprio nella scellerata azione terroristica di TV,  giornali e social (con tutti i loro operatori prezzolati e da strapazzo),  la risposta più ovvia alle ‘dolorose’ domande che si è posto e ci ha posto Giorgio Agamben: “Com’è potuto avvenire che un intero Paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia? Come abbiamo potuto accettare che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che -cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi (né col fascismo, né col nazismo)-, che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale? Oppure di limitare così, in una misura mai riscontrata nemmeno durante le due guerre mondiali, la nostra libertà di movimento sospendendo di fatto i nostri rapporti di amicizia, sociali e di amore, nonché considerando il nostro prossimo un ‘pericolo’,  una fonte di contagio?”.

Certo,  tutto ciò è avvenuto perché in fondo abbiamo scisso l’unità della nostra esperienza vitale -che è sempre insieme corporea e spirituale- in una entità puramente biologica, tralasciando tutto il resto, restando muti, docili e impassibili  (compreso il Papa di Roma che porta il nome di Francesco, il quale abbracciava i lebbrosi),  di fronte allo scempio di etica,  socialità,  cultura,  economia e umanità (le parti del libro di Rocco in cui questi aspetti diciamo spirituali della vita -spesso compressi  nei ricordi nostalgici- sono peraltro le migliori, le più intense e scorrevoli, anche dal punto di vista linguistico:  il quartiere della Cappuccina, la storia della famiglia, l’impegno politico nel Partito Comunista, la Resistenza).

Il fatto è che, appunto senza il nefasto e criminale ruolo svolto (tutt’ora) dalla superstruttura dell’informazione (televisioni in testa) -complici gli altrettanti criminali organismi internazionali come l’OMS- non avrebbe potuto realizzarsi in tale drammatica misura e non potrebbe  (coi suoi reiterati e assurdi provvedimenti)  protrarsi così a lungo (confermando fra l’altro ciò che paventava Tocqueville,  ossia che la democrazia tende a degenerare dispotismo, tanto più -possiamo aggiungere noi- se al governo del paese  vi sono forze che si richiamano a valori e principi repubblicani quindi proprio democratici).

Il grande e caotico carnevale domese  (descritto con maestria) chiude il libro e svela in fondo la farsesca e violenta pretesa del Potere (di ogni natura), quella cioè di non lasciare che ogni vita possa manifestarsi in tutta la sua libera espressione, in un rapporto stretto e aperto di rispetto e confronto con se stessi, con gli altri e con la Natura, in primis attraverso l’amore (anche quello controverso  provato per il personaggio di Arielle) o  il dolore,  ma anche con l’olio o lo spirito religioso (pur se il suo richiamo formale nel testo appare esagerato e invasivo).

Su tutto deve in fondo rimanere, in contrasto col bel titolo del libro, la ‘libertà di morire’ (anche in libertà).

Mentre un altro triste ‘carnevale’ impazza davvero, con milioni di ‘personaggi’ (mascherati con bavose, sudice, inutili e dannose ‘museruole’) i quali, solerti e servizievoli, continuano a rispettare un’altra ordinanza: “VIETATO VIVERE!”.

Giorgio Quaglia                                            26 Settembre 2020








Giuseppe Possa, Rocco Cento, Salvo Iacopino e Giorgio Quaglia

Intervista a Luisella Fiocchi

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Pittrice e scrittrice milanese, Luisella Fiocchi vive ora in Val d’Ossola. Diplomata in Disegno, Pittura e Grafica all’Accademia di Brera a Milano. Ha iniziato a dipingere quadri con tecniche diverse e a illustrare libri per bambini per le case editrici Fabbri, Edicart, Marietti, Le Stelle. Negli anni, ha poi allestito mostre personali ed esposto in collettive, in varie località italiane. Il suo ultimo romanzo, “Oltre il fiume” è stato pubblicato da Europa Edizioni (Roma). L’ha intervistata Giuseppe Possa, nella sua casa in Valle Antigorio.

Luisella, dimmi, ti senti più pittrice o scrittrice?

<<Entrambe le cose. Quando scrivo dipingo con la penna o il PC, perché mentre descrivo i personaggi, ma soprattutto i paesaggi dei miei romanzi, io li vedo dentro di me. E' come se io fossi anche fotografo e regista di possibili film, in quanto immagino dettagliatamente le scene nella mia mente. Quando dipingo scrivo con il pennello sulla tela possibili immagini che poi rappresento con i colori. Mi hanno detto che ricamo con i pennelli>>.

Il tuo percorso artistico, iniziato con il diploma di Disegno, Pittura e Grafica all’Accademia di Brera, com’è poi proseguito?

<<Ho sempre dipinto da quando ho iniziato Brera e mi sono diplomata poi nel 1979. La pittura, per me, è un arcobaleno di sfumature. Amo il colore perché è un'espressione della luce. Ricordo che mentre frequentavo la Scuola Serale di Disegno e di Grafica, contemporaneamente di giorno lavoravo in ufficio a Milano e mi capitava spesso, al mattino sui tram, di vedere tavolozze impregnate di magnifiche tinte, danzarmi davanti all'occhio della mente>>.

Quando hai cominciato a scrivere?

<<Fin da bambina sognavo di “fare la scrittrice”. Sono affascinata dalle vite e storie degli artisti. Ancora adesso, quando ci sono film su scrittori e pittori, anche di fantasia, m'immedesimo ed è con grande gioia che li guardo. Per molti anni ho scritto poesie. Essendo introspettiva, ho dato sfogo ai miei tormenti ed elucubrazioni mentali, riempiendo fogli su fogli di emozioni e sensazioni. Ho sempre amato la scrittura. Anche adesso riempio fogli a mano, quaderni e ogni cosa sulla quale sia possibile scriverci sopra, di appunti e tutto ciò che mi passa per la mente>>.

Prima di questo romanzo cosa hai già pubblicato? 

 <<Prima di “Oltre il fiume” nel 2018 con Europa Edizioni,  ho pubblicato con Scriba- Ars Medica Editore nel 2006  “Donna grida più forte”, un saggio sul valore della donna.  E successivamente il romanzo “Jenny e le lucciole”, una trilogia fantastico-metafisica, pubblicato nel 2012 da MEF L'Autore Libri Firenze>>.

Com’è nato questo “Oltre il fiume”?

<<“Oltre il fiume”, come ogni altra cosa che scrivo, è nato nel cercare di dare voce a un indomito “grido dell'anima”. Amo il rovello interiore, che come in un crogiolo vuole fare emergere la “pietra filosofale, la stella blu degli alchimisti”. Pertanto cerco di dare ai miei libri, ai miei personaggi, quelle parti di me che emergono prepotentemente. Sono anche molto attratta dal “fantastico” e da tutto ciò che è una 'realtà alternativa'. Ho, tra le tante cose, un passato di illustratrice di libri per bambini per le Case Editrici: Fabbri, Edicart, Marietti, le Stelle, Persona ecc. Forse anche per questo i miei romanzi veleggiano tra il genere surreale-fantastico-metafisico>>.

Perché lo hai dedicato “ai ricercatori della Verità”?

<<Sono sempre stata appassionata dai percorsi di crescita interiore.  Nelle mie ricerche ho anche studiato per tre anni psicologia in un istituto privato di Milano. In quegli anni conducevo laboratori di “espressione creativa”, sia privatamente sia in diverse scuole dell'hinterland milanese e della provincia di Varese, e volevo avere più “chiavi di lettura” per meglio comprendere le persone e i bambini con cui lavoravo. Sono interessata a scuole di pensiero, filosofie orientali, metafisica e sono stata diverse volte in India. Il cercare di capire i vari risvolti dell'animo umano, da diversi punti di vista, è per me molto illuminante. “I ricercatori della verità” sono coloro che non si accontentano del quotidiano vivere e sono in costante cammino per dare alla propria vita “un senso più alto”. La loro instancabile domanda è che 'deve esserci di più di tutto questo che ci circonda'>>.

Al centro del racconto c’è Giosuè, giovane filosofo visionario alla ricerca di oltrepassare la realtà tangibile e aspirare alla pace e alla luce interiori, a quella che alcuni definiscono l’illuminazione: vuoi parlarcene?

<<L'illuminazione è un lungo percorso fatto di cadute e di risalite. I Maestri Spirituali dicono che significa portare alla luce il “Sé Divino” che è in noi. Un ricercatore vuole instancabilmente raggiungere dei traguardi e quando pensa di essere arrivato si accorge che la meta è più in là, oltre ogni confine possibile. Oltre il fiume appunto, il fiume della vita che scorre ininterrottamente proteso a raggiungere l'infinito oceano della consapevolezza. Io sono una visionaria e Giosuè incarna una parte di me>>.

Com’è sorto e come si è sviluppato questo tuo pensiero filosofico, legato alle discipline orientali?

<<Il pensiero filosofico nasce, non solo per mia esperienza, da una crisi interiore profonda alla ricerca della verità. Quando ti accorgi che non trovi risposte e annaspi in ogni dove nella speranza di trovare la chiave che ti apra portali invisibili. Noi siamo “creature in cammino”. Arriva un momento in cui emerge un malessere incontenibile, un anelito che all'inizio non è facile da definire. E' come un navigatore nell'anima che ti spinge in avanti, ma su percorsi non evidenziati. Penso sia un po' come sciare fuori pista dove rischi ogni momento di finire in un burrone o essere travolto da slavine. Quando intraprendi “il Viaggio” sai che non ti puoi più fermare. E' un processo spirituale. Certo molti si fermano nell'andare quando appare troppo arduo, ma si sa che più buia è la notte più grande è la luce quando appare>>.

Tu sei milanese, come e perché ti sei stabilita in Val d’Ossola e precisamente in Valle Antigorio? E’ per caso una tappa interiore e artistica, per camminare “sui sentieri alti dell’esistenza”, come succede ai tuoi personaggi?

<<In Valle Antigorio ci sono arrivata per caso. Non la conoscevo e, non ridere, cercavo un luogo sicuro per sopravvivere alle previsioni catastrofiche del 2012. E' vero che più vai in alto, intendo verso le montagne e meno si è immersi nel caos delle grandi città, più è salutare per il corpo e per l'anima. La Natura, questo meraviglioso dono della vita, è un grande alleato per la pace interiore che ci permette di ascoltarci.  Sentire il fruscio del vento, il canto degli uccellini, la voce delle cascate e vedere l'alternarsi delle stagioni in tutte le loro magnifiche sfumature di colori e suoni, ma anche di grandi silenzi soprattutto in Inverno, è una grazia che chi abita in un ambiente disarmonico fatica ad avere. All'inizio devo confessare che soffrivo un po'. Ho lasciato tutto per venire qui e mi mancavano i miei amici, i miei riferimenti, ma devo dire che l'arte e la mia ricerca interiore ne hanno beneficiato. Quando le persone mi chiedono se non mi sento sola e cosa faccio qui, un po' fuori dal mondo, rispondo ridendo che: “m'illumino d'immenso”>>.

Luisella, per concludere, cosa stai preparando di nuovo, sia nel campo letterario che in quello artistico? 

<<Ho appena terminato il mio nuovo romanzo. E mi auguro di pubblicarlo presto. Il genere è sempre “surreale-metafisico” ma forse, a differenza degli altri, è un po' più vicino all'umano andare. Per ora è “top secret”. Per quanto riguarda la pittura... ho sempre dipinto soprattutto paesaggi, olio su tela. C'è stato un breve intervallo di espressione creativa diversa con tecnica mista tempera-acquarello, intitolata “Nel Regno degli Dei”: creature angeliche che rappresentavano la “sublimazione dell'Amore”. Ora sto cercando dentro di me una nuova espressione che fatica a definirsi ma spero di arrivarci presto perché io sto cambiando e mi auguro che sia così anche la mia arte>>.

Recensione del romanzo “Oltre il fiume” (Europa Edizioni, Roma) di Luisella Fiocchi

Duecento pagine di piacevole lettura, scritte con stile personale, scorrevole e forbito; un bel racconto carico di elementi simbolici e di antica saggezza, tra il nostro pensiero filosofico e le culture orientali. Sto parlando del libro “Oltre il fiume” di Luisella Fiocchi, scrittrice, illustratrice e pittrice milanese che ora vive in Val d’Ossola e ha già dato alle stampe altri volumi.

Diplomata in Disegno, Pittura e Grafica all’Accademia di Brera a Milano; ha iniziato a dipingere quadri con tecniche diverse e a illustrare libri per bambini per le case editrici Fabbri, Edicart, Marietti, Le Stelle. Negli anni, ha poi allestito mostre personali ed esposto in collettive, in varie località italiane.

“Oltre il fiume” è una storia che invita a riflettere sul senso della vita e della ricerca di noi stessi: un’analisi del nostro io interiore e una descrizione di situazioni ed eventi al limite del mistero, della magia e del soprannaturale, mentre il tempo se ne va nell’inevitabile trascorrere delle stagioni. Ne sono protagonisti alcuni giovani, divisi tra le passioni artistiche e quel desiderio, incarnato dentro loro, di varcare il confine tra “il vecchio mondo e l’altrove”, che forse è solo un perenne sogno di raggiungere e perdersi in una luce “al di fuori della realtà conosciuta”, quasi a sentirsi “compartecipi a tutta la creazione”, facendo parte del tutto.

Nella casa ereditata dal nonno - che si trova a Earken, nella fantastica regione di Hailati dalle imponenti montagne - Giosuè, un “filosofo” visionario, nel fior degli anni, abita solo, dedicandosi a discipline spirituali e suonando il violino, dopo che i genitori sono morti in un incidente. Un giorno, il ragazzo decide di condividere la sua casa con giovani artisti, perché per lui l’arte è “la via per la ricerca della sublimazione”. Rispondono per primi, il pianista Ewan e la sorella Geneviéve, diciassettenne, romantica e sognatrice, ma anche “un po’ selvatica”, aspirante scrittrice. Altre figure, poi, si aggiungeranno a loro, dotate di sensibilità, amanti del silenzio, della meditazione, del sublime. Sono loro (alcuni solo di passaggio) a dare vivacità e profondità di pensiero alla narrazione, nella ricerca di quell’illuminazione che può proiettare gli esseri umani oltre “la realtà tangibile”, oltre l’orizzonte del visibile, “per dare alla propria vita un senso più alto”.

Nel frattempo, a periodi quotidiani in cui non succede nulla, si alternano intensi momenti dedicati alla creazione artistica, alle feste del villaggio, ai concerti, alle solitudini meditative, cercando di trovare la “gioia dentro di sé” e di mettersi in contatto con le “energie sottili” o con le voci dell’amore che deliziano il cuore, ma senza perdere di vista i segnali che inviteranno a partire verso “il luminoso sentiero”, per oltrepassare “il confine” del fiume e immergersi “nell’infinito oceano della consapevolezza”. Eppure, nonostante fosse trascorso molto tempo, “nessun messaggio e nessun messaggero giungeva”. Poi, un giorno, il Maestro Harun, che aveva aiutato Giosuè a preparare spiritualmente il “viaggio”, torna per accompagnarlo ad un misterioso “incontro”. Solo alla fine del romanzo, però, si svelerà la continua attesa di quel “qualcosa” che deve compiersi.

Quando, finalmente, si “manifesta” la chiamata per il definitivo cammino al “Grande Fiume”, il giovane ormai pronto si dispone ad affrontare la “via” già indicata dal Maestro e invita gli altri a seguirlo. Ewan, però, nel frattempo innamoratosi, nonostante che abbia lasciato il “Vecchio Mondo” per affrontare questa esperienza, ha il coraggio di dire: “Io no! Non verrò con voi… sto bene qui, ho trovato la mia dimensione!”. Chi, invece, pur combattuto tra sentimenti contrapposti, andrà “senza voltarsi indietro”?

***

Quale “sublimazione” - dico io, che non vedo oltre “l’orizzonte” umano - potranno mai trovare i suoi amici, che Ewan non abbia già raggiunto nel “qui e ora”? Certo, per giovani pensosi, con le ali della fantasia, cercare strade e obiettivi diversi può essere una necessità, una liberazione dai gioghi della vita istituzionalizzata, forse un risveglio da esperienze ordinarie, verso un “altrove”, un “oltre”, verso nuove strade. Ma alla fine, lo spirito di Ewan, travolto dall’amore, dalla sua forte passione per la musica, a me fa sorgere spontaneo un interrogativo: chi sarà di loro il più felice e il vero illuminato? “Carpe diem… hic et nunc”, mi viene da pensare, proprio come lui.

Con una conclusione, illuminante, anche se un po’ sorprendente, il romanzo, ripeto, è piacevole e leggendolo si trascorrono momenti di profonda riflessione interiore e aiuta a comprendere meglio perché a volte si fanno certe scelte di vita, individuali e collettive.

Giuseppe Possa

(Luisella Fiocchi e Giuseppe Possa)

Alessandro Chiello: “I delitti di Porto Venere”

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DOMODOSSOLA - Torna in libreria con un nuovo giallo-noir, Alessandro Chiello, per la seconda volta con la celebre poliziotta dai capelli rossi e il rosario in tasca, Lina Gatti, non più troppo segretamente innamorata del suo diretto superiore, il vice questore Camposanti. “I delitti di Porto Venere” (appena distribuito da Eclissi Editrice di Milano) è un romanzo inquietante, con forti accenti a ciò che sta accadendo nell’ambiente clericale, dove pare esserci una disputa tra conservatori e progressisti, che vede protagonisti soprattutto le alte sfere ecclesiastiche.

La scena del delitto si svolge nella chiesa di San Pietro, quella che sorge nella splendida cornice di Porto Venere, dove si sta svolgendo un convegno di un’associazione religiosa, che pare pensare più a complotti e intrighi che non a spiritualità e a opere di bene. Ma qual è il movente per cui viene uccisa, in modo cruento e inspiegabile, Carla Cartesi, 53 anni, suora laica impegnata in molte attività caritatevoli e sorella di sangue di un Cardinale, tra i più influenti prelati della Curia, che molti indicano tra i futuri candidati a sostituire l’attuale Pontefice? E che filo invisibile lo lega all’assassinio di una donna delle pulizie, l’omicidio di un consigliere comunale e la morte per incidente di un giovane di colore dalle generalità sconosciute? Sospetti su indagati ed eventuali mandanti di questi fatti di sangue non mancano per le indagini della Polizia. Quando, però, tutto sembra facilmente risolto, lasciando, tuttavia, forti dubbi nell’ispettrice Gatti, per alcune annotazioni su un libro della vittima da lei sfogliato casualmente, si dischiude all’improvviso un colpo di scena che cambia o meglio “completa” l’impensabile avvio di questa catena di delitti.

Alessandro Chiello ha il tocco di una scrittura sciolta che conferisce al suo romanzo, anche nelle descrizioni più “noir”, una cadenza di ritmo leggero, d’incanto letterario. La trama, sviluppata attraverso una serie di consecutivi incastri tra le diverse situazioni, e le vicende narrate sono coinvolgenti, oltre che strutturate in modo ammirevole. La lettura, anche per l’essenzialità dei dialoghi, è scorrevole, emozionante e avvincente, come sempre, per questo lo scrittore ossolano va annoverato tra i migliori giallisti degli ultimi anni.

Giuseppe Possa








(G. Possa e A. Chiello)

https://pqlascintilla.wordpress.com/2020/06/28/alessandro-chiello-intervista-a-cuore-aperto-e-a-mente-fredda

la recensione è stata pubblicata anche su Eco Risveglio (G.P.)

Auguri Giuseppe!... con il senso profondo di una 'ribellione' per la Libertà.

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Solo in questa importante occasione, ossia il tuo compleanno, ho deciso di tornare per un momento a utilizzare Facebook (uno strumento parte essenziale della 'criminale' super struttura dell'in-formazione), che negli ultimi nove mesi ha dimostrato anche la sua stupida e indecente acquiescenza, nonché complicità, rispetto ai provvedimenti reiterati e fascisti del Potere politico-istituzionale, messi in atto e tuttora vigenti, con il pretesto anacronistico, assurdo e ridicolo della 'difesa della salute pubblica'... a discapito poi di tutto il resto.

Proprio per questo e per inciso, volevo comunicarti che - per mera etica personale - pur essendo la mia lista (FB) di 'amicizie' fittizia in una pagina 'abbandonata' da anni - dalla stessa io ho depennato un centinaio di persone che nei più svariati modi hanno appunto avallato o peggio ancora sostenuto l'inaudita azione impositiva, intimidatoria e repressiva messa in atto dallo Stato e dai suoi vari apparati. La stessa 'azione', per tornare all'oggi, che ci ha costretto a 'festeggiare' i tuoi 70 anni nel parchetto della piazza di Villadossola (di fronte a un patetico e nostalgico presepe in allestimento), con bevande 'asportate' in bicchieri di plastica da un vicino bar.

In fondo, però, noi abbiamo espresso con 'gioia' anche così la bellezza dell'Esistere e dell'Amicizia e riassunto in modo simbolico, con il bacio dato a te, il senso profondo di una 'ribellione' per la Libertà che purtroppo e in modo tragico (anche perché non espressa neppure da una Gioventù ormai perduta), è lontana e sconosciuta per le povere menti e le vite 'spente' di milioni di tele-sudditi, 'mascherati' e dominati senza scampo, che popolano Facebook (compresa la tua pagina) e l'intero Paese.

Allora auguri Giuseppe!... e continuiamo a 'resistere'. Ciao.

Giorgio Quaglia

Giorgio Quaglia, Giuseppe Possa e Rocco Cento

CAM 56: gli artisti italiani dal primo Novecento a oggi

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Il più atteso appuntamento per il mondo dell’editoria d’arte contemporanea, uno strumento indispensabile per artisti, galleristi, collezionisti e appassionati d’arte. Una sorta di enciclopedia da consultare come primaria fonte di informazione, pubblicata da “Editoriale Giorgio Mondadori (Gruppo Cairo, Milano)”

Scrive Carlo Motta, responsabile editoriale del CAM, nella presentazione del numero 56, fresco di stampa: <<La crisi sanitaria mondiale ci ha tolto certezze rendendoci più fragili. Eppure, in un anno difficile come quello che va a chiudersi, è stato emozionante ricevere centinaia di mail e telefonate di artisti, galleristi e appassionati che, durante la 'quarantena', chiedevano informazioni sull’uscita del catalogo, come si trattasse di un approdo sicuro durante la tempesta>>. E questo perché il CAM è un’opera di grande interesse per chi segue, ma anche per chi si accosta all’arte italiana per la prima volta; un utile strumento, agevole da sfogliare per l’impaginato di facile consultazione, oltre a contenere un ricco apparato iconografico e il rigore dei testi critici.

L’annuario è curato da Giovanni Faccenda, consulente editoriale che coordina un comitato critico di consulenza e di critici segnalatori (tra questi ultimi, ci sono anch’io).

La copertina del Catalogo è dedicata a Ottone Rosai con l’opera "Incontro in via Toscanella", capolavoro assoluto del 1922 (nell’inserto scrive di lui Giovanni Faccenda). In seconda di copertina troviamo la scultura in resina dipinta con acrilici e pasta oro, con sullo sfondo il dipinto “La vita oltre la vita”, della pittrice Vittoria Palazzolo, e in quarta l’olio su tela, “Le presenze senza volto”, di Tiziano Calcari. La prima sezione del CAM presenta i grandi maestri del Novecento, tra cui Balla, Boccioni, Carrà, De Chirico, Fontana, Burri, Rosai, insieme ad altri indiscussi protagonisti del secolo scorso che il mercato internazionale continua ad apprezzare, come dimostrano le numerose battute d’asta in Italia e all’estero. Come sempre è la seconda sezione quella che più coinvolge e appassiona gli artisti contemporanei, presentati in ordine alfabetico con le informazioni essenziali e utili per conoscerli.

Vi sono poi validi contributi sull’arte di cui elenco i titoli: “La pandemia nell’arte (storia e raffigurazioni della malattia attraverso i secoli)” di Claudia Trafficante; “Arte e design (dalla rivoluzione a oggi)” di Fortunato D’Amico; “I fotoreporter e la fotografia di guerra (dal conflitto di Crimea alla tragedia siriana, scatti che raccontano la storia)” di Alessia Locatelli; “Sei più artista o imprenditore? (qualche suggerimento per orientarsi nel mondo dell’arte contemporanea)” di Loredana Trestin; “L’installazione e le sue declinazioni (Christo e gli altri, quando l’opera interagisce tra artista e spettatore)” di Jorge Facio Lince; “Da Giotto al Cubismo” (uno sguardo agli stili e agli artisti dal XIII secolo al primo Novecento)” di Lia Bronzi; “Statuto dell’artista (Il sostegno alle arti visive attraverso le raccomandazioni approvate  dal Congresso Unesco nel 1997)” di Andrea De Liberis.

Ci sono poi le tavole delle opere fuori testo, i dossier tematici, un ampio repertorio di opere a colori e alla fine il consueto capitolo dedicato alle gallerie.

Per concludere, il “Catalogo dell’Arte Moderna” si propone come strumento divulgativo e conoscitivo non solo per gli addetti ai lavori e illustra in modo puntuale e rigoroso il variegato panorama dell’arte in Italia, partendo dall’inizio del XX secolo fino a oggi, attraversando l’intero repertorio della produzione contemporanea in tutte le sue espressioni, figurative, astratte e informali. Un appuntamento tradizionale, che risale – come ci informa il responsabile editoriale Carlo Motta, figura ormai indispensabile nel panorama dell’arte contemporanea – al 1962 quando l’editore torinese Bolaffi raccolse la felice intuizione del critico Luigi Carluccio e diede alle stampe un repertorio annuale dedicato al mercato dell’arte odierna. Rilevato alla fine degli anni Settanta dalla Giorgio Mondadori insieme al mensile Arte, il Catalogo è oggi pubblicato con il marchio Editoriale Giorgio Mondadori all’interno del gruppo Cairo e si conferma la più longeva pubblicazione di genere in Italia.

Giuseppe Possa

(G. Possa, C. Motta, V. Palazzolo, G. Faccenda)

(Lo scorso anno il CAM 55 era stato presentato, con grande successo di pubblico e di critica, a Milano, in via Balzan 3, nella sala Dino Buzzati del «Corriere della Sera», da Carlo Motta, responsabile editoriale, da Giovanni Faccenda, consulente editoriale e da Massimo Pujia, responsabile commerciale dell’edizione).














(M. Puija, G. Faccenda e C. Motta)

Camillo Besana (1887-1940): pittore vigezzino

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MALESCO – È da ottant’anni, nel 2021, che il pittore Camillo Besana è morto e, per l’occasione, gli sarà allestita una retrospettiva che lo ricorderà degnamente. Nato a Malesco nel 1887, pur considerato tra gli interpreti più significativi della pittura vigezzina, non ebbe gli stessi riconoscimenti degli altri, essendo vissuto con colleghi coevi quali Fornara, Ciolina, Giorgis, Peretti, per accennarne solo alcuni. Tuttavia, possedeva talento e qualità tecniche, soprattutto coloristiche, all’altezza di quei maestri e sicuramente contribuì anche lui a dare lustro e prestigio alla valle.

Besana, che frequentò la Scuola di Belle Arti Rossetti-Valentini di Santa Maria Maggiore sotto la guida di Pietro Maria Gennari (‘da cui apprese i rudimenti dell’Accademia artistica con tale impegno da conseguirne duraturo profitto’), di Cavalli (‘che alla mente dell’artista adolescente spalancò un mondo nuovo di vasti orizzonti aperti alla cultura francese’) e Dario Giorgis (‘il quale completò con studi tecnici e artigianalmente la sua crescita professionale’),  dipinse soprattutto paesaggi, vedute e scorci locali: i suoi quadri comunicano pace, serenità e quella dolcezza che invadono l’animo di chi sa ammirare e amare la natura. Frequentò, poi, anche il maestro Roberto Sella (‘che riportava su tracciati italiani la vibrale solarità e l’umbratile colorismo provenzale introdotto dal Cavalli’). All’inizio, spinto da necessità di vita fu costretto a recarsi a Bologna e poi a Torino, dove esercitò il mestiere di decoratore. Tornato, però, presto al paese formò la sua famiglia e aprì il proprio studio, proseguendo una decorosa carriera artistica. Affrescò pure varie cappelle votive e dipinse numerosi ritratti. Espose, oltre che in Ossola, in varie città piemontesi, lombarde e della vicina Svizzera. Scriveva il critico Gianfranco Bianchetti: “… acconsentendo alla vocazione che lo chiamava a trasmettere i temi lirici ispirati dal mutevole sembiante della natura vigezzina, approdò a un lessico dalle forme chiaramente definite in campiture nette, stese assecondando gli effetti plastici delle superfici compatte o appoggiate a tocchi distinti…”.

Il Besana coglieva dal vivo i suoi soggetti, spesso eseguendo dei bozzetti, in cui captava, innanzitutto, la freschezza e il “profumo” dell’atmosfera locale, con un’emozione visiva, un timbro leggermente elegiaco, che si traducono in sentimento. Il colore, su questi piccoli formati, scivola via con gradazioni sovrapposte, quasi “improvvisi” musicali, che rendono il senso di ariosità del paesaggio, dandogli brio e vivacità, mantenendo comunque sempre l’unità di tono.

Il mondo poetico di Camillo Besana si precisa, dunque, in una assorta e dolce contemplazione di scorci, composti di limpide partiture, dove alla nitidezza dell’impianto prospettico-disegnativo bene si accorda la sua cromia. La personale scelta di taglio è di estrema pacatezza e la rappresentazione vive solennemente nel caratteristico alternarsi di toni scuri e solari, in un meraviglioso incanto. Le sue tele, infine, rivelano una dolcezza e un senso lirico sorprendenti che noi percepiamo con grande godimento.

L’ultima mostra gli fu allestita a Malesco nel 1995 e metteva in luce il suo mondo poetico dalla grande vibralità del colore-luce. Ricordo che in quella retrospettiva notai con ammirazione un suo autoritratto e non mi capacitavo come un pittore, suadente e distensivo qual era, non si fosse raffigurato con tratti delicati e palpitanti come la carezza di una poesia. Le sue tele paesaggistiche, infatti, rivelano una soavità lirica sorprendente, dai tocchi morbidi, dai segni gioiosi. Mentre, in una forte e spiccata suggestione figurale, il suo volto mi risultò, e mi risulta tuttora, severo, accigliato, con negli occhi una rugiada di rimpianto, come se fosse risentito con se stesso o corroso da chissà quale intimo e inquietante tormento. Senza scomodare la psicanalisi: sicuramente Besana si è rappresentato con quel viso, forse per comunicarci un enigma o un fitto interrogativo della sua anima, se è vero che di quest’ultima è lo specchio. Magari si sentiva soltanto deluso con se stesso per non poter evadere, come altri suoi colleghi, da una Valle che artisticamente gli andava troppo stretta.

 Giuseppe Possa

(parte dell'articolo è stato inserito anche su Eco Risveglio)


I giovani devono guardare all’arte con uno spirito nuovo (che è poi quello di sempre: antico come l’uomo e ancora valido oggi)

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I giovani devono guardare all’arte con uno spirito nuovo (che è poi quello di sempre: antico come l’uomo e ancora valido oggi)

I giovani artisti di oggi paiono troppo protesi verso un successo effimero, come se il mondo intellettuale fosse la casa del “grande fratello”, dentro cui esibire la propria cultura “virtuale”, sotto i riflettori delle telecamere. Non ha più importanza saper scrivere, dipingere, o conoscere la musica, quindi sacrificarsi per imparare la “tecnica” che soddisfi pienamente la passione che brucia dentro, come una “febbre”; l’essenziale è esibirsi, apparire, sentirsi qualcuno, trarre magari profitto, senza pagare il prezzo al “mestiere”, all’esperienza e alla professionalità.

Ebbene, a mio avviso, senza impegno, senza la conoscenza “artigianale” del pennello, della penna o di altri strumenti artistici, non è possibile dare “qualcosa” agli altri. Sì, perché l’arte ha anche lo scopo di offrire un messaggio, non importa quale, alla società dentro cui si vive (pure un paesaggio, beninteso, può ispirare sentimenti sublimi all’uomo).

Solo i giovani (è storia di tutti i tempi) possiedono l’energia e la fantasia per creare qualcosa di nuovo; tuttavia, nell’avere la consapevolezza del proprio valore, non devono lasciarsi annebbiare il cervello dall’autostima; ma devono cercare di dare un sentimento forte all’arte, assecondandone la funzione sociale, capace di dare un apporto ai processi di formazione di un popolo. A volte, anche i sogni, le utopie, sanno procurare l’opportunità di vivere creativamente la realtà.

Riassumo qui, brevemente, alcuni dei motivi sul “perché si fa arte”, che elencai in un mio articolo, pubblicato oltre quarant’anni fa sulla rivista “Nuove Prospettive” di Milano e che, in linea di massima, ritengo tuttora validi.

…Fare arte significa soddisfare l’inesauribile ansia di creare che è dentro di noi. Non ci si dedica ad essa per moda, speculazione, ideologia, ambizione, per passare alla storia; ci si dedica per scelta di vita, per vivere fino in fondo la condizione che ci è toccata, assieme a milioni di uomini, perché non sappiamo rassegnarci alla quotidiana sconfitta, perché vorremmo che i nostri pensieri si facessero azione, per incitare l’uomo a ribellarsi dai vecchi gioghi che l’opprimono, <<per bruciare – come dico in una mia lirica – un’altra pagina di diario scritta sulla propria pelle>>. Non si fa arte per conto dello Stato o stando seduti sopra una cattedra: si fa per amore, per angoscia, per insicurezza anche; per interrogarsi, per arricchirsi intellettualmente… Si possono pure comporre opere per sapere chi siamo, cosa vogliamo, come e dove vogliamo andare: per compilare il nostro diario, la nostra storia personale o perché il nostro animo è sensibile ai problemi dei deboli e degli emarginati, ma senza lasciarsi condizionare dalla mentalità snobistica dei troppi che lo fanno più per inseguire una moda che per vera convinzione… Ci si può donare all’arte per rabbia, per ribellione, per disperazione, per contestazione, per protesta, per quell’aspirazione di cambiare il mondo, ben sapendo di non poterlo fare… Ancora, ci si impegna nell’arte perché si soffre, si gioisce; per gridare la via della salvezza e della speranza; per andare contro tutto quello che non ci piace: contro la cultura ufficializzata, contro le multinazionali, contro l’asservimento al potere che ci sfrutta, contro i sottogoverni e il clientelismo, contro coloro che continuano a dire che bisogna fare e non fanno mai niente; contro la repressione che non è certo solo quelle delle dittature o del potere accentrato nelle mani di pochi, che aboliscono ogni voce di dissenso o di opposizione: repressione è anche il non trovare lavoro e vivere quindi da disoccupati, il non avere una casa o l’abitarne una fatiscente, l’essere abbandonati e dimenticati… Ci si dedica all’arte anche per cantare le bellezze rigogliose e fermentanti della natura; per puntare l’indice contro gli armamenti o le mostruosità ecologiche; perché migliaia di uomini muoiono ancora di fame o di cancro; per resistere alla violenza, all’ingiustizia, alla brutalità: la nostra resistenza deve essere libertà, pace, amore, lotta ai soprusi, lotta di ogni giorno che non si piega, che non scende a patti… Si compongono opere d’arte per una speranza (o fede) di inviare qualche messaggio, lanciando la classica bottiglia nell’oceano, per quell’indomabile, come affermava Ungaretti, “allegria di naufraghi”… Infine, e concludo, io compongo versi, come scrivo in una mia poesia: <<Per affidare al segno della penna/ossessioni speranze/e vivere ancora su quest’isola-universo/dove nel mezzo del crocicchio/siamo la memoria e i posteri>>.

Per restare libero nel pensiero, per non discostarmi da questi ideali, ho preferito guadagnarmi da vivere, occupandomi di amministrazione e bilanci (pur trovandomi alle dipendenze di una delle più importanti case editrici). Ho ottenuto qualcosa? Non lo so. Ciò di cui sono certo è che non mi sono mai rassegnato, ho perseverato con “follia” nella mia passione, senza dover rendere conto ad alcuno, felice di qualsiasi pur piccolo riconoscimento del mio lavoro, sempre aperto alla speranza, pure dopo innumerevoli difficoltà e delusioni. Anche se non lascio un segno, mi sono tuttavia nutrito del grande bisogno del mio spirito e, contro l’insipienza culturale del nostro tempo, ho sempre creduto nell’importanza della creatività: ho avuto il coraggio di fare, nel tempo libero, quel salto nel buio, che mi ha permesso di rinascere nella luce di ogni mattino.

…L’artista – sostenevo ad un corso del Comune di Milano di qualche anno fa, in cui fui invitato a parlare ad un gruppo di giovani studenti sul tema <<Poesia come esperienza>> - è un uomo che soffre, poiché vive con intensità la vita, vive la realtà. È difficile da capire, da sopportare, perché è originale, improvviso, alterno: infatti incide, graffia, accarezza, seduce… La sua grandezza va ricercata nella sua piccola voce personale, capace di infondere umanità, amore per gli altri. Questo non significa che egli debba abbracciare una fede o una causa politica, significa piuttosto che l’artista debba sentirsi una specie di architetto della ragione, il quale sappia offrirci con la sua opera un aiuto morale e umano, anche nei momenti in cui sarebbe facile lasciarsi sopraffare dall’assenza di valori e di impegni sociali o da violenze ideologiche… - e concludevo – che comunque, per quel bisogno innato che è dentro di noi, l’arte, si fa, oggi e domani, come sempre, più di sempre, al di là dei discorsi e delle recensioni, dei gruppi e a volte persino degli stessi autori.

Colgo l’occasione per spronare i giovani a dedicarsi all’arte con questo spirito e per ringraziare tutti gli artisti su sui ho scritto, perché mi hanno stimolato alla riflessione e all’elevazione culturale, che è fermento di vita e piacere dello stesso esistere. Grazie a loro, posso continuare a proclamare ancora i miei ideali giovanili, con la stessa forza dell’utopia e della speranza.

Giuseppe Possa













(Giorgio Quaglia, Giuseppe Possa e Rocco Cento, del giornale cartaceo "La Scintilla", pubblicato negli anni Settanta. Oggi sostituito dal blog)

Giovanni Battista Ciolina: “Il filo spezzato”

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Nel 1897 espone a Milano, all’Accademia di Brera, quest’opera di grande impegno, un dipinto simbolista sul ciclo della vita, con la quale ottiene un grande successo.

Mi considero un critico, militante sul campo e non in piedi sui predellini delle cattedre, noto, però, che in questi ultimi anni, anziché parlare anche delle opere pittoriche degli artisti, ci si dilunga quasi esclusivamente in interviste e in descrizioni degli ambienti o degli studi in cui essi vivono e operano, rendendoli più personaggi che talentuosi creativi di espressioni estetiche, derivate da studio, esperienza e ispirazione.  Allora voglio proporre qui qualche mia “lettura” di quadri dipinti da pittori e inizio da uno del passato: Giovanni Battista Ciolina.

La tela, “Il filo spezzato”, ha attirato la mia attenzione a una mostra dei pittori vigezzini di qualche anno fa (e ne avevo fatto una “lettura” sul Settimanale Eco Risveglio di Domodossola, qui ampliata per l’occasione del ricordo). Sono rimasto attratto e affascinato innanzitutto da una singolare sensazione di fisicità e misticismo insieme che pervade l’intera opera; poi dall’atmosfera d’emozionante intimità che pare spingere l’osservatore ad “entrare” in quello spazio vuoto di dilagante luminosità (nell’angolo in basso a sinistra), come per superare il confine invisibile tra realtà e rappresentazione e fungere da testimone vivente, in questo improvvisato "presepe".

La madre e il bambino al centro, prima ancora di ogni interpretazione (anche se forse non ci sono messaggi particolari o allegorie nascoste, ma più semplicemente l’omaggio spontaneo e delicato a un mondo che l’autore amava in particolare, quello montano: del resto sentimenti così quotidiani dovevano essere allora molto abituali), la madre e il bambino, dicevo, avvolti in una luce naturale ma misteriosa, sembrano quasi posare per una “Maternità” o una “Madonna col bambino”. La giovane è dipinta di scorcio, con il bel volto ruotato sulla spalla sinistra: si possono notare in tal modo gli accenti di particolare finezza del viso chiaro, vivificato dagli accesi contrasti luministici e dalla spontaneità dell’atteggiamento, che ne rivestono di sensitiva freschezza e interiorità la bellezza paesana.

Il bambino, dormiente, è mollemente adagiato fra le sue braccia, immagine questa dell’amore filiale, riscontrabile anche nel delicato abbandono delle mani. La scena, impostata su un brulicante ma netto contrasto di luci e ombre, da cui emerge appunto il tema della maternità, trova la sua formulazione più commossa e impegnata nell’afflato poetico, che ci costringe a sostare pensosi davanti alla tela: una calma estatica e solenne si dispiega ovunque, per una sorta di religiosità laica.

La vecchia sulla destra è invece resa con un colore come dissolto in toni cupi nella veste, rappreso in un ardore temperato nel viso e nelle mani, forse per mettere in risalto, nella penombra, i dettagli scavati dall’usura del tempo e dalla fatica. Ella ha una rocca in mano; dorme profondamente, la testa abbandonata sul guanciale bianco, che ne pone ancora più in evidenza i segni di una vita dedicata a un lavoro spesso duro e ingrato. Il suo filo è spezzato, o sta per spezzarsi, ma la vita prosegue nella figlia e nel nipotino. Ella sembra, infatti, emanare una serenità pacata e raddolcita, come di chi sente che la vita continuerà anche dopo la sua morte. È quindi rappresentato il tema delle tre età, racchiuso in un interno delicato ed elegiaco (una stalla dove per un attimo sembra sparire anche l’odore acre dell’atmosfera); è il brano di un racconto che va sviluppandosi lungo tutto l’arco della vita. I personaggi paiono disposti in scena da un abile regista: la donna anziana rappresenta il passato, la giovane il presente, il bambino il futuro; le esistenze cominciano in una vitalità primordiale, pura e felice, per finire nel deperimento ineluttabile.

Colpisce l’abilità di questo artista, che fonde disegno e colore in una mirabile sintesi; unitamente alla cura che mette persino nei particolari, impreziositi da raffinatezze tecniche: l’acconciatura dei capelli, le decorazioni e le pieghe del vestito, il corpetto slacciato, il bellissimo collo della giovane e quel suo corpo che seguita sotto le vesti, dove i ginocchi piegati formano un grembo scultoreo di rara finezza. C’è anche una limpida vena di poesia che si esprime nella raffigurazione dei dettagli più minuti (per esempio lo strame, la parete di legno) che fanno risaltare l’immediatezza e la vitalità delle pennellate e degli impasti.

Non si può, infine, non notare la monumentalità della mucca, dipinta con cromi scuri, in secondo piano, come per stagliare meglio i personaggi in luce. L’animale è rappresentato con lo stesso amore e la stessa maestria delle figure umane: è un elemento naturalistico, ancora più significativo ed emblematico, proprio perché è un “personaggio” domestico e diventa pertanto simbolo della sicurezza economica dei nostri montanari di allora.

Va detto, per concludere, che il Ciolina, oltre a essere stato un grande  pittore di paesaggi e un interprete degli spaccati di vita, è pure un notevole ritrattista che sa rendere le più sottili sfumature psicologiche, con una plasticità che è prerogativa dell’autentico pittore realista.

Giuseppe Possa








Giovanni Battista Ciolina è nato a Toceno (VB) nel 1870 e, ancora bambino, frequenta i corsi della Scuola di Belle Arti Rossetti-Valentini di S. Maria Maggiore, dove il suo temperamento e le sue qualità artistiche sono forgiate dall´innovatore della pittura vigezzina, Enrico Cavalli, formatosi pittoricamente in Francia e che fece conoscere agli allievi della Valle Vigezzo (tra i più noti Fornara, Rastellini, Giorgis, Peretti e ovviamente Ciolina). Ciolina partecipa, come libero allievo, al corso di nudo dell’Accademia di Venezia ed è evidente come l’impressionismo e i canoni della pittura veneta siano i punti di riferimento della sua formazione. Nel 1895-1896 è a Lione con Fornara. Nel 1897 espone a Milano, all’Accademia di Brera, quest’opera di grande impegno, “Il filo spezzato” (un dipinto simbolista sul ciclo della vita), con la quale ottiene un grande successo. Dal 1898 apre uno studio a Milano, dove trascorre diversi mesi dell’anno dipingendo ritratti su commissione. Pittore fondamentalmente intimista e lirico, ha dipinto dal quadro a olio all’affresco e all’acquaforte, raffigurando paesaggi, scene di vita contadina, nature morte e ritratti. Muore a Toceno nel 1955.

Alessandro Dal Molin: una vita che sembra un romanzo

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CREVOLADOSSOLA – Ci sono in Ossola personaggi che hanno affrontato vicende ed esperienze che se narrate da anziani hanno il sapore di un romanzo. Come quelle che Alessandro Dal Molin, classe 1935 di Crevoladossola, racconta in un libro di prossima pubblicazione. Un’esistenza tormentata, la sua, vissuta tra privazioni, sogni infranti sul nascere e duro lavoro per conquistarsi una degna posizione sociale. Le buone qualità di scrittura le possedeva già ai tempi in cui le sue numerose lettere venivano pubblicate su Eco Risveglio, riguardanti svariati argomenti.

Nel libro da dove parti?

“Dall’infanzia, negli anni Quaranta, che non fu certamente esente da privazioni. Ero il secondo di quattro figli e l’unica fonte di reddito arrivava dal papà operaio. La tessera annonaria, assegnata dallo Stato a tutti i cittadini, non colmava le esigenze alimentari necessarie per sfamare le famiglie. L’aiuto dei nonni e l’inventiva della mamma non permisero alla fame di sopraffarci. L’Ossola, nel settembre del '44, fu liberata dai partigiani che fondarono la prima Repubblica Italiana. La liberazione, però, ebbe breve durata e molti adulti, ragazzi e bambini trovarono rifugio nella Confederazione. Io e mio fratello fummo assegnati a due famiglie svizzere e fu lì che, a dieci anni, la mia vita conobbe la prima vera svolta. Una fantastica signora, madre di due bravissimi bambini, fu per me una seconda mamma. Morì molto giovane, ma il suo ricordo vive ancora nel mio cuore”.

Iniziasti a lavorare giovanissimo?

“A  12 anni e i rapporti che ebbi con il padronato di quel tempo, mi rivelò che la guerra non aveva apportato nessun cambiamento. I metodi di lavoro erano simili all’anteguerra, se non addirittura agli ultimi anni dell’Ottocento. Lo sfruttamento della mano d’opera, non aveva regole, tutto era affidato alla benevolenza o meno dei titolari”.

Importante per te fu poi il militare.

“Certo, lo trascorsi a Roma e anche là una donna meravigliosa si incise indelebilmente nel mio cuore, martirizzato da una mente confusa. Maturai, inoltre, esperienze che mi permisero di scoprire attitudini che prima di allora erano state mortificate. Non bastarono, tuttavia, a sconfiggere la negatività dei molti anni trascorsi, in seguito, ai margini della società. La mia vita professionale, dopo il matrimonio, migliorò quando entrai nel mondo del caffè come rappresentante e mi sembrò di volare. Fu un lavoro che affrontai con entusiasmo perché, per la prima volta, potevo sentirmi libero, senza condizionamenti e godendo di un certo benessere”.

E poi?

“La mia esistenza piena d'imprevisti è tutta raccontata nel libro. Comunque, a un certo punto me ne andai in pensione, per accudire mia moglie molto ammalata, ma pure per il desiderio di andare in un luogo dove la possibilità di rigenerarci ci parve maggiore. Ci trasferimmo a Santo Domingo e i numerosi anni là trascorsi ci resero consapevoli che vi sono, tra i popoli, modalità differenti per affrontare avversità che affliggono la vita di tutti noi. Socializzare con la ricca borghesia dominicana, fu relativamente semplice, non esistevano muri invalicabili. Tornammo per l’aggravarsi di mia moglie e la sua morte, sono ormai 6 anni, mi ha sprofondato nel dolore e nella depressione, da cui non mi sono ancora pienamente ripreso”.

Giuseppe Possa

(Articolo in parte pubblicato anche su Eco Risveglio)

Era l’abitazione del nonno Giuseppe De Giorgi, ora è lo studio di Piergiorgio Novellini

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CEPPO MORELLI (VB) – Anche nell’Ossola, alcuni eredi di personaggi noti del passato conservano abitazioni che all’interno appaiono come piccoli musei. Una di queste è del pittore e decoratore Piergiorgio Novellini in Valle Anzasca, che ha lo studio nella casa del nonno Giuseppe De Giorgi (1870-1946), pittore e affreschista legato all’arte sacra. La casa di Canfinello, da lui decorata in stile Liberty racconta il nipote, “è stata finita nel 1899 dopo il ritorno da Bordeaux del nonno, dove era emigrato a 12 anni ospite della sorella maggiore sposata a Carlo Mariola, la quale tra gli altri figli nel 1884 ha avuto Henry Mariola pittore diplomato a Brera e tirocinante dello zio Giuseppe”.

Su tre piani, con giardino tutto intorno e una vista sul Monte Rosa da lasciare senza fiato, la casa ha locali luminosi, stufe e camini in sasso scolpiti, che custodiscono ancora tanti ricordi, come elenca Novellini: “Oltre alla camera oscura per le fotografie, che usava nella sua attività mio papà, sono esposti molte opere del De Giorgi, paesaggi, ritratti, scene di vita e alcune tele sacre. In molti armadi vi sono raccolti tutti gli spolveri dei suoi lavori”. E poi tanti oggetti personali: disegni, cartoline, lastre e apparecchi fotografici, istantanee sue e dei familiari, l’ovale del suo letto in ferro con l’effige di San Giuseppe; ritratti e tanti quadretti che dipingeva durante l’inverno da vendere poi nel suo negozio di Macugnaga, durante l’estate. Ancora, bozzetti, cartoni e disegni finissimi, bucati per fare gli spolverini per i bozzetti da presentare alle fabbricerie per i lavori. “Spolveri” prosegue Novellini, “ne esistono tantissimi di ornati, candelabri, figure, cartelle, angeli, simboli della passione. Ci sono ancora immagini sacre, scatole di pennelli, vecchie tavolozze e attrezzi di lavoro>>.

 Ma chi era Giuseppe De Giorgi?

“Mio nonno materno era di Canfinello, nato nel 1870, mamma anzaschina e padre originario di Varese. Ancora ragazzo, quando andò in Francia, frequentò la Scuola di Belle Arti a Bordeaux, poi fece un tirocinio con pittori del luogo che lavoravano nei palazzi e nei castelli della regione Aquitania. Rientrato a fine Ottocento in Italia, ha iniziato l’attività in proprio come pittore, decoratore e affreschista. Si sposò nel 1901 ed ebbe due figli: Alfredo ed Erminia. Morì a Vanzone nel 1946”.

Quali sono le opere che ha affrescato e dipinto più importanti?

“Uno dei suoi primi lavori è nel Santuario Madonna del Croppo (Ceppo Morelli) completamente dipinta da lui, sia negli ornati che nelle figure; importante è poi quello eseguito nel 1900 nella Chiesa del suo paese, Ceppo Morelli, ancora ben conservata e riccamente da lui ornata. Una cappella da vedere, per capire lo stile della pittura che si usava in Bordeaux all’epoca, è nel piano di Borgone, ai margini di una strada di campagna, ben conservata. Affreschi suoi sono conservati nella chiesa di Vanzone con le belle figure della volta del catino e del soffitto del presbiterio; quelli di Macugnaga con le sue finte architetture sulle volte; un’altra quella della Madonna della Neve a Bannio per la freschezza e luminosità dei colori. Quando per la prima volta sono entrato nella chiesa di Pontemaglio ho detto: ma l’ha dipinta mio nonno, anche se non c’erano documenti nell’archivio della parrocchia a dimostrarlo. Ma messi i ponteggi per eseguire un restauro, ho trovato la firma su un medaglione nella volta. Tra le altre, ha inoltre dipinto la Chiesa dei padri Passionisti di Cameri e le decorazioni nella nuova Chiesa di Vogogna. Nel tempo, ha affrescato pure diverse cappelle, cappellette e oratori, in Italia e all’estero”.

Su di lui è stata pubblicata una tesi di laurea.

“Sì, è di Elisabetta Enrico ed è stata pubblicata per interessamento della famiglia e del Comune di Ceppo Morelli. All’allora studentessa ho messo io a disposizione tutto il materiale esistente nella casa e l’ho accompagnata a visitare le chiese affrescate da De Giorgi. La tesi ha posto anche in evidenza l’attività di fotografo che aveva intrapreso a partire dagli anni venti del secolo scorso, sfruttando l’esperienza acquisita nel riprendere personaggi locali da lui messi in posa, i cui scatti utilizzava poi per la rappresentazione di scene sacre”.

 Giuseppe Possa

(L'articolo in parte è stato pubblicato anche su Eco Risveglio)

Intervista a Silvana Da Roit: autrice del romanzo “I tunnel di Oxilla”

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Nata nel 1960 a Domodossola, si è dedicata tardi alla scrittura, proponendo dal 2015 articoli sul sito “I racconti del viandante”, storie della Valle Ossola. Lettrice compulsiva fin da ragazza, ha ora pubblicato il suo primo romanzo, “I tunnel di Oxilla” (Edizioni Convalle). Intrigante e scorrevole, è un racconto nel racconto, in cui s’intrecciano vicende che si muovono su due piani storici diversi: fine Seicento e primi anni Sessanta. Una storia ben costruita, nella ricerca e riscoperta di segreti passaggi sotterranei nel borgo di Domodossola, ormai dimenticati nel tempo. Questo libro si pone al lettore con un’accattivante, limpida fusione, tra spunti di storia e fantasia, tra leggende sentite o inventate di sana pianta. Da leggere.

Da dove deriva la tua passione per la narrativa e quando hai iniziato a scrivere?

<<I libri sono sempre stati una buona compagnia, ci sono stati romanzi che mi hanno “salvato” la vita, soprattutto nell’adolescenza, ahimè, lontana. Al contrario, la passione per la scrittura è nata in tempi recenti, inaspettata>>.

Quali sono state le tue prime letture?

<<Prima dei dieci anni, a parte i classici per ragazzi, leggevo i gialli Mondadori e la serie Urania, rubandoli a mio padre. Ero una lettrice compulsiva, mi adattavo a leggere dall’enciclopedia a qualche romanzo che girava misteriosamente in casa, tipo “Cioccolata a colazione” di Pamela Moore o “Un albero cresce a Brooklyn” di Betty Smith. Non avevo un mentore, qualcuno che parlasse di libri, ma con l’avvento dei teleromanzi iniziai a conoscere autori come A.J. Cronin e più di una volta andai a leggermi, rigorosamente in biblioteca, romanzi da cui erano stati tratti bellissimi film come “Il buio oltre la siepe" della Harper Lee; poi, spulciando la sua biografia scoprii Truman Capote con “Colazione da Tiffany”, ma soprattutto “L’arpa d’erba”. Solo alla fine delle medie, ebbi modo, grazie a un’insegnante lungimirante, di aprirmi al mondo della letteratura italiana del Novecento: Moravia, Alvaro, Fenoglio, Bassani, Patti… Leggevo di nascosto Cesare Pavese, mia madre diceva che mi immalinconiva troppo>>.

Ci pensavi già da ragazza di fare la scrittrice?

<<Sinceramente, no. Forse lo sognavo, ma non facevo nulla per far sì che si avverasse. Inoltre, non posso considerarmi una scrittrice. Al massimo potrei definirmi una che racconta storie>>.

Parlaci un po’ di te: qualche vicenda biografica, i tuoi studi. Hai frequentato qualche corso particolare o specifico?

<<Sono nata e cresciuta a Domodossola. A parte gli anni delle elementari, frequentate a Vogogna, non mi sono mai allontanata troppo da questa cittadina. Ho imparato ad amarla anche quando mi stava stretta; forse, proprio da questo sentimento è nata la curiosità di conoscerne la storia. In quanto agli studi, - non ne vado troppo fiera - non ho dato gli ultimi tre esami per conseguire la laurea in filosofia. Ho scelto di costruirmi una famiglia, quel “nido” cui aspiravo essendo figlia di genitori separati e, per dedicare tempo ai miei figli, ho lavorato part time facendo la commessa, la segretaria di una associazione di viticoltori, pulizie in casa privata e in uffici; insomma, di tutto e di più. Quando i ragazzi si sono laureati, ho iniziato a ritagliarmi del tempo scrivendo piccoli articoli di storia su un sito aperto con l’aiuto del mio compagno: “I racconti del viandante”, storie della Valle Ossola. Capivo di non avere una penna scorrevole, anche se potenzialmente dotata, di non avere padronanza e non conoscere determinate tecniche (tu, signor “Pulviscolo”, ne sai qualcosa!) così, mi sono messa alla ricerca di un laboratorio di scrittura. Fortunatamente ho scelto quello di Stefania Convalle, scrittrice ed editrice>>.

Poi come hai proseguito?

<<Stefania considera i suoi laboratori come piccoli vivai dove far crescere le penne in cui crede, così un giorno mi ha chiesto se, per caso, non avessi già pronti dei racconti. “In realtà, ho terminato un romanzo breve, ma non penso possa interessare. È troppo legato alla storia locale”. Mi ha risposto di inviarlo lo stesso, il giudizio spettava a lei. Così, quasi senza crederci, mi son vista pubblicare “I tunnel di Oxilla” da Edizioni Convalle e ora frequento, oltre il laboratorio di scrittura, anche un suo corso di editing>>.

 “I tunnel di Oxilla”, cosa racconta? Dov’è ambientato? Perché hai scelto questo titolo?

<<Nel romanzo si narrano vicende ambientate nel borgo di Domodossola. Denominatore comune, la ricerca e la riscoperta di segreti passaggi sotterranei, dimenticati nel tempo e visti, ormai, come fantasie popolari. Posso dire che nel titolo sono già racchiusi gli elementi essenziali: i tunnel con i loro segreti e il luogo della loro appartenenza, Oxilla, uno dei tanti nomi con cui veniva chiamato il nostro borgo. Ho preferito Oxilla a Oxilia, perché meno inflazionato e serioso, inoltre si addiceva meglio a uno scritto che può ricordare, per certi versi, una fiaba>>.

La trama ha fondamenti reali, è ispirata da leggende o è frutto di fantasia? Ha qualcosa anche di autobiografico?

<<Essendo appassionata di storia locale, ho raccolto per lungo tempo informazioni sui passaggi sotterranei di Domodossola, muovendomi in tre direzioni: ricerche sui principali testi di storia; indagini sul campo scendendo in quasi tutte le cantine del centro storico e non, per verificare l’esistenza di aperture sui vari tunnel; decine di interviste con raccolta di testimonianze a persone che non solo ne avessero sentito parlare, ma che ne avessero percorso alcuni tratti. Alla fine, avevo un buon quantitativo di materiale che aspettava di essere romanzato. Diciamo che il tutto parte da una base storica reale ed è condito dalla fantasia. Anche le leggende, aggiunte qua e là e inventate di sana pianta, hanno la caratteristica della verosimiglianza. Basti pensare che il nome della protagonista femminile è stato scelto perché trovato in alcune annotazioni a lato di un breviario di fine Seicento; breviario scovato in un sottotetto del borgo da una delle tante persone intervistate. Ovvio che ci sia qualcosa di autobiografico, penso che tutti gli autori mettano un po' di sé nelle loro storie, ma è soprattutto concentrato nella parte dedicata ai primi anni Sessanta>>.

Il tuo è un racconto nel racconto, due storie che si sviluppano su piani diversi ed epoche differenti, che in un certo senso s’intrecciano: come ti è venuta quest’idea? Come lo classifichi, il romanzo?

<<È vero, sono due piani storici diversi. Uno è contestualizzato alla fine del Seicento ed è facile capire il perché. L’unica raffigurazione che mostra la nostra città è proprio del 1690 e di quel preciso momento storico avevo molte cose da dire. La dominazione spagnola agli sgoccioli, l’erezione del convento dei Cappuccini, il Sacro Monte Calvario, le piene del Bogna che ancora non aveva il suo muraccio o argine; in quel periodo il barone Stockalper viveva esiliato nella nostra città pur continuando i suoi affari ed era ancora vivo il ricordo della peste, delle grandi carestie, degli ultimi processi alle streghe della valle. Tanta roba cui attingere, sì, ma il problema era che non potevo romanzare alcune notizie che riguardavano il periodo successivo fino ad arrivare agli anni Sessanta; per questo ho dovuto intrecciare un’altra storia, partendo da un ragazzino che aveva trovato, guarda caso in solaio, un diario scritto secoli prima e in cui si parlava di tunnel. Qualche blog l’ha definito romanzo storico, io non sarei così netta; in fondo la parte storica è solo uno strumento per svolgere una trama. Per me è un romanzo alla portata di tutti e di tutte le età, anche grazie a una scrittura semplice, scorrevole>>.

I personaggi, le vicende, i tunnel sotterranei, oltre alla realtà romanzata, hanno anche qualche valenza metaforica, allegorica, simbolica?

<<I tunnel, o meglio la loro ricerca, hanno rappresentato un momento di divertimento in un periodo abbastanza difficile per me; quando ne sono uscita, nel senso che avevo compiuto la prima stesura, mi sono trovata diversa, più forte. Non avevo solo scavato nella storia, ma anche dentro me. Persino i protagonisti, quasi tutti ragazzini, cambiano perché vivono quell’esperienza come una sorta di iniziazione, il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, scoprendo il valore universale dell’amicizia>>.

Descrivi brevemente i personaggi principali, con le loro caratteristiche.

<<Marco è il protagonista della storia ambientata negli anni Sessanta. È un ragazzino timido, bullizzato dai compagni di scuola; vive una situazione famigliare delicata dovuta all’assenza della madre e al carattere scontroso del padre. Joanna Francisca e Cencio animano il racconto contestualizzato alla fine del Seicento. Lei è figlia di nobili, egoista, viziata, impertinente, ma piena di slanci; lui un orfano accolto dai frati, libero di muoversi nei meandri del borgo come un essere ramingo e invisibile. Sarà lui, nonostante le sue menomazioni, a guidare Joanna alla scoperta dei tunnel. Fanno da contorno personaggi in età avanzata che rappresentano il sapere e l’esperienza, mentre i famigliari sono poco delineati oppure pieni di lacune. Volutamente>>.

Com’è stato promosso il libro? E dove si trova o è distribuito?

<<Il romanzo è stato pubblicato a fine giugno, in un momento in cui non si potevano fare presentazioni varie. L’ho promosso sui social e soprattutto incontrando, una volta la settimana, gli eventuali lettori in piazza a Domodossola. Soprattutto la piazza Chiossi, dove c’è l’obelisco, è diventata teatro di questi bei momenti; in seguito, ho proposto ad altri autori questa pratica e ora è una realtà. Abbiamo costituito un gruppo aperto di autori ossolani contando sul nostro desiderio di farci conoscere. Devo dire che anche la mia editrice si spende molto, pubblicizzando i suoi autori attraverso i social, e la stampa. Anche per questo sono riuscita ad acquisire nuovi lettori su tutto il territorio nazionale. Attualmente il romanzo è in vendita presso l’unica edicola (Alj Domenico) presente in piazza Mercato di Domodossola e sull’ e-commerce di edizioni Convalle, visitando il sito www.edizioniconvalle.com>>.

Qual è stata l’emozione più grande che hai provato in questa tua prima esperienza?

<<A parte l’orgoglio di vedere il mio nome e la fotografia della mia mano in copertina, mi sono commossa nel leggere la dedica che avevo scritto: a mia nonna Lisetta, deliziosa affabulatrice>>.

Hai qualcosa di nuovo in preparazione? A cosa stai lavorando?

<<Ho appena inviato a Convalle il file del mio prossimo romanzo, niente di prettamente storico; volevo uscire dai tunnel una volta per sempre! Saprò se sarà pubblicato tra qualche mese e intanto sto abbozzando il terzo. Non si dice forse “Chi ha tempo non aspetti tempo”?>>.

(a cura di Giuseppe Possa)












(ai piedi dell'obelisco "letterario" di Piazza Chiossi a Domodossola, attorno al quale, da quest'anno, si radunano alcuni scrittori ossolani, per promuovere i loro libri. Da sx: la lettrice Mary Pianzola, il critico Giuseppe Possa, gli scrittori Domingo Tommasato, Gianluca Comunale, Antonella Marangoni, Silvana Da Roit)

“Affinità criminali” di Rocco Cento, il secondo romanzo di una trilogia iniziata con “Vietato morire”.

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DOMODOSSOLA - Non si è ancora spento il clamore suscitato da “Vietato morire”, il romanzo di Rocco Cento (Ed. Mnàmon, Milano) - in cui l’autore, ribaltando le paure umane con un divieto, tanto d’attualità in questo periodo, racconta dell’ordinanza di un sindaco che impedisce la morte ai viventi, anche per le difficoltà che la salute pubblica incontra perché troppo cara - che già è in edicola il secondo libro di una sua trilogia. Trilogia, scritta a partire dal 1990, che allo scrittore, un pensatore fuori dal coro, è servita per sviluppare la sua ampia visione del mondo, in quanto aveva bisogno di elaborare un testo esteso, che non era possibile esporre in un solo romanzo: un po’ come Proust, nella sua “Recherche”. A Cento, che da giovane fu anche assessore alla cultura del Comune di Domodossola, città dov’è nato nel 1954 e che in passato ha già dato alle stampe tre raccolte di poesie e due libri di prosa, facciamo qualche domanda.

“Affinità criminali”, perché questo titolo, che pare evocare brutalità e mostri? 

<<Molto sinteticamente posso dirti che il crimine, secondo me, è la “costante” della civiltà umana, fin da Caino che uccide il fratello. L’Illuminismo, la fede nella Ragione, nei miei testi, sono ribaltati, alterati, nell’affermazione della brutalità dell’essere umano. Dopo la Shoah è difficile scrivere, inoculare speranze. La “verità” del Novecento ha spalancato la porta sul baratro, quella natura bestiale dell’uomo che abbiamo conosciuto a partire da De Sade, incorreggibile libertino, nella decadenza complessiva del radicalismo borghese, fino a Mussolini, Hitler, Stalin, Pol Pot>>.

Ma c’è una trama nel libro e qual è?

<<Sì. La trama è uno spaccato, parziale, degli ultimi quarant’anni della nostra Valle. Unica particolarità è il “taglio” di questa storia, intesa sotto il profilo criminale. Come vedi ho inserito l’Ossola dentro questo ampio “canto” di vicende, considerazioni, di ascese e dissoluzioni umane, di fatti e misfatti, perché anche il nostro microcosmo ossolano rappresenta il macrocosmo dell’intera umanità>>.

Perché in quarta di copertina c’è scritto: “non aprite questo libro, verrebbe da dire”?

<<Perché non dà speranze, non è un testo consolatorio, è un pugno nello stomaco, è la “verità” che io ho provato, anche sulla mia pelle, di ciò che è l’uomo. Altrimenti detto, è la testimonianza di quanto ho preavvertito: la iena nascosta in ogni individuo. Il male. Un male che assume via via connotazioni differenti, differentemente enunciati: ndrangheta, massoneria, politica, droga, corruzione, prostituzione, pedofilia, finanche religione, fino ai “virus” di oggi e alla putrefazione sociale. Uccidere l’altro - nemico, avversario, uomo o donna - a vantaggio del cannibale, edonistico e individualista, che riposa in ognuno di noi. Cosa rimane, allora? Rimane la saggezza dell’accettazione, della rinuncia al cambiamento, la consapevolezza dell’impraticabilità del bene collettivo, se non nel privato, nel solipsismo, nella serena solitudine dell’anima, come dicevano gli antichi, nella perfetta tranquillità e serenità interiore>>.

Il romanzo, per concludere, fa riflettere: è duro e violento. Con una scrittura però sorvegliata, alta, ironica e graffiante, con una prosa tra paradossi e conflitti, nei quali si sviluppa il pensiero di Cento, che appare come una babele di linguaggi a imitazione del groviglio umano delle coscienze, dell’io, dell’individualismo sfrenato di questa era oscura. Nella quale ci costringono a morire, murati vivi nella libertà solitaria.

Giuseppe Possa







(G. Possa, R. Cento, S. Iacopino, G. Quaglia)












(articolo pubblicato anche su Eco Risveglio)

https://pqlascintilla.wordpress.com/2020/07/19/lultima-fatica-letteraria-di-rocco-cento-vietato-morire-romanzo-edito-da-mnamon-di-milano/

Intervista a Francis Sgambelluri, autore di “Ribelli non si nasce” (MnM Edizioni)

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Considero Francis Sgambelluri uno “scrittore ribelle”, uno dei narratori più autentici, emersi in questi ultimi anni, trascurati dalle grosse case editrici: un autore che riesce a fare, delle sue interminabili esperienze di vita e dei suoi innumerevoli incontri, materia di racconto. Nato nel 1942 in Calabria, quarto figlio d’una famiglia di braccianti e contadini, Sgambelluri aveva due anni, quando un uomo, senza una ragione, uccise suo padre con un colpo d’ascia in testa mentre lavorava nel campo. A sei anni suo zio Carlo gli disse qualcosa che lo colpì profondamente, suscitando in lui domande sulla vita, sul tempo, sulla morte, sull’esistenza o la non esistenza di Dio. Voleva risposte a questa sua improvvisa inquietudine interiore, ma non ne trovava e neppure lo zio sapeva fornirgliene, in modo esauriente.

Da quel momento in poi è iniziata la sua lotta, per allontanarsi dal luogo in cui è nato e poi dall’Italia; in seguito, si sacrifica per sopravvivere, per darsi un’educazione e dedicarsi allo studio. Ha vinto la sua battaglia: ha viaggiato in molti paesi e imparato parecchie lingue, tanto che negli anni Settanta ha aperto una scuola di lingue a Melbourne, in Australia, con successo. Per vicende impreviste, a fine anni Ottanta è approdato a Biella, dove vive tuttora, scrivendo, insegnando e dando alle stampe numerose pubblicazioni su argomenti vari. Da alcuni suoi racconti (la raccolta è intitolata <<Anch’essi non sono che parole>>) sono stati tratti dei film. Ha pubblicato quattro romanzi, tradotti anche all’estero: <<Fiori di Serra>>, <<Lis Finn>>, <<La svolta>>, <<Nicolò>> e <<Contro Corrente>> (un'opera narrativa giovanile), oltre a scritti su argomenti vari e alcuni libri di racconti, tra essi: <<Andando a Canberra>> e ora questo <<Ribelli non si nasce>> (MnM Edizioni, Mantova, per i quaderni di ControCorrente), in cui l’autore riesce ad offrirci un mondo di personaggi stimolanti della società contemporanea. In occasione dell’uscita di questa sua ultima fatica letteraria, ho approfittato per proporgli alcune domande.

Francis, partiamo da questo tuo ultimo libro di racconti. Perché “ribelli non si nasce”? Perché lo consideri “Il manifesto dell’antiarte”?

<<Ribelli non si nasce, ribelli si diventa. L’arte che noi conosciamo, è un’arte manipolata. Non ci sono artisti. Questi, quelli che noi chiamiamo artisti, sono in realtà servi, schiavi, dei nulla, sono tutti o quasi manipolati dai poteri forti. Tutto quello che fino a oggi abbiamo considerato arte, arte in realtà non è; è propaganda, è divulgare, è osannare, il potere. Detto diversamente, salvo qualche piccola eccezione, è scrivere, dipingere, poetare, comporre, scolpire, costruire, fare film, creare canzoni, spettacoli, opere, armonizzando gli organetti del “malaugurio” sul fare di quelli che governano il mondo, sfruttandoci. Non si parla infatti che di loro, dei loro “crimini” e misfatti. Tanto per dare qualche esempio, quando Michelangelo dipinge la “Cappella Sistina”, si rende cieco e schiavo dell’ideologia cristiana; quando Tolkien scrive “Il Signore degli Anelli”, si fa servo e bacchettone dei reali inglesi; quando Italo Calvino scrive “Il sentiero dei nidi di ragno”, auspica una società che non cambia mai, una società di vittime e carnefici; quando Tolstoj scrive “Guerra e Pace”, descrive uomini che vivono solo per il loro egocentrismo… e così via>>.

“Ribelli non si nasce, contiene venticinque narrazioni che hanno messo in evidenza i tuoi pensieri, le tue filosofie, le tue conclusioni, i tuoi personaggi, te stesso... leggerli è come scavare dentro le menti degli esseri umani e trovarci tutti concordi. Cosa ne dici tu?

<<C’è una scrittura che sentiamo, fiutiamo tutti ed è quella vera, reale, che parla col cuore in mano; e c’è una scrittura falsa, imbrogliona, disonesta, questa crea zizzania e non armonia>>.

Su alcuni racconti sono stati girati dei film?

<<Esattamente. Due parole solo a riguardo di uno di questi cortometraggi: “Mr Petersen nel Biellese” È il ritratto di Biella per come io l’ho vista quando sono arrivato qui dall’estero. Il regista, Maurizio Pellegrini, quando ha letto il racconto, ha voluto fare il film>>.

La tua vita è stata tutta un romanzo, l’hai riversata anche nei tuoi libri. Ce la vuoi riassumere in breve?

<<Sono apparso da un nulla e poi, strada facendo, ho capito che prima o poi sarei finito in un altro nulla. Questa idea mi ha traumatizzato. Dire che a volte sentivo i passi della Signora delle Tenebre è dire troppo poco>>

Ti sei interessato anche di politica, filosofia, psicologia ecc. oserei dire dei più importanti scibili umani. Le tue teorie le hai raggruppate in una trilogia (“Flash sulla storia dell’universo e dell’uomo”; “Dal nulla del nulla all’immortalità virtuale”; “Figlio degli elementi e del big bang, l’autobiografia cosmica d’un essere umano”) che non lascia spazio a nessun dopo. La vita si trascorre tutta qui e ora. Vuoi parlarcene?

Quest’opera, senza tante pretese e senza tanti giri di parole, si fa portatrice di tre idee fondamentali e sane. La prima: una nuova visione dell’universo e dell’essere umano per quello che sono e non per come noi abbiamo sempre fantasticato che fossero e, purtroppo, continuiamo a farlo. La seconda: l’immortalità virtuale. Cosa vuol dire? Vuol dire che quando scopriamo una legge cosmica che si ripete in eterno, diventiamo anche noi eterni. La terza: un’arte di vivere che se si applica correttamente, permetterà di trarne il massimo dalla vita in tutti i suoi aspetti e potenzialità e fare d’un secondo un’eternità e vivere l’eternità come se fosse fatta d’un secondo. Queste idee e altre sono nella mia Trilogia, il libro che avrei voluto comprare ma non l’ho trovato, quindi l’ho scritto>>.

A proposito dell’arte di vivere, in cosa consiste il suo principio, in breve?

<<Mi considero un libero pensatore e l’arte di vivere, in sintesi, te la posso riassumere così. A scuola si studia di tutto, eccetto la cosa più importante: l’arte di come vivere la propria esistenza. I miei incontri, all’Università Popolare di Biella, miravano proprio a questa: all’arte di vivere, che per come l’intendo io non ha nulla a che vedere con l’arte degli artisti: scultori, romanzieri, pittori, compositori, poeti, ecc. Affatto. Questi creano un’arte idealista, realista, eccentrica, originale, fantastica, fiction e via di seguito e, per farlo, applicano una certa tecnica, logica, forma, talento, stile, maestria creativa. Potremmo definirlo il loro “fare”, un artigianato estetico e geniale. Tutto ciò che si vuole, eccetto un’arte di vivere. Essi, infatti, sono gli ultimi a poter insegnare agli altri come vivere. Tolstoj, Baudelaire, Leopardi, Gauguin, Milton, Puccini, grandi artisti, certo, ma non di vita. L’arte di vivere uno se la deve conquistare studiandola e vivendola con perizia, saggezza e in diretto contatto con l’esistenza. Una volta che uno ha afferrato il concetto dell’evoluzione cosmica e darwiniana; una volta appreso come si è formata e costruita la società umana; una volta che si è emancipato culturalmente e filosoficamente dai mille specchietti per le allodole di cui è composto il tessuto storico… ecco che a questo punto il nostro personaggio è pronto per l’arte di vivere, pronto a diventare lo scultore e il poeta, non d’un prodotto immaginario, ma di se stesso. L’arte di vivere, la vera arte di vivere, inizia da qui: partendo da se stessi. Quella che io proponevo ai miei studenti dell’Università Popolare di Biella non partiva da idee estrose, da concetti mitologici, da bizzarri stili di vita, per nulla, prendeva l’avvio da una conoscenza viva e concreta dell’esistenza e del mondo. La scienza di quest’arte ritiene che la vita “è” un prodotto dal valore inestimabile e non la si può vivere come se fosse uno straccio, sarebbe un imperdonabile spreco e un vero e proprio crimine fisico e culturale: un suicidio a rilento. Ecco allora il bisogno di una scienza e di un’arte che ci permettano di vivere l’esistenza fino in fondo e nella sua totalità.

Quindi?

Il suo insegnamento è: Vivi e lascia vivere - godi e fai godere - ama e lascia amare e cerca di fare d’un secondo un’eternità e vivere l’eternità come se fosse fatta d’un secondo. Quest’idea, l’idea di un’“arte di vivere”, mi ha sempre affascinato e, grazie all’Università Popolare Biellese, l’ho potuta insegnare e sperimentare coi miei studenti. Non mi hanno deluso, sono stati tutti e sempre entusiasti e io con loro. Il nostro motto era: crescere insieme. A un certo punto, ho deciso di smettere d’insegnare l’inglese, che pur mi piaceva, per dedicarmi solo a questo insegnamento. E così, passo dopo passo, anno dopo anno, stava maturando in me anche l’idea di scrivere un libro. In realtà, poi, non era uno, ma 4 i libri che avevo in mente, per cui “Il testamento di Orazio Guglielmini” lo suddivisi così: “L’Indifferenza divina” - “Lo Stato predatore” - “Il Paese delle meraviglie” - “Ha un senso la vita?”.

Come si possono sintetizzare questi 4 volumi?

Il primo, “L’Indifferenza divina”, espone l’operato della religione: tutti noi, per com’è culturalmente impostata la visione del mondo, ci scontriamo prima o poi con questo argomento e vorremmo capire perché crediamo o non crediamo in quello che crediamo e non crediamo. In esso c’è anche la risposta a questo assunto, la mia. Il secondo, “Lo Stato predatore”, esamina l’impianto di questa istituzione. Tutti noi, in qualche periodo della nostra esistenza, desideriamo conoscere l’anima e il cuore di questo sistema che, in un modo o nell’altro, guida, domina e influenza la nostra vita. Anche qui ho dato una risposta la più obiettiva possibile. Nel terzo libro, “Il Paese delle meraviglie”, ho provato a scrivere, dalla nascita a oggi, la storia del paese in cui sono nato, perché, a mio modo di vedere, un essere umano, per esserlo (umani non si nasce) e per diventare un degno cittadino, deve conoscere la storia del proprio paese. Non quella che usualmente insegnano i testi ufficiali, spesso strumentalizzati, ma la storia vera. È quello che ho cercato di fare io ne “Il Paese delle meraviglie”. Il quarto e ultimo libro, “Ha un senso la vita?”, si propone una riflessione, dopo avere esaminato un certo numero di argomenti determinanti, sulla vita, e cioè se abbia o non abbia un senso. Chi, durante la sua esistenza, non si è mai fatto questa domanda: “Ha o non ha un senso la vita?”. La mia “arte di vivere”, in sintesi, è contenuta in questi quattro libri>>.

Tu hai sempre attaccato i falsi miti e le vecchie credenze: così l’impulso di emergere e di farsi strada nella vita con le proprie forze diviene per i protagonisti dei tuoi libri la giustificazione del loro essere al mondo. Spiegati.

<<In un mondo reale dovremmo vivere con dei valori reali. Purtroppo non è così. Il nostro mondo si nutre di falsità. C’è un protagonismo individuale e un protagonismo sociale. Io preferirei quest’ultimo quand’è piazzato in favore della società>>.

L’arte, la libertà, la giustizia, il desiderio di distruggere questo mondo dei potenti che non hanno nessuna considerazione per l’umanità, ci costringono a vivere in una civiltà mostruosa e fallita. Qual è il tuo pensiero in merito?

<<Cancellarla e rifarne un’altra. La vita non è facile per nessuna specie: è un incubo! Però gli esseri umani, volendo, potrebbero trasformarla in una società umanamente vivibile, accettabile>>.

Per concludere: miseria, amore, rabbia, morte. Tutto questo, e anche qualcosa di più c’è nei tuoi scritti, spesso autobiografici. Ti consideri un “testimone” del nostro periodo storico?

<<A mio modo di vedere la società, sì. Mi sento certamente un testimone del contemporaneo>>.

Giuseppe Possa

(a Biella: Giorgio Quaglia, Giuseppe Possa, Francis Sgambelluri, Giorgio da Valeggia)

 


GIORGIO DA VALEGGIA E IL SUO CICLO DEGLI “HOMETTI”

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Nella  crisi pandemica, che stiamo attraversando con grandi paure e disagi, ci pare di riconoscerci negli “Hometti”, attuali più che mai, dell’artista ossolano. Lui, però, ce li proponeva già trent’anni fa, con visionaria “luminosità”.

Lo so che non c’è bisogno di ciò che scrivo e che un mio “silenzio” sarebbe senz’altro più salutare e benefico di un testo che non aiuta a risolvere alcun problema. Ma è più forte di me proporre artisti non noti, che, per imperscrutabili leggi di mercato, non hanno quel pieno riconoscimento e diffusione che spetterebbe loro di diritto, anche perché a volte sono più validi di quelli famosi che vendono le opere a suon di milioni! Gli artisti che conosco e di cui m’interesso, possono anche essere sconosciuti al pubblico, però, con i loro quadri, sovente pongono domande inquietanti, ci fanno pensare e riflettere. Magari molto prima che “qualcosa” accada: proprio, come ora con una crisi senza precedenti: dei valori, economico-finanziaria e pandemica con distanziamento sociale.

A tale proposito, Giorgio da Valeggia trent’anni fa dipingeva i suoi “Hometti”, secondo me il più originale ed eloquente dei suoi cicli, terrificante e angosciante nella sua visione apocalittica, rappresentativo e riassuntivo delle innumerevoli decadenze delle civiltà, sia sotto l’aspetto contenutistico che espressivo. Negli Hometti, creature mostrificate, l’autore ha rappresentato simboliche larve umane, zombi che si presentano come immagini speculari dell’uomo contemporaneo, il quale privato dei valori, dei risultati conseguiti e delle certezze del passato, si trova smarrito e pauroso in una nuova torturata e contraddittoria dimensione sociale. In questi esseri zoo-antropomorfi, che sembrano lo specchio in cui vediamo riflessi i nostri fallimenti e le nostre delusioni, già allora, si potevano riconoscere le contraddizioni, i dubbi, le ribellioni, le crisi dell’uomo moderno e il limite della società capitalista. 

Giorgio da Valeggia, con taglio espressionista ci calava (e ancora di più ci cala in questo anno pandemico) nella palude di una società gelida e oppressiva, popolata di uomini-lombrico, per farci prendere coscienza della precarietà dell’esistenza e dei suoi progressi tecnologici e sociali, diritti questi ultimi, che per durare, devono essere “riconquistati” ogni giorno. Ma in pochi, forse allora, ne compresero la portata, non solo visionaria, ma anche artistica. Eppure, oggi, si ha la sensazione di muoverci nei suoi quadri e di provare le sue stesse emozioni.

Mitica è ormai l’esposizione di questi lavori nella mostra del 1994, nella frazione Valeggia di Montescheno, nella provincia del Verbano Cusio Ossola. Fu in quell’occasione che ne mediò il nome d’arte, com’è raccontato nel libro “La Barca della Provvidenza” che l’autore ha pubblicato per i quaderni di “ControCorrente” (e che consiglio di leggere, chiedendolo a

).

Ma altrettanto mitica è ormai la mostra itinerante nelle frazioni di Bognanco (VB) dell’estate del 2008, in cui, a partire dalla frazione S. Martino, completamente disabitata e abbandonata da decenni, ma ripulita per quella manifestazione, si riproponevano, quindici anni dopo, quelle stesse opere. Da non dimenticare , inoltre, la storica e scenografica antologica, Quinto Stato”, del 2015 alla Fabbrica Morino di Vogogna.

Giuseppe Possa

 

 

 

 

 

 



(Giuseppe Possa e Giorgio da Valeggia)

<<La pittura per me rappresenta la vita, è un’esigenza interiore per meglio comprendere il mio essere al mondo. Con essa esprimo le mie emozioni, i miei sentimenti, lasciandomi guidare dalle intuizioni interiori, dalla fantasia, dall’ispirazione del momento. La pittura è per me la via d’uscita dalle ansie, dalle paure, dalle preoccupazioni, perché rappresentandole riesco ad esternarle e quindi mi sento più sereno, più felice, più vivo>> (Giorgio da Valeggia)

<<Giorgio da Valeggia, uomo schivo e artista non "compromesso" dalle mode del tempo, ha dedicato con tenacia la sua esistenza – come ha scritto Laura Savaglio - al continuo, costante studio della psiche umana per riportare su tela i risultati di questa indagine. Egli non può (ed egli stesso non vuole) essere etichettato in una corrente pittorica, ma le sue tele, espressioni a cavallo tra l'onirico ed il surreale hanno hanno fatto sì che il critico Giuseppe Possa definisse la sua arte "psicopittura">> (Laura Savaglio)

Link di “PQlaScintilla” per approfondire la conoscenza del pittore Giorgio da Valeggia

http://pqlascintilla.ilcannocchiale.it/2010/02/17/lettura_di_alcuni_quadri_di_gi.html

http://pqlascintilla.ilcannocchiale.it/2009/04/07/la_mia_ombra_ed_io_sul_cammino.html

http://pqlascintilla.ilcannocchiale.it/2010/03/23/giorgio_da_valeggia_la_barca_d.html

http://pqlascintilla.ilcannocchiale.it/2011/06/16/larte_in_val_bognanco_con_gior.html

http://pqlascintilla.ilcannocchiale.it/2015/04/28/quinto_stato_mostra_antologica.html

https://pqlascintilla.wordpress.com/2018/10/31/andromia-il-nuovo-romanzo-di-giorgio-da-valeggia/

https://pqlascintilla.wordpress.com/2016/06/18/il-lungo-filo-rosso-di-giorgio-da-valeggia/

(G. Possa G. Quaglia e G. da Valeggia)


La poesia del colore di Alfredo Belcastro (Omegna, 1893 – S. Maria Maggiore 1961)

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https://pqlascintilla.wordpress.com/2021/01/02/la-poesia-del-colore-di-alfredo-belcastro-omegna-1893-s-maria-maggiore-1961/

S. MARIA MAGGIORE - Nel 2021, sono sessant’anni che è scomparso il pittore Alfredo Belcastro e la Valle Vigezzo si appresta a festeggiarne l’anniversario, poiché ritenuto, dopo i grandi maestri di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento, uno dei più significativi artisti locali. Egli espresse la sua personalità consegnandoci opere paesaggistiche suggestive, sorrette dalla “poesia” del colore e da una tematica esemplare e palpitante.

Nato a Omegna nel 1893 da una famiglia di albergatori, trasferitasi nel 1905 in Val Vigezzo, mostrò fin da ragazzo spiccate doti artistiche che lo spinsero, ben presto, a frequentare la Scuola di Belle Arti Rossetti Valentini di S. Maria Maggiore, sotto la guida dei maestri Sella e Comelli (il padre, contrastato nei propri desideri, aveva comunque ceduto solo dopo aver sentito il parere favorevole di Enrico Cavalli). Alla fine della prima guerra mondiale (a cui aveva partecipato in un primo momento nell’Aeronautica e successivamente, dopo aver subito un grave incidente, negli Alpini) frequentò pure le Scuole d’Arte e Decorazione di Milano e di Torino e in seguito riprese l’attività di pittore, aprendo il suo studio a S. Maria Maggiore.

Si sposò nel 1934 con l’insegnante Angela Antonioli. Dopo una fugace parentesi “divisionista” intorno agli anni Trenta, raggiunse una propria maturità stilistica che lo fece classificare come un pittore tradizionale, ma con evidenti segni di modernità. Nel frattempo, la sua fama si estese non solo nell’Ossola, ma anche in campo nazionale, infatti, partecipò a esposizioni collettive e allestì personali un po’ ovunque.

Nel lontano 1954 tenne l’ultima mostra a Intra e fu insignito della <<Commenda al merito della Repubblica>> per l’attività pittorica, ma ormai cominciava a soffrire di quei disturbi al cuore e ai reni che, oltre a non permettergli di continuare a dipingere, gli indebolirono sempre più la salute. Morì il 23 giugno 1961 nella sua villetta-studio “Il nido del sole” a S. Maria Maggiore.

I soggetti delle sue opere - fossero essi paesaggi alpini o lacustri, boschi, isole, ruscelli, cascate, baite, oppure il silenzio delle alte quote, dei cieli freddi o delle vette fra le quali appaiono smarrite le nuvole - li trovò quasi sempre nella sua terra, dipingendo quadri che sono un continuo elogio alle vive e luminose bellezze dell’Ossola, del Cusio e del Verbano. Sarei spinto ad affermare che egli ebbe un’anima georgica, virgiliana; infatti, Belcastro, seppe sempre esprimersi con delicato lirismo. I tanti saggi critici e cataloghi a lui dedicati (l’ultimo quello curato da Dario Gnemmi, con la collaborazione di Alessandro Giozza) sono stati un degno e doveroso omaggio a questo artista, il quale, avendo sempre lavorato con serietà, con spontaneità d’intenti e con validi requisiti tecnici, ha potuto artisticamente sopravvivere al tempo ed essere ancora oggi apprezzato.

Giuseppe Possa












(articolo pubblicato anche su Eco Risveglio)

È morto Giuliano Crivelli, artista ossolano

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https://pqlascintilla.wordpress.com/2021/01/11/e-morto-giuliano-crivelli-artista-ossolano/

DOMODOSSOLA - La scomparsa del pittore Giuliano Crivelli, avvenuta l'11 gennaio 2021, lascia un vuoto incolmabile nella cultura ossolana. La musica e l’arte furono le sue due passioni, al punto che, quando in tarda età smise di suonare, proseguì a dipingere musicisti e i loro svariati strumenti, che qualche anno fa raggruppò in un catalogo, “The saxophone on jazz parade”: un “concertato” variopinto di grafiche, incisioni, tecniche miste e disegni che, raffigurati in immagini “suoni” e scale “musicali” (l’autore è stato professore di musica, dando pure vita a diversi gruppi e complessi). Quel catalogo gli fu tradotto e stampato in inglese e ricordo ancora Crivelli, ormai ottantaquatrenne, con che entusiasmo m’informava di ritorno dagli Stati Uniti, del successo che aveva ottenuto quell’anno durante il jazz festival di Detroit, dove era stato invitato a esporre per l’occasione nel salone antistante al Millenium Auditorium del Marriott, nel centro del grattacielo della General Motors. Christopher Collins, saxofonista, presidente e direttore artistico del Festival, tra l’altro, scrisse: <<Crivelli è quel raro artista che esiste in molteplici dimensioni e che irradia maestria, virtuosismo e una singolare visione della condizione umana>>.

Nato a Novara, nel 1935, la sua famiglia si trasferì presto a Domodossola, dove completò gli studi. Pittoricamente, è stato allievo del maestro Nino Di Salvatore, negli anni Cinquanta, da cui apprese i segreti dell’arte. Durante gli anni giovanili ha studiato violino all’Istituto Musicale Brera di Novara. In seguito a Milano ha studiato flauto con Marlaena Kessic, sino al diploma conseguito al Conservatorio “Benedetto Marcello” di Venezia.

Dopo il matrimonio, visse sempre a Trontano (dalla moglie scomparsa di recente ebbe il figlio Stefano e la figlia Fanny. Giungano loro, da Giorgio Quaglia e da me, le nostre sentite condoglianze).

Giuliano Crivelli, a partire dagli anni Sessanta è diventato uno degli artisti più talentuosi della nostra provincia, in modo sincero, spontaneo, entusiasta, anticonformista, senza scendere mai a compromessi di mercato, ma portando avanti una personale ricerca, sviluppandola in piena libertà. E’ difficile, oggi, collocare Crivelli in un movimento o in una categoria, poiché egli si è impegnato in ogni espressione artistica, dalla pittura ad acrilico all’incisione, dall’acquerello alle tecniche miste in una costante e innovativa creazione. Invenzioni, innovazioni, idee e stimoli non gli mancavano e lo hanno sempre accompagnato e guidato, maturando così una grande esperienza che gli ha consentito di essere apprezzato e di esporre in Europa, Asia e America, ottenendo ovunque consensi di pubblico e di critica.

Pur restando sempre residente nella sua terra, ha maturato esperienze fuori dal territorio provinciale, che hanno contribuito a forgiare la sua creatività, le sue invenzioni figurative uniche: un anno intero trascorso a Teheran tra il 1955 e il 1956; per diversi mesi ha soggiornato in Canada a Vancouver nel 1973 e poi negli Usa a Key West; a Boston ha frequentato la Berklee School, a New York City  e ancora a Miami ha trascorso un lungo periodo nel 2003. Numerosi acquerelli ha dipinto nei viaggi del 1976 a Malta, in Spagna e Portogallo (in compagnia di Carlo Pessina). Bisogna, subito, precisare che questa vasta produzione acquerellistica al suo attivo era giustificata dalla facilità, rispetto alla pittura, di fissare sulla carta anche i "sopralluoghi" (come affermava lui “mascherati da vacanze”) in molte località: isola d’Elba, Sicilia, Liguria, Marche, Lazio (in particolare Roma). Non vanno dimenticati, al ritorno da Teheran, i lavori eseguiti durante le lunghe fermate a Bagdad, Damasco, Beiruth e Alessandria d'Egitto.

In fondo, il suo operare ha sempre suscitato risonanze emotive, ha espresso vissuti personali, miti, eredità del passato, aperture e prospettive per il futuro colte nel presente, per questo lo ritengo fortemente innovativo e originale.

La lunga ricerca artistica di Crivelli, non manierista né accademica, proprio attraverso la “risonanza” del colore, il più delle volte calibrato, altre volte acceso, con i suoi effetti di luci e ombre, ha abbracciato un incanto celestiale, percorso da una fremente dinamica di luci immaginarie e crepitanti, eppur tutte atmosferiche, perché ricondotte a dimensioni terrene.

Artista poliedrico, dalle innumerevoli ricerche, fatte con passione, professionalità e soprattutto condotte con grandi sentimenti e con il cuore, dove contenuto e forma (come si diceva una volta, e di cui oggi si è perso il senso) vanno di pari passo, riuscì proprio per questo a scuotere emozioni negli animi di chi osservava le sue opere.

A me sembra che Crivelli, nei suoi dipinti, oltre al rispetto rigoroso di un'esigenza estetica, sia riuscito a recuperare la Natura silenziosa, quella che restituisce l’essenza vitale di tutto ciò che appartiene al cosmo e i cui colori (nei quali racchiuse la Natura) inquietano e struggono l’animo, ma non mancano di aprire a speranze future.

Nei suoi quadri il cielo e la natura - osservati con l’occhio del poeta, ma anche con l’orecchio appassionato del musicista capace di ascoltare i canti degli uccelli, il fruscìo del vento tra le piante, i suoni dell’acqua che scorre - continueranno a vivere con i colori magici del pittore sensibile al lirismo del paesaggio e al misticismo di un’arte tutta assorta nel fulgore del silenzio, che non trascura l’aspetto trascendente dell’esistenza. Nella sua lunga carriera ha tenuto numerosi concerti jazz e allestito mostre personali in Italia e all’estero.

Giuseppe Possa












G. Crivelli e G. Possa                                          G. Crivelli e G. Quaglia

Altre notizie su Giuliano Crivelli pubblicate dal blog www.pqlascintilla.wordpress.com

https://pqlascintilla.wordpress.com/2018/12/16/rime-colorate-di-giuliano-crivelli

https://pqlascintilla.wordpress.com/2019/09/17/crivelli-ha-esposto-al-detroit-jazz-festival/#more-3481

https://pqlascintilla.wordpress.com/2017/11/26/mostra-a-domodossola-e-volume-di-giuliano-crivelli

https://pqlascintilla.wordpress.com/2017/07/16/the-saxophone-on-jazz-parade-nuovo-libro-di-giuliano-crivelli

Un calendario da collezione, tra arte e poesia, con le fotografie di Mario Pasqualini

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Il calendario della Domo Graniti 2021

https://pqlascintilla.wordpress.com/2021/01/13/un-calendario-da-collezione-tra-arte-e-poesia-con-le-fotografie-di-mario-pasqualini/

DOMODOSSOLA - È stato realizzato con le suggestive immagini del fotografo paesaggista Mario Pasqualini il calendario che la società Domo Graniti, nonostante le recenti difficoltà legate alla pandemia, ha approntato per il 2021, da distribuire ai propri clienti. L’azienda domese leader nel settore lapideo, specializzata nell’estrazione e commercializzazione di blocchi e lastre di serizzo che esporta in tutto il mondo, lo ha intitolato “Paesaggio a Nord Ovest”: “Parafrasando” come ci informa Giuseppe Galletti che l’ha ideato, “il nome della rotta artica che collega gli oceani Atlantico e Pacifico, nonché la famosa trasmissione televisiva condotta anni fa da Piero Angela, oltre che il romanzo e il film usciti negli anni ’40 con quello stesso titolo”. Infatti, la prestigiosa pubblicazione, nel formato cm. 62x43, riproduce vedute e scorci delle Valli Ossolane, situate appunto nel Nord Ovest d’Italia, che mettono in risalto alcune bellezze ossolane. Si va dalla copertina con “La scheggia vista da Craveggia, Valle Vigezzo”, ai singoli mesi con “Riale, Val Formazza”, “Cheggio, Valle Antrona”, “Alpe della Satta, Parco Naturale Alpe Devero”, “Lago Bianco, Parco Naturale Alpe Veglia”, “Torrente Crotto Rosso, Vanzone con San Carlo, Valle Anzasca” e così via, per concludere con la “Chiesa della Noga, Villadossola”. Tredici istantanee, professionalmente di alta qualità, le quali ben s’intonano con i mesi e le stagioni, tanto da apparire su questo calendario da collezione, come autentiche opere tra arte e poesia, che il fotografo di Villadossola, ha colto anche in lunghe escursioni in montagna con un progetto preciso, scattando in ambienti e paesaggi caratteristici, che lo hanno emozionato profondamente.

Giuseppe Possa










G. Possa e M. Pasqualini

Mario Pasqualini, nato a Milano nel 1947, risiede in Ossola da quarant’anni. Ha iniziato a fotografare usando una Reflex analogica, poi la passione per la pittura ha prevalso sulla fotografia, alla quale è però tornato a dedicarsi con l’avvento del digitale.

https://pqlascintilla.wordpress.com/2019/01/21/mario-pasqualini-espone-al-formont-di-villadossola-fino-al-28-febbraio/#more-3033

https://pqlascintilla.wordpress.com/2019/11/11/mario-pasqualini-sinuose-cavita-domomossola-potpourri/#more-3735

https://pqlascintilla.wordpress.com/2019/05/29/boschi-dipinti-mostra-di-mario-pasqualini-a-domodossola/#more-3179








Il mio articolo è apparso anche su Eco Risveglio

Un calendario da collezione, tra arte e poesia, con le fotografie di Mario Pasqualini

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Il calendario della Domo Graniti 2021

https://pqlascintilla.wordpress.com/2021/01/13/un-calendario-da-collezione-tra-arte-e-poesia-con-le-fotografie-di-mario-pasqualini/

DOMODOSSOLA - È stato realizzato con le suggestive immagini del fotografo paesaggista Mario Pasqualini il calendario che la società Domo Graniti, nonostante le recenti difficoltà legate alla pandemia, ha approntato per il 2021, da distribuire ai propri clienti. L’azienda domese leader nel settore lapideo, specializzata nell’estrazione e commercializzazione di blocchi e lastre di serizzo che esporta in tutto il mondo, lo ha intitolato “Paesaggio a Nord Ovest”: “Parafrasando” come ci informa Giuseppe Galletti che l’ha ideato, “il nome della rotta artica che collega gli oceani Atlantico e Pacifico, nonché la famosa trasmissione televisiva condotta anni fa da Piero Angela, oltre che il romanzo e il film usciti negli anni ’40 con quello stesso titolo”. Infatti, la prestigiosa pubblicazione, nel formato cm. 62x43, riproduce vedute e scorci delle Valli Ossolane, situate appunto nel Nord Ovest d’Italia, che mettono in risalto alcune bellezze ossolane. Si va dalla copertina con “La scheggia vista da Craveggia, Valle Vigezzo”, ai singoli mesi con “Riale, Val Formazza”, “Cheggio, Valle Antrona”, “Alpe della Satta, Parco Naturale Alpe Devero”, “Lago Bianco, Parco Naturale Alpe Veglia”, “Torrente Crotto Rosso, Vanzone con San Carlo, Valle Anzasca” e così via, per concludere con la “Chiesa della Noga, Villadossola”. Tredici istantanee, professionalmente di alta qualità, le quali ben s’intonano con i mesi e le stagioni, tanto da apparire su questo calendario da collezione, come autentiche opere tra arte e poesia, che il fotografo di Villadossola, ha colto anche in lunghe escursioni in montagna con un progetto preciso, scattando in ambienti e paesaggi caratteristici, che lo hanno emozionato profondamente.

Giuseppe Possa










G. Possa e M. Pasqualini

Mario Pasqualini, nato a Milano nel 1947, risiede in Ossola da quarant’anni. Ha iniziato a fotografare usando una Reflex analogica, poi la passione per la pittura ha prevalso sulla fotografia, alla quale è però tornato a dedicarsi con l’avvento del digitale.

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