Salvo Iacopino articola il suo discorso poetico intriso di riflessioni raffinate e sorvegliate da risonanze universali, che è venuto maturando nel corso degli anni. In esse, la ricerca semantica e linguistica si dispiega in strutture limpide e appropriate, intense e sofferte; le parole, le aggettivazioni, sempre forbite, il ritmo sinuoso e musicale, rendono più corposo lo spessore dei suoi versi, i quali scaturiscono da cadenze della nostra migliore tradizione, da percorsi dell’inconscio o da pause del silenzio, che coinvolgono la partecipazione emozionale del lettore. Infatti, la sua poesia irradia sentimenti e trepidazioni nel percepire la vita, là dove pulsa in profondità. Ne consegue un messaggio convincente nella sua umanità e la componente meditativa contiene la dimensione lirica, le ragioni del cuore, una speranza cosmica e un pathos umano di fronte alla caducità dell’esistenza.
Per conoscerlo nel profondo, sia come poeta, sia come intellettuale, gli ho proposto una serie di domande, le cui risposte ce lo rendono in tutte le sue qualità liriche ed emotive (Testi sulla vita e sulle opere di Salvo Iacopino si possono trovare consultando i link posti alla fine dell’intervista).
Innanzitutto, cos’è la poesia?
Io non credo si possa definire razionalmente la poesia. Certo, si può tentare di coglierne e descriverne alcuni aspetti, come ad es. la sua differenza dalla prosa, ma non la si può definire nella sua essenza. Essa è un fatto dello spirito più che dell’intelletto. Ha in sé un qualcosa di misterioso e il mistero, ovviamente, è indefinibile. Del resto, la rivoluzione del Novecento (penso in particolare alla grande libertà metrica, che ha affrancato la poesia dalle strutture chiuse e dalle esigenze di rima, strofa, ecc., aprendo ai versi liberi) ha evidentemente aumentato la difficoltà di definirla. Naturalmente, l’impossibilità di una definizione rigorosa non giustifica l’adozione di luoghi comuni, come quello per cui <<tutto è poesia>>, come quando chiamiamo poetica un’immagine, un tramonto, un’espressione sentimentale, dimostrando in tal modo di confondere la poesia con la generica categoria del “poetico”. Allo stesso modo, non si può definire poeta chiunque provi ed esprima emozioni o sentimenti profondi, caratteristica, questa, che evidentemente attiene ad ogni uomo (ogni uomo, infatti, prova sensazioni, emozioni, sentimenti, ecc.). Poeta è colui che non soltanto “sente” (sia pure, spesso, con una sensibilità particolare), ma che riesce a tradurre efficacemente in immagini e parole quegli impulsi, quelle sensazioni. In un certo senso, la poesia è una sfida alla indicibilità del sentimento. Di per sé, infatti, il sentimento è incomunicabile: noi non trasferiamo agli altri i nostri stati d’animo (la nostra gioia, il nostro dolore), ma soltanto parole. Ecco, la poesia può forse aiutare a superare, in parte, l’indicibilità del sentimento. Ma, attenzione: non si tratta semplicemente di comunicare i propri sentimenti. Poeta è colui che riesce ad andare oltre la propria biografia, per arrivare a quel sostrato comune dell’animo umano, grazie al quale il lettore, leggendolo ci si ritrovi, trovi cioè se stesso in quei versi.
Ma tu perché scrivi poesie? Cos’è per te la poesia?
Per me la poesia è un mezzo per lasciare che emerga e che trovi una qualche forma quel magma di emozioni e sentimenti che si agita nella mia più profonda intimità. Quindi, scrivo poesia per dare sfogo a quella necessità comunicativa sentimentale che a volte sento dentro di me. Mi viene in mente, a proposito di questa tua domanda, il commento del professor John Keating (Robin Williams) nel film "L'attimo fuggente": <<Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore…, sono queste le cose che ci tengono in vita>>.
Parlaci del tuo incontro con la poesia a scuola e di com’è nata dentro di te.
Beh, a scuola non credo di averla incontrata, se non distrattamente. Il mio amore per la poesia non è nato tra i banchi di scuola. E in verità, credo che raramente ciò accada a qualcuno, malgrado la professionalità, la passione e l’impegno degli insegnanti. I programmi scolastici e l’impostazione delle antologie sembrano fatti apposta per allontanare gli studenti dalla poesia. Nelle Antologie scolastiche troviamo sempre i soliti pochi autori, dei quali si propongono sempre le stesse tre o quattro poesie, e spesso pure le più difficili. Da parte loro, i programmi scolastici affogano la poesia all’interno di uno studio tecnico e storicistico della letteratura, utile forse a formare degli esperti di storia della letteratura, non certo a creare degli amanti della poesia. Proprio per il loro impianto storicistico, infatti, i programmi sono impostati su una lunga sequenza di nomi, biografie, movimenti letterari, opere, scuole di pensiero, ecc. A volte, la singola poesia sembra soltanto funzionale a conoscere la biografia dell’autore. Ma secondo te, l’alunno si appassiona alla poesia e si apre alla possibilità dell’esperienza estetica leggendo “Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia” o studiando la biografia e il mondo culturale di Leopardi? Certo, a scuola si studiano anche i versi de “Il canto notturno….”, ma solitamente lo si fa dopo aver studiato il contesto storico, la vita dell’autore, il mondo culturale di appartenenza, la sua vicinanza o meno ad una determinata scuola poetica, ecc.; e quando finalmente si arriva alla poesia, eccola ingabbiata in schemi, esercizi, analisi del testo, studio delle figure retoriche… Una tale mole di informazioni che rischia di provocare nei ragazzi noia e rigetto. Certo, anche la conoscenza tecnica è importante, ma un alunno dovrebbe leggere la tale lirica di Montale per godere delle immagini e della forza che sprigiona da essa, non per apprendere la tecnica del correlativo oggettivo. Per questo, ci sarà tempo! Insomma, come per la biografia e per il contesto storico-culturale dell’autore, fatte salve le necessarie nozioni essenziali, anche l’insegnamento dell’aspetto tecnico-formale delle poesie sarebbe meglio, secondo me, che fosse demandato ad un secondo momento: quello nel quale si andrà a studiare in maniera appunto tecnica e approfondita, la storia della letteratura. La poesia invece andrebbe sperimentata liberamente in aula, letta e fatta leggere, soltanto per goderne esteticamente. Tornando, comunque alla tua domanda, non saprei dire come sia nata questa passione dentro di me: <<Accadde in quell'età... La poesia/ venne a cercarmi. Non so da dove/ sia uscita, da inverno o fiume./ Non so come né quando,/ no, non erano voci, non erano…/ parole né silenzio,/ ma da una strada mi chiamava,/ dai rami della notte...>> sono i primi versi di una bellissima lirica di Pablo Neruda, che credo esprima bene questo affiorare inaspettato ed enigmatico della poesia dall’interno dell’anima.
Da dove ha origine la tua poesia? Si lega più al passato o al presente? Ha uno sguardo al futuro?
Credo si leghi soprattutto alla memoria. Ma non nel senso della celebrazione nostalgica di un passato che non c’è più. È una memoria di ieri che interagisce con l’oggi, una memoria del passato che esercita una funzione trasformatrice sulla percezione del presente e sull’immaginazione del futuro, risultando essa stessa ridefinita da queste. Del resto, cosa sono passato, presente e futuro? Il tempo della coscienza è uno e indivisibile. Ogni momento abbraccia e include tutti gli altri. Così, in un certo senso, il tempo non “passa”, non si muove, non scorre da nessuna parte: sono io che mi muovo nel tempo, chiamando ieri il movimento del ricordo e domani quello del sogno o desiderio. Ciò che giace nell’animo è senza tempo. E senza tempo è la poesia.
Tu utilizzi rime, assonanze, versi metrici ecc. Perché questa preferenza?
Innanzitutto io ritengo che anche per chi voglia scrivere in versi liberi, la consapevolezza metrica (relativamente almeno al computo delle sillabe, agli incontri di vocali, al ritmo, all’andamento dei versi, ecc.) sia un punto di partenza imprescindibile. Nella poesia contemporanea il verso sembra essersi ridotto ad un semplice fatto grafico: sembra cioè che basti spezzare la frase andando a capo ogni tanto per avere dei versi, laddove invece nella poesia classica, il verso è costituito da un numero ben definito di sillabe, raggruppate oltre che a livello grafico, a livello metrico, ritmico e sintattico. Naturalmente, non sto dicendo che si debba scrivere in metro, ma che, anche solo per andare oltre la scrittura in metro, anche solo per superarla, occorra prima conoscerla. Altrettanto necessaria – e non solo, questa volta, in termini di consapevolezza – è l’eufonia del verso, la musicalità della poesia, la quale dipende, oltre che dal suono delle singole parole, anche dalla loro disposizione, dalle rime, dal ritmo, dalle assonanze, allitterazioni, ecc. Il suono delle parole, inoltre, andrebbe scelto anche in funzione del clima e dello stato d’animo che si vuole creare (la grandezza di un Pascoli o di un D’Annunzio, è anche quella di riuscire, attraverso, appunto, il suono delle parole, ad indirizzare i lettori verso uno stato d’animo allegro piuttosto che triste, agitato piuttosto che sereno, ecc.). Nel mio piccolo, cerco di essere molto attento alla forma: scrivo in versi sciolti, prevalentemente endecasillabi e settenari, cercando di prestare la dovuta cura alla musicalità del verso. Naturalmente, la poesia non è soltanto una questione estetica. L’aspetto formale è imprescindibile, ma pur sempre strumentale: alla fine, quel che conta è il contenuto. Sicché, in definitiva, il mio tentativo è di tenere insieme forma e contenuto, tentare cioè di raggiungere un buon equilibrio tra l’aspetto formale e quello contenutistico della poesia.
Quando scrivi versi pensi a un lettore particolare?
Tranne che per quelle poesie che hanno un preciso destinatario, direi di no: non penso ad un lettore particolare. Ma ciò non significa che io scriva prescindendo dal lettore. Tutt’altro: la figura del lettore, sia pure di un generico lettore, mi è sempre presente, anche perché la poesia deve parlare al lettore e del lettore. Anche nella poesia cosiddetta lirica, infatti, il testo non può riguardare esclusivamente l’io, colui cioè che parla in prima persona, ma deve dare al lettore la possibilità di identificazione e di condivisione. La suggestione emotiva del testo deriva appunto dal fatto che esso esprime qualcosa che anche il lettore ha provato o potrebbe provare. Del resto, per quanto mi riguarda, è proprio l’attenzione al lettore che mi spinge a pormi spesso il problema della comprensibilità del linguaggio.
A proposito di comprensibilità, cosa pensi dell’oscurità di certa poesia?
Solitamente, un certo grado di oscurità nella poesia è un fatto intenzionale, che serve a preservarne il mistero, a darle un’atmosfera indefinita e incerta, che la rende più affascinante. Se una poesia si capisce troppo, se è eccessivamente chiara, infatti, perde di fascino. Allo stesso modo però, una poesia troppo oscura, una poesia di cui non capisco nulla, perché, ad es., a livello lessicale e sintattico è poco accessibile, è una poesia che perde ai miei occhi ogni interesse. Occorre trovare il giusto equilibrio. Naturalmente, bisogna distinguere: una cosa è l’oscurità, lessicale o sintattica, altra cosa è la difficoltà di concetto. La mia critica, naturalmente, è rivolta alla prima. Per quanto mi riguarda, io cerco di fare (ma ovviamente non è detto che ci riesca) una poesia anche concettualmente profonda, dal significato magari un po’ ambiguo e indeterminato, che però non sia mai troppo oscura lessicalmente; una poesia la cui parola sia chiara, aderente agli oggetti, e però capace di trasmettere visioni, di portare con sé schegge di un senso ulteriore. Il fascino dei versi, secondo me, risiede appunto nella loro natura polifonica, nella stratificazione semantica, piuttosto che in un alone di oscurità, magari artificiosamente ricercato.
In che modo andrebbero lette e interpretate le poesie?
Intanto, ci sono poesie che non richiedono di essere interpretate, perché non vogliono comunicare un concetto, ma semplicemente evocare un sentimento, un’immagine. Spesso il testo poetico opera una comunicazione emotiva, subliminale, che giunge al cuore senza passare per l’intelletto. Ma anche laddove l’interpretazione si ponga, dobbiamo tener presente che la poesia non è un enigma, che chiede di essere risolto; è un testo aperto, contenente significati diversi, domande che possono avere più di una risposta. Non c’è una soluzione interpretativa. Le interpretazioni di un lettore o le spiegazioni di un acuto critico letterario, non chiudono il discorso una volta per tutte, perché raramente il significato della poesia è univoco. Sicché, la mia lettura di una data poesia, anche quando non sarà migliore della tua, potrà sempre essere diversa.
Quali sono i poeti che ti hanno formato e che più hanno influito su di te? Quali sono stati i tuoi modelli o maestri poetici? Quali gli autori preferiti?
Non so se si possa parlare di veri e propri modelli o maestri. Di sicuro anch’io, come chiunque altro, ho i miei poeti preferiti. Pur leggendo, a partire dai Lirici greci, un po’ di tutto, la mia conoscenza dei grandi Classici è piuttosto superficiale: la poesia che meglio conosco è quella italiana dell’Otto-Novecento, da Leopardi a Pasolini, passando per Pascoli, Ungaretti, Montale, Quasimodo, fino ai poeti della generazione di Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, ecc. Amo, in particolare, leggere gli autori del primo Novecento, quelli che ruotavano intorno alla Rivista la Voce, soprattutto Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora e Dino Campana. Ho una conoscenza invece poco profonda degli autori post-sessantottini, come Fortini, Giudici, Raboni. Se, però, devo rispondere puntualmente alla tua domanda sui miei poeti preferiti, dovendone per forza scegliere soltanto un paio, direi: Leopardi e Montale. Tra i miei testi preferiti invece: Pianissimo di Camillo Sbarbaro e gli Ossi di Seppia di Montale.
Che significa essere poeta oggi? Si può parlare di crisi della poesia?
La figura del poeta si è oggi profondamente ridotta in termini di rilievo sociale. Da molto tempo ormai (almeno, direi, dalla scomparsa di Giosuè Carducci) è stata definitivamente superata la concezione del poeta vate, del poeta di alta e nobile ispirazione morale e civile, considerato un maestro, quasi una guida spirituale. Così, si è tornati (e forse era ben ora!) a considerare i poeti niente altro che dei cantori dell’animo umano, degli uomini che sanno leggere e scrutare, a volte con una sensibilità accentuata e particolare, il mondo esterno e il proprio mondo interiore, traducendolo in parole e immagini capaci di coinvolgere ed emozionare il lettore. Analogamente alla perdita di rilievo della figura sociale del poeta, c’è una concomitante perdita di importanza della poesia. La sua crisi è oggi evidente soprattutto dal punto di vista editoriale: basta fare un giro tra gli scaffali di una libreria per rendersi conto di quanto poco spazio e quanta poca promozione sia destinata alla poesia, e ciò, in linea con lo scarso interesse dei principali marchi editoriali. Naturalmente, il disinteresse dell’editoria può essere visto sia come concausa della crisi che come conseguenza inevitabile di un mercato che dimostra di non amare più tanto la poesia (personalmente, protendo per la prima chiave di lettura).
Oggi, però, anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, sembra esserci un ritorno alla poesia. Ma è vera poesia?
Indubbiamente i nuovi mezzi di comunicazione agevolano la trasmissione e la diffusione della poesia. Grazie ai Siti Web, ai Blog e soprattutto ai Social Network, sembra che la poesia stia conoscendo una nuova fase di diffusione. Ma come si fa a dire se si tratti di vera poesia? Sicuramente, insieme a tanti versi di buon livello, circola anche molto materiale mediocre, quando non addirittura scadente. Ma chi lo può giudicare? Si può sottoporre una poesia ad un giudizio di valore basato su criteri, diciamo così, “oggettivi”? Il fatto è che nel momento in cui si è rotto con i canoni della tradizione (e non mi riferisco solo all’introduzione del verso libero), ogni espressione poetica in versi appare legittima quanto l’altra. Del resto, a meno di voler tornare alla storica contrapposizione tra oggettività e soggettività dell’opera d’arte, io credo che anche nella poesia, come in altre forme dell’espressione artistica, dobbiamo riconoscere che ogni giudizio è per definizione soggettivo: l’esperienza estetica del fruitore dell’opera discende dall’oggetto artistico in maniera alquanto misteriosa e oscura.
Che valore può avere la poesia per la società? E cosa pensi della cosiddetta poesia sociale?
Seppure possa avere importanti funzioni, come ad es., aiutare a prendere coscienza di qualcosa, consolare, denunciare un certo disagio, dilettare, ecc., il nostro mondo non sembra riconoscere alla poesia un particolare “valore sociale”, tendendo piuttosto a considerarla qualcosa di inutile. Quanto alla poesia sociale, se intendi con tale espressione la poesia di denuncia sociale, beh, essa è sempre esistita nel corso dei secoli: dall’antichità, passando per il medioevo e l’età moderna, fino all’epoca contemporanea (si pensi solamente, per restare vicino a noi, a certa poesia di Ungaretti o di Pasolini, ad esempio). In senso però più allargato e generale, poiché ogni fatto è un fatto sociale se rispecchia i sentimenti della società che la esprime, possiamo dire che tutta la poesia è poesia sociale. Di qualunque cosa essa parli, di dolore, d’amore, di natura, nel momento in cui viene letta e condivisa da un gruppo significativo di persone, è di per sé stessa poesia sociale.
Lasciamo da parte un attimo la poesia. Parliamo del tuo incontro e della tua partecipazione alla politica. La tua vita pubblica, insomma.
La mia partecipazione “politica” in senso lato inizia nell’ambito delle Associazioni e dei Movimenti, per poi approdare all’interno di un Partito politico, del quale sono stato per breve tempo Coordinatore provinciale, prima di dimettermi perché chiamato nel frattempo ad assumere il ruolo di Assessore nella mia Città, Domodossola. Ho svolto con passione e impegno questo ruolo, di cui mi sento onorato, dal 2011 al 2016, cercando di essere sempre disponibile e aperto al dialogo con tutti. Finita l’esperienza amministrativa, mi sono allontanato dalla politica militante, tornando a coltivare le mie passioni, tra le quali appunto, la poesia.
Tu non sei ossolano di nascita. Quando e come sei arrivato in Ossola?
Io sono nato e cresciuto in Calabria. L’Ossola e il Novarese però mi erano in qualche modo noti fin da ragazzo per via dei tanti parenti e conoscenti che vi erano emigrati. E sebbene con in spalla un moderno zainetto anziché la valigia di cartone, io stesso sono emigrato al Nord, come prima di me aveva fatto mio padre e mio nonno prima di lui (solo che nel mio caso non si è trattato di una emigrazione stagionale!). Ho lasciato la mia terra d’origine appena concluse le scuole superiori, e dopo qualche anno vissuto in giro per l’Italia, mi sono stabilito in Ossola. Qui ho completato gli studi (all’Università Statale di Milano), mi sono sposato e creato una famiglia, e qui continuo a vivere questa vita, che ha di fatto una sorta di doppia Cittadinanza: quella ricevuta per nascita dalla mia amata terra d’origine e quella acquisita per adozione dall’altrettanto amata terra in cui vivo.
Hai fatto una ricerca approfondita sulle origini del tuo passato: ce ne vuoi parlare?
Ho sempre avuto grande interesse per la famiglia. Non mi riferisco al solo nucleo familiare, ma alla famiglia in un’accezione allargata, sia in termini di grado parentale che di antenati e discendenti. Da bambino amavo farmi raccontare storie e aneddoti sui miei familiari, anche su quelli che non avevo potuto conoscere, perché morti da tempo, o su parenti di grado lontano, che non avevo mai incontrato. Così, è stato abbastanza naturale che il mio amore per la famiglia si trasformasse prima in interesse per la genealogia ossia per la ricostruzione delle origini familiari e dei legami di parentela, poi in amore per la storia familiare. Faccio questa distinzione perché la storia familiare è molto di più della genealogia intesa come semplice raccolta di nomi e date riguardanti i propri antenati. Ho lavorato forsennatamente per circa sei anni, prima acquisendo informazioni dalla memoria di famiglia, poi intraprendendo affannose ricerche nei Registri parrocchiali, negli Archivi di Stato, in quelli dello Stato civile, ecc., a caccia di certificati di nascita, morte, matrimonio, di atti notarili, di mappe catastali, ecc. È stato un lavoro faticoso, ma estremamente affascinante, che mi ha pure obbligato a cimentarmi con nozioni (che non avevo) relative al diritto di famiglia, alla onomastica, all’archivistica, ecc. Alla ricerca dei documenti ha fatto seguito la meticolosa elaborazione dei dati e la costruzione delle diverse linee di ascendenza. Il risultato però non è stato la semplice stesura di un albero genealogico, ma la scrittura di una vera e propria storia di famiglia, dalla seconda metà del Settecento ad oggi. Una storia, ricca di aneddoti ed esperienze personali, di informazioni sul grado di istruzione e sui mestieri praticati dai miei antenati, sugli arruolamenti in guerra, le esperienze di emigrazione, insieme a tante notizie sulla vita del Paese. Di questa Storia della famiglia Iacopino di Palizzi, pubblico di tanto in tanto qualcosa, ma solo i dati essenziali, sul mio sito web (http://salvatoreiacopino.it). Indagare le origini della mia famiglia, scoprire dove e come sono vissuti i miei antenati, conoscere le loro storie personali e tanti dettagli delle loro vite, è stata un’esperienza affascinante, che ha arricchito la conoscenza di me stesso. Eh già, andare a ritroso attraverso i genitori, i nonni, i bisnonni, i trisavoli, per trovare, infine, me stesso: perché quella storia è la mia storia distesa nel tempo, è la mia storia colta nella sua evoluzione attraverso le generazioni e i secoli.
Quali sono i tuoi rapporti con l’Ossola? A quali suoi aspetti sei più legato?
Amo questa Terra, mia patria di adozione, anche per il suo patrimonio storico e culturale. Naturalmente, ciò che più mi coinvolge e che meglio conosco è la mia Città, Domodossola, la cui storia recentemente è stata in parte riscritta dallo storico Enrico Rizzi, che ne ha post-datato l’origine, facendola risalire agli anni intorno al Mille, come progressiva aggregazione attorno alla Domus Episcopi, alla Chiesa di San Protasio e al Mercato (“Storia dell’Ossola”, Edizioni Grossi, 2014). In realtà, il lavoro di Rizzi ha operato una radicale revisione della storia antica dell’intera Ossola, demolendo una serie di radicate convinzioni, come il riferimento storico all’«Oscella dei Leponzi» (sarebbe, infatti, «Oxila» il riferimento etimologico esatto), la presunta «Provincia romana dell’Ossola» (che non sarebbe mai esistita), ecc. Ciò, naturalmente, nulla toglie alla ricchezza storico-culturale dell’Ossola, che non è solo una ricchezza antica: si pensi, per venire ai giorni nostri, all’eccezionale ed unica esperienza della cosiddetta Repubblica partigiana dell’Ossola, grande motivo d’orgoglio per questa terra, come motivo d’orgoglio è l’aver avuto tantissimi personaggi illustri: penso, per stare nell’ambito letterario contemporaneo, a uomini come Antonio Rosmini, Clemente Rebora e Gianfranco Contini, oppure, andando su altri ambiti, a persone come il conte Giacomo Mellerio, Giuseppe Chiovenda, ecc. Come si fa a non amare una Terra storicamente e culturalmente così ricca?
Racconta la tua partecipazione al volontariato, alla vita di Domodossola.
L’Ossola è una terra molto attiva nel mondo del Volontariato. Ci sono tantissimi Gruppi e Associazioni che operano nei vari campi del Terzo Settore. Il mio coinvolgimento ha riguardato principalmente l’ambito delle politiche ambientali e della solidarietà. Anni fa ho contribuito alla nascita di alcuni gruppi di varia natura, ma l’impegno principale è stato nel mondo dell’assistenza e dell’accoglienza. A parte comunque il volontariato, alla vita di Domodossola ho potuto partecipare attivamente anche perché – come dicevo prima - ho avuto l’onore di far parte dell’Amministrazione della Città, in qualità di Assessore, per cinque anni.
Passando dal pubblico al privato, cosa pensi tu della vita, della morte?
La morte occupa costantemente i miei pensieri: è l’invisibile compagna che mi segue di continuo e con la quale ho un dialogo ininterrotto. Credo sia proprio l’interazione immaginaria con la morte ad influenzare la mia visione del mondo e l’interpretazione della mia stessa condizione esistenziale. Ma, attenzione, pensare la morte non vuol dire (almeno non necessariamente) assumere un atteggiamento lugubre, triste: pensare la morte significa, secondo me, pensare più autenticamente la vita. Vedi, in un certo senso, il concetto di morte non dovrebbe essere contrapposto a quello di vita: il contrario della morte dovrebbe, forse più correttamente, essere indicato nella nascita. Si nasce e si muore: sono questi i due estremi, questa è la vita! Nascita e morte fanno parte di essa. E se la morte fa parte della vita, pensare la morte significa porsi in modo più vero e autentico nei confronti della vita. Anzi, potremmo dire di più: la morte non solo fa parte della vita, essa in un certo senso è ciò che dà un senso alla vita.
Cosa intendi? Spiegati meglio!
Quando non la si concepisca religiosamente come ‘passaggio’ o inizio di una nuova vita, la morte non ha alcun senso: essa è il non-senso assoluto. Di conseguenza, anche la mia vita, proprio perché irrevocabilmente destinata ad essere annientata dalla morte e dissolversi nel nulla, non ha un senso, non scorre in nessuna direzione. Ogni cosa, infatti, ha un senso, una finalità, solo in quanto è inserita all’interno di qualcosa di più ampio. Le azioni della nostra vita (come recarsi al lavoro, intraprendere un viaggio, ecc.) hanno un senso, una finalità, solo in quanto inserite all’interno della vita. Ma qual è il senso della vita presa nella sua interezza? Se essa non è inserita in un insieme più vasto (ed è ciò che avviene quando appunto si consideri la morte una scomparsa totale), allora è chiaro che questa mia vita non ha senso: questa mia apparizione nel mondo diventa una breve passeggiata senza capo né coda, senza senso. Ecco: il discorso sembrerebbe chiuso qui: la morte è il non-senso assoluto che, di conseguenza, toglie un senso alla mia vita, la rende insensata. Sennonché, la questione può essere inquadrata anche da un’altra angolazione, che porta ad un vero e proprio capovolgimento del significato. È facile, infatti, rendersi conto che, lungi dall’intaccarne la fiducia e impoverirla, è proprio l’assenza di senso a dare un senso alla vita. Con un’espressione un po’ curiosa, ma molto profonda, il filosofo francese Vladimir Jankélévitch esprimeva questo concetto affermando che la morte è il “non-senso che dà un senso negando questo senso”. Se, infatti, a prima vista la presenza della morte toglie alla mia vita il suo senso, la sua direzione, proprio questo fa sì che essa mi appaia infinitamente preziosa. È proprio la morte cioè a dare un senso alla vita. Cosa sarebbe, infatti, la nostra esistenza senza la morte? Cos’è che rende unici un’emozione, un amore, un viaggio, un’amicizia, se non la loro precarietà, il loro essere effimeri? Capita, a volte, che trovandoci di fronte ad una piacevole esperienza ci sentiamo quasi aggrediti da un senso di malinconia; ciò, evidentemente, deriva dalla presa di coscienza che questa esperienza non dura, e proprio perché non dura, essa riveste per noi una bellezza eccezionale. Insomma: proprio perché trovano nella morte la loro radicale, insopprimibile negazione, le cose della vita acquistano ai nostri occhi grande bellezza e valore.
Resta il fatto però che la morte oggi è sempre più allontanata, nascosta, tanto da far parlare gli studiosi di vera e propria rimozione della morte.
Si, è vero. La civiltà moderna è andata via via rimuovendo dalle coscienze il pensiero della morte e di tutto ciò che più direttamente la riguarda. Ed è stata una rimozione non soltanto psicologica: con il XX secolo, il processo di allontanamento e occultamento della morte si è esasperato fino al bisogno di cancellarla anche visibilmente dalla realtà (pensiamo all’isolamento del morente in ospedale, alla contrazione dei riti funebri, al rifiuto del lutto e dei gesti che lo accompagnano, all’aumento della distanza (non soltanto simbolica, ma anche materiale) dai defunti. Tanto nel momento dell’agonia, quanto durante i funerali, le sepolture, ecc., la morte ha cessato di essere uno spettacolo familiare e in qualche modo solenne, riducendosi a fatto privato e quasi imbarazzante: dalla morte pubblica si è passati alla morte in solitudine dietro il “paravento”, in una fredda camera d’ospedale o in una anonima sala del commiato, mentre tutto intorno la vita continua freneticamente nella più assoluta indifferenza (il Carro funebre si confonde nel traffico cittadino come un’auto fra le tante). Il tentativo di occultamento oggi è talmente forte che la morte non deve essere neppure “nominata”, e quando proprio non se ne può fare a meno, allora, si impone il ricorso - assieme agli eventuali scongiuri – all’uso di perifrasi e termini di gergo per evitare, appunto, di nominarla direttamente (così, oggi quel tale di cui parla il giornale, la televisione e persino il manifesto funebre, non è morto, ma ‘ci ha lasciato’, è ‘scomparso’, è ‘venuto a mancare,’ ecc.). La morte è il nuovo grande tabù delle società avanzate nell’epoca post-moderna. E l’uomo, per millenni padrone consapevole delle circostanze della sua morte, oggi muore, non soltanto in solitudine, ma pure senza rendersene conto, senza cioè che gli sia concesso di prendere coscienza della prossimità della sua fine, (si pensi alla difficoltà del medico nel “dire o non dire” la verità al malato terminale, oppure all’inganno dei parenti, che di fronte al congiunto morente, iniziano a recitare le consuete battute: “vedrai che non è niente!!”, “presto ti riprenderai e tornerai a casa!”, ecc.
Ma quali sono, secondo te, le cause di questo atteggiamento di silenzio nei confronti della morte?
Molti studiosi hanno tentato di indagare le cause di questo atteggiamento. La questione è lunga e complessa. Certamente, tra le caratteristiche della società contemporanea che influiscono sulla nostra rappresentazione della morte e sul nostro atteggiamento nei suoi confronti, vi è la maggiore distanza da essa. Se nei precedenti stadi di sviluppo della società la vista dei moribondi e dei morti era uno spettacolo pressoché quotidiano, oggi i nostri figli diventano grandi senza aver mai visto un morto “vero” (noi genitori, non soltanto parliamo raramente della morte con i nostri figli, ma se capita un lutto in famiglia, anziché portarli alla veglia o ai funerali, li mandiamo a casa di parenti o di amici). A questa distanza spaziale dalla morte si aggiunge la maggiore distanza temporale, grazie all’aumento della vita media, che fa si che un individuo possa allontanare il pensiero della propria morte per gran parte dell’esistenza. Ma a favorirne ancora di più la rimozione è forse la generale cultura e logica capitalistica di un mondo che privilegia la produttività e il consumo (è evidente quanto le tradizioni e usanze legate alla morte siano di impaccio e di ostacolo agli interessi della frenetica società moderna: si pensi al rallentamento delle attività durante le veglie e i funerali, all’astensione dal lavoro per le persone in lutto, ecc. Oggi non ci sono più le condizioni necessarie a culti e rituali comunitari. Le pratiche di un tempo, quali, cerimonie, grandi cortei funebri per le strade, commemorazione dei defunti, lunghi periodi di lutto, riti di passaggio, numerose visite ai cimiteri, ecc., sono diventate incompatibili con la vita moderna e destinate a sparire. Così, la crescente deritualizzazione e la progressiva desocializzazione della morte (che da esperienza collettiva è diventata esperienza individuale) hanno fornito una spinta decisa alla tendenza alla rimozione. E poi ci sono il pensiero positivista nei confronti della scienza e il progresso tecnico-scientifico della medicina moderna, che tendono a farci concepire la morte non più come un evento naturale, un limite intrinseco, quanto piuttosto come un ostacolo, come qualcosa che deve essere superato; e poiché, ovviamente, non la si supera, si fa come se non esistesse: la si estromette dalla vita quotidiana, non se ne parla. Del resto, in un contesto sociale e culturale dominato dai principi della bellezza, della salute e della vitalità, diventa quasi inevitabile rimuovere il pensiero della morte e tutto ciò che la riguarda.
Torniamo alla poesia. Che cosa occorre per diventare un poeta? O Meglio, si può diventare poeta?
Di cosa occorra per diventare poeta, non ne ho proprio idea (occorrerebbe eventualmente chiederlo ad un poeta). Di sicuro, non lo si diventa come si diventa elettricista o ragioniere ossia andando a scuola e imparandone il mestiere: ci vuole evidentemente una certa dose di talento naturale, bisogna cioè “esserci portati”. Dopodiché, però, come per l’atleta, il ballerino o il musicista, il talento da solo non basta: serve conosc
enza, studio e tanto esercizio. Occorre conoscere la poesia precedente, studiarne le forme e le tecniche principali, fare molta pratica... Insomma, la poesia è un’arte e come tale richiede sia talento naturale sia tecnica ed esercizio. Del resto, è evidente che non basti provare delle emozioni per fare poesia né qualunque espressione di sentimenti può essere considerata di per sé poesia. Detto questo, trovo comunque positivo il fatto che se ne scriva. La grande quantità di versi che si trova in rete, ad es., anche se non sempre di grandissima qualità, mi fa ben sperare.
Cosa bisognerebbe fare per appassionare alla poesia?
Beh, intanto, per far appassionare qualcuno alla poesia occorrerebbe cominciare ad offrirgliela sul serio. L’odierna presenza diffusa di versi in rete non è evidentemente sufficiente ai fini di una sua promozione. Un incremento dell’oggetto poesia nei programmi scolastici, unitamente all’adozione di un diverso approccio nel suo insegnamento, non guasterebbe affatto, e forse potrebbe aiutare a correggere i tanti giudizi stereotipati su di essa. Ma, soprattutto, servirebbe un cambio di passo nelle politiche editoriali relative alla poesia.
A tuo avviso perché siamo più un paese di poeti che di lettori?
È vero che oggi si legge poca poesia, come è vero, del resto, che se ne scrive molta, ma i due aspetti non sono connessi. Il fatto che se ne legga poca dipende da una molteplicità di fattori, non ultimo, secondo me, il suo scarso peso editoriale. Neppure la scuola, come dicevo prima, sembra aiutare molto nel promuovere l’oggetto poesia (mentre mi pare riesca meglio con la Narrativa e in genere con la Storia della Letteratura). Il fatto invece che si scriva molta poesia è probabilmente legato anche all’errata impressione di facilità. Chi non ha mai scritto in gioventù (soprattutto nel corso dell’adolescenza) dei versi o almeno delle frasi, assecondando quella naturale esigenza interiore di annotare esperienze, pensieri, sensazioni? Il che, naturalmente, è una cosa molto bella, anche perché quasi sempre fatta senza pretese letterarie. Sennonché, capita che si sviluppi, in maniera a volte ingiustificata o comunque con eccessiva facilità, la presunzione di considerare il proprio diario poetico alla stregua di vera e propria poesia. Il fatto poi di vedere ogni anno moltissime persone pubblicare versi (anche se i grandi libri pubblicati sono davvero pochi), aumenta l’impressione di facilità. Anche la sua brevità può indurre a pensare che la poesia sia una cosa facile, laddove invece, come ben sappiamo, “breve” non è affatto sinonimo di facile: dietro una poesia breve c’è spesso una lunga esperienza interiore, c’è la conoscenza e lo studio degli autori del passato, c’è tanta pratica, ecc. In ogni caso, preferisco un paese di molti poeti per pochi lettori piuttosto che un paese di molti lettori di nessun poeta.
Tra i poeti di oggi, quali ritieni più significativi?
Confesso di non riuscire a seguire molto gli autori contemporanei. A maggior ragione, qualunque risposta in tal senso da parte mia sarebbe decisamente presuntuosa, oltre che impossibile non conoscendoli tutti. Posso solo dire che tra i contemporanei guardo con particolare interesse e ammirazione Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Valerio Magrelli e Patrizia Valduga. Ma ce ne sono, naturalmente, molti altri che meritano di esser letti, come Fabio Pusterla, Franco Loi, ecc.
Cos’è per te l’ispirazione?
Personalmente non amo il termine ispirazione: preferisco parlare piuttosto di intuizione, di spunto creativo, di occasione... E più che chiedersi cosa sia, ritengo interessante semmai chiedersi se codesta “ispirazione”, o come la si voglia chiamare, sia di origine sensuale o intellettuale, se sia cioè più legata al corpo o alla mente, consapevole che la risposta sarà diversa da poesia a poesia e da autore ad autore, oltre che non sempre possibile, vista l’interconnessione di spirito e materia. Per quanto mi riguarda, la poesia nasce sempre da un’urgenza comunicativa, da qualcosa di forte, come può essere un grande dolore, una gioia o un sentimento d’amore: sempre, però, da un sentimento intenso, da qualcosa che giace nell’animo e che preme per emergere. Naturalmente, “l’ispirazione” non esaurisce il processo creativo. Raramente, infatti, la poesia è frutto di un’ispirazione immediata! Certo c’è sempre il momento intuitivo iniziale (la voce della Musa), dopodiché però c’è tanto lavoro e tanta fatica. L’ispirazione, insomma, può dar luogo all’anima della poesia, la quale però, per darsi un corpo e una forma compiuti, necessita di tanto lavoro. E questo lavoro, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, non è qualcosa di incompatibile con l'ardente necessità dell'ispirazione, ma un suo necessario complemento.
Come intendi tu la poesia: contenuto, forma, linguaggio, tecnica ecc.
Io credo che cimentandosi con il cosiddetto “linguaggio poetico” occorra tener conto di alcuni elementi imprescindibili. Il primo è la consapevolezza della metrica (non dico, l’uso, oggi in gran parte superato, ma almeno la consapevolezza metrica, relativamente al computo delle sillabe, agli incontri di vocali, al ritmo, all’andamento dei versi, ecc.). A ciò si deve aggiungere l’attenzione all’eufonia ossia al suono delle singole parole, alle rime, alle assonanze, ecc.; sono il ritmo dei versi e i suoni delle parole, infatti, a determinare la musicalità della poesia. Non meno importante è poi la scelta appropriata delle immagini, l’uso di figure retoriche e l’attenzione al registro linguistico, con la scelta adeguata dei vocaboli e l’uso di concetti il più possibile “concentrati”. Per quanto mi riguarda, quando posso cerco di lavorare pure sulla valorizzazione del bianco tipografico, attraverso l’inserimento di “vuoti” o la disposizione dei versi a gradino (spesso, frutto dello spezzettamento dell’endecasillabo). Analogamente alla “punteggiatura nera”, infatti, anche la bianca può aiutare a rispondere alle esigenze di pausazione ritmica, sintattica o semantica oppure a segnare il movimento del pensiero. A scanso di equivoci, devo però precisare che, per quanto attenta alla forma e al linguaggio, la mia non è una poesia praticata come ricerca formale o linguistica. Io rifiuto ogni forma di sperimentalismo di tipo avanguardistico, preferendo una poetica dell’interiorità e della tensione metafisica; una poesia il cui fascino sia eventualmente dovuto ad una certa (si spera) profondità concettuale piuttosto che ad una artificiosità sintattica e lessicale. Del resto, la poesia non è mai una questione soltanto estetica: anche quella meglio realizzata sotto tutti i punti di vista “formali”, dovrà avere un contenuto, un messaggio: l’aspetto formale è imprescindibile, ma pur sempre strumentale: alla fine vale il contenuto, la cui l’importanza, però, è legata non soltanto al “cosa” si dice, ma anche a “come” lo si dice. Insomma, io intendo la poesia come un tutt’uno di forma e contenuto. Per me, cioè, è fondamentale unire insieme, in maniera strettamente connessa e interdipendente, l’una e l’altro, o perlomeno tentare di raggiungere un buon equilibrio fra di essi.
In ogni lirica che scrivi, tu sembri cercare sempre la perfezione, la bellezza, l’eccellenza di ogni verso. Parlacene.
Forse più che di aspirazione alla perfezione si tratta semplicemente della mia naturale e perenne insoddisfazione.
Fare poesia significa tradurre in messaggi significativi i propri sentimenti o la realtà esterna, ma la costruzione del verso non si esaurisce con l’espressione del contenuto ossia con il “che cosa” bensì con l’adeguatezza del “come”. Il verso per me non è finito nel momento in cui ha espresso quei sentimenti e quella realtà che intendevo esprimere: è importante che lo faccia nella forma migliore possibile, e che quella forma sia non soltanto valida di per sé, ma anche adeguata al contenuto. Così, può accadere che io ritorni più volte sulla forma di una poesia, non perché il ritmo, il suono delle parole, l’andamento dei versi, ecc., non mi piacciano, ma perché, magari, quel ritmo e quel suono mi appaiono poco coerenti con il clima e lo stato d’animo che volevo creare. In definitiva, ritengo che si dovrebbe lavorare sul testo come lo scultore con lo scalpello sul marmo: massima attenzione alla forma e sempre tenendo presente la strettissima connessione tra questa forma e il contenuto.
Cosa pensi della poesia in prosa?
Io credo che poesia e prosa siano due forme artistiche ben distinte e per certi versi contrapposte, per cui già la sola espressione “poesia in prosa" mi pare un ossimoro. E lo stesso vale per l’espressione “prosa in versi”. Dietro l’espressione “poesia in prosa" si nasconde il rischio di voler spacciare per poesia ciò che in realtà è semplicemente prosa: magari della buona, dell’ottima prosa, ricca di sentimento e musicalità poetica, ma pur sempre prosa. Allo stesso modo, è evidente che non basta andare a capo, utilizzare vocaboli poetici e uno stile lirico, per trasformare un brano di prosa in poesia. Certo non è facile, o almeno, non lo è per me, definire puntualmente in cosa consistano le differenze (che non riguardano evidentemente le regole metriche), ma le distanze tra poesia e prosa ci sono, eccome! Oggigiorno poi è ancora più difficile stabilire dove finisca l’una e dove inizi l’altra, dal momento che gran parte di quella che oggi chiamiamo poesia sembra collocarsi in realtà in una sorta di zona intermedia, una terra a metà strada tra le due, così da consentirci di parlare a volte indifferentemente di “poesia in prosa” o di “prosa poetica”. Naturalmente si può fare della buona “poesia prosastica” come pure dell’ottima “prosa poetica”. Personalmente, però, preferisco una poesia che non si confonda affatto con la prosa.
Come s’inquadra la poesia con le altre espressioni dell’arte oggi?
Io non vedo rigide barriere tra le arti. L’oggetto o contenuto poetico, sia esso emotivo, reale o fantastico, può essere “detto” con la parola, prodotto con i suoni, dipinto con il colore oppure cantato con la voce, ma in fondo ciò che cambia è solo lo strumento dell’espressione, della comunicazione: alla base, infatti, c’è sempre una certa facoltà del sentire e un forte impulso creativo. Forse fra tutte le arti, quella che vedo più vicina alla poesia è la musica: non soltanto per le origini storiche della poesia, che, come è noto, presso i Greci, veniva cantata con l’accompagnamento del suono della lira, ma anche e soprattutto per la musicalità interna della poesia, originata dalle rime, dalle assonanze, dalle allitterazioni e da tutte le altre figure fonetiche. La poesia è ritmo, suono, armonia, tanto da far dire a Montale che essa è “parole in musica” e a Fabrizio De Andrè che “la poesia è musica dell’anima”. Allo stesso modo che musica, la poesia è anche pittura poiché con l’immaginazione ci fa vedere le cose. E proprio la relazione tra le parole e la forza espressiva delle immagini rende ulteriormente evidente l’affinità tra le arti. Del resto, credo sia proprio per la intrinseca relazione tra parola, immagine e suono, che oggi stanno diventando sempre più diffuse e valorizzate le cosiddette video-poesie.
Gioie e dolori, delusioni della vita, hanno importanza nell’inizio di tutti i tuoi processi, ricerche, cicli poetici o sono espressione di momenti di transizione?
Hanno importanza, eccome! Ma questo, credo valga per chiunque svolga un‘attività artistica. In generale, il materiale di lavoro di un artista è dato dai sentimenti e dalle passioni, da lui opportunamente elaborati e trasformati, i quali dipendono appunto dalle esperienze personali, dalle gioie, dai dolori, dalle delusioni della vita. E sono soprattutto le esperienze forti (positive o negative che siano) ad innescare il processo creativo e a far sì che l’esperienza artistica diventi parte integrante della vita di un autore. Non credo, infatti, che nell’Artista si possano separare l’uomo che soffre e gioisce dalla mente che crea.
C’è un filo conduttore in tutto quello che fai? A cosa tendi? Pensi di aver raggiunto i tuoi obiettivi o ti manca qualcosa?
Io sono per natura piuttosto volubile: mi appassiono alle cose con un’intensità pari alla velocità con la quale riesco a cambiare oggetto di interesse. Quindi, no, direi di no: non c’è un filo conduttore in quello che faccio né un obiettivo preciso cui tendo. Ciò non vuol dire, naturalmente, che mi senta appagato e che non mi manchi niente. Del resto, se anche mi trovassi a fare ciò che più amo fare, ad avere ciò che più avrei voluto avere o a dare ciò che più mi sarebbe piaciuto dare, ugualmente, credo, non mi sentirei realizzato. La mia natura, come credo quella di ogni uomo, è essenzialmente desiderio; quindi, il sentimento di mancanza, di privazione (che sono l’essenza profonda del desiderio, come già insegnava Platone nel Simposio) saranno sempre presenti nella mia vita.
Ma concretamente, cosa stai pensando di realizzare in futuro? Quali sono i tuoi futuri progetti?
Solitamente, più che programmare e progettare lavori per il futuro, aspetto di vedere cosa il futuro mi propone, sapendo che molto probabilmente lo asseconderò. Ma forse dovrei decidermi a riprendere in mano e completare qualcuno dei tanti lavori iniziati negli anni: penso, ad es., a quella Ricerca sulla storia, la cultura e le tradizioni popolari della Calabria antica, scritta molti anni fa, e di cui conservo non so dove solo una copia cartacea; oppure a quella corposa indagine genealogica, da cui è derivato un possibile libro sulla Storia della mia famiglia; o, ancora, a quel Saggio di tanatologia che avrei voluto completare, come prosecuzione e approfondimento della mia Tesi di Laurea “La morte e il morire nella civiltà tecnologica”. Stando invece all’ambito della poesia, mi piacerebbe realizzare una sorta di cofanetto, che affianchi alla versione cartacea delle mie poesie, parole recitate, musiche originali di accompagnamento, immagini e video montati ad arte, ecc. Qualcosa di più di un progetto di video poesia.
Cosa consiglieresti a un giovane che volesse coltivare la poesia?
Beh, intanto di leggerne molta, meglio se in lingua originale, di scrivere, quando ha voglia di farlo (senza, però, farsi prendere dall’ansia di doverlo fare), ma soprattutto di non pensare di poterlo fare ignorando la tradizione poetica: non si può pretendere di scrivere senza aver mai letto. Se già “comprendere” e apprezzare un testo poetico non è sempre un’operazione facile e immediata, figuriamoci scrivere! Da una parte c’è qualcosa dentro l’anima (qualcosa originato dalle emozioni o dall’esperienza o dal pensiero) che preme per uscire, che reclama cioè la sua espressione, dall’altra c’è la poesia finalmente scritta su un foglio. Ora, il passaggio da una fase all’altra non è automatico: in mezzo c’è tanto lavoro di trasformazione, che richiede pratica e competenza. E queste si acquisiscono attraverso la lettura, soprattutto dei Classici, ma non solo.
A proposito di giovani, come ti pare che rispondano agli stimoli culturali i giovani d’oggi?
Solitamente noi parliamo di “giovani” come se si trattasse di una realtà univoca e ben definita, laddove invece mi pare si tratti di un’entità sfocata e spezzettata (i giovani di 17-20 anni sono già diversi da quelli di 13-15, e ancora diversi da quelli di 22-25), ma soprattutto abbiamo a che fare con un’entità in rapida e continua trasformazione, che sfugge ad ogni facile generalizzazione. Si dice spesso che i giovani di oggi non amino la cultura perché leggono poco o perché evitano le opere di un certo impegno, preferendo gli sms e le pagine web alle pagine di approfondimento dei libri, ma io mi chiedo: le cose stanno davvero così? Si sostiene che i giovani sono ormai abituati ad usare soltanto i social network come forma di interazione e di informazione. In questo, evidentemente, c’è del vero: è probabilmente vero, infatti, che la maggioranza di essi privilegi i canali informativi web e social, ma ce ne sono anche tanti altri che affiancano a questi canali quelli dell’offerta culturale più tradizionale, assicurata dall’editoria, dal cinema, dalle produzioni radiotelevisive, ecc. A me non pare che il rapporto tra i giovani e la cultura sia davvero così negativo come spesso si sente dire. Piuttosto credo che quando si parla di questo argomento non ci si dovrebbe porre la domanda: “Come rispondono agli stimoli culturali i giovani d’oggi?” bensì: “Qual è l’offerta culturale rivolta ai giovani d’oggi?”. I “decisori” pubblici conoscono abbastanza il mondo dei giovani? Sono in grado di dar loro un’offerta culturale adeguata, che non sia legata soltanto alla dimensione della spettacolarizzazione e dell’intrattenimento? Cosa fa il mondo politico per favorire il coinvolgimento attivo dei giovani nel mondo della cultura? Insomma, quella del rapporto tra “giovani” e “cultura” è una tematica sulla quale dovrebbe concentrare la propria attenzione l’intero mondo politico, se volesse veramente cercare di costruire una società più attiva e consapevole.
La poesia, l’arte, la cultura in generale, devono star fuori dalla politica? Come vedi il rapporto istituzioni e cultura?
Io credo che, anche volendo, la cultura non possa star fuori dalla politica: in fondo, anche la cultura è politica, come del resto anche la politica (nel senso nobile del termine) è cultura. Certo, nel caso specifico dell’arte, la situazione odierna sembra suggerire un’immagine di separatezza tra cultura artistica e politica. L’artista spesso appare come una figura lontana dalla politica, assente, quando non addirittura emarginata, ma a me sembra evidente che la cultura artistica possa giocare un ruolo importante nelle dinamiche sociali. Certo, per farlo, per essere cioè in grado di incidere su tali dinamiche, essa non può pensarsi come pratica intima e solitaria, centrata su sé stessa, ma deve porsi in un’ottica di partecipazione e di interesse all’altro, interpretando esperienze comuni.
Qual è il tuo ruolo nella vita? Chi senti di essere?
Io non credo che il proprio ruolo nella vita sia qualcosa che esista già, diciamo così, “in potenza”, e che quindi necessiti soltanto di essere scoperto e attuato. Il ruolo di un uomo è quello che egli si dà. Naturalmente, anche quando si è capito ciò che si sa fare e ciò che si ama fare, non è per niente facile darsi un ruolo, darsi uno scopo. Per quanto mi riguarda poiché continuo a passare da un “amore” ad un altro, da un progetto ad un altro, da una passione ad un’altra, il mio scopo cambia continuamente. Direi, quindi, che il mio ruolo nella vita non è, ma diviene.
A questo punto, ti chiedo, qual è la tua visione del mondo?
Devo dire che non ho una visione molto ottimistica del mondo contemporaneo poiché per quanto mi sforzi di vedere il bicchiere mezzo pieno, la mia attenzione è sempre più attirata dai tanti mali che affliggono questo mondo. Guerre, disastri ambientali, razzismo, disgregazione delle relazioni sociali, individualismo esasperato, primato dell’economia sull’etica e sulla vita, diritti umani in molti luoghi ancora calpestati, appropriazione privata delle risorse, diseguaglianze sociali così forti che ancora oggi, malgrado l’abbondanza di mezzi e di risorse, ci sono milioni di persone nel mondo che muoiono per scarsità di cibo o per malattie facilmente curabili. Insomma, ne vedo tanti di mali in questo nostro mondo! E ciò che più fa male è che non si tratta evidentemente di calamità naturali, di eventi indipendenti dalle azioni dell’uomo. I disastri ecologici, ad es. sono anche il frutto di un rapporto conflittuale tra uomo e natura. In senso più profondo, sono conseguenza di quella scissione tra io e non-io, di cui parla molta filosofia, soprattutto quella orientale. Alla base di molti mali del nostro tempo c’è appunto un errato atteggiamento mentale, c’è questa scissione tra Io e non-Io, la percezione cioè del nostro Io come separato dal mondo, dalla natura, dagli altri (separazione, che diventa facilmente contrapposizione). Serve quindi, come amava dire anche Tiziano Terzani, una rivoluzione nel rapporto tra Io e mondo esterno. Occorre avere consapevolezza dell’integrale unità del Tutto, della non separazione dell’io dal mondo esterno, dal mondo umano, dalla natura. Se mi convinco che tutto è uno, rinuncio a concepire gli altri e la natura come esterni ed estranei. Le conseguenze positive (non soltanto in senso etico) dell’assunzione di tale atteggiamento credo siano facilmente immaginabili.
Tu sei d’accordo quando si parla di perdita di valori nella nostra società? Come pensi debbano agire, in tal senso, la famiglia, la scuola, la politica, la società?
Personalmente ho sempre lamentato, con un certo dispiacere, la perdita dei grandi valori ideali ossia quella fine delle ideologie che, con linguaggio nietzscheano, si è soliti chiamare “morte di dio”. Ma la tua domanda è un’altra, evidentemente. Io non credo si debba parlare di perdita di valori. La nostra società cioè non ha perso i valori, lì ha solo cambiati: ha dei valori diversi da quelli che aveva un tempo (ogni epoca, del resto, ha i propri valori). Quindi bisogna intendersi sul concetto di “valore”. Per quanto mi riguarda il problema principale è che la nostra società ha elevato a valori positivi, atteggiamenti e comportamenti che a mio avviso positivi non sono affatto. E non mi riferisco soltanto al culto dell’apparire, alla cura esasperata del corpo e dell’aspetto fisico, all’idolatria del denaro, ma anche ad aspetti, forse meno evidenti, ma altrettanto importanti. Ti faccio un esempio. L’idea della competizione ha una sua ragion d’essere nell’ambito economico, nell’iniziativa di impresa e nelle dinamiche del mercato: per promuovere l’attività della propria azienda occorre competere con le altre, e tale competizione può essere un bene per il mercato. Ma oggi questa idea della competizione ha permeato di sé tutti gli ambiti delle attività umane: è diventata una vera e propria ideologia positiva, un “valore sociale”, al punto che anche nell’educazione dei nostri figli tendiamo a promuovere lo spirito della competizione, della gara e della lotta anziché quello della collaborazione, dell’aiuto reciproco, della cooperazione. Da nozione specifica dell’ambito economico, la competizione è diventata un paradigma culturale. Ciò, del resto, è in linea con la contemporanea assolutizzazione dell’economia, quindi del mercato, che abbiamo elevato a solo e unico dio, cui non soltanto la politica, ma anche l’etica, deve inchinarsi (nella valutazione di ogni attività sociale, infatti, le considerazioni economiche prevalgono non solo su quelle politiche, ma anche su quelle morali). Quanto al ruolo della famiglia e delle altre agenzie formativo-educative, come la scuola, è giusto, certo, sollecitarle a fare di più in termini di promozione di valori positivi; ma non possiamo tuttavia non riconoscere la loro intrinseca debolezza e marginalità, dovendo esse competere con un grande e potentissimo “educatore” come il Mercato, che plasma gusti, costumi e comportamenti di noi tutti. E il mercato, ovviamente, è interessato a formare consumatori, non Cittadini.
E per finire, come consideri la scienza, il progresso, ecc.
I meriti della scienza e della tecnica per il miglioramento delle condizioni di vita sono evidenti e innegabili. La scienza e la tecnica ci hanno messo a disposizione risorse formidabili. Di ciò, l’uomo contemporaneo è talmente consapevole da aver sviluppato quasi un delirio di onnipotenza tecnico-scientifica. La nostra società, infatti, ha una fede pressoché assoluta nella scienza, dalla quale confida di ricevere, prima o poi, le soluzioni a tutti i problemi. Di fatto, la scienza è stata messa sugli altari al posto delle Religioni e delle Ideologie. Naturalmente, ciò che non mi piace non è la visione laica e secolarizzata del mondo bensì l’assolutizzazione della scienza e l’elevazione del metodo scientifico (il riduzionismo meccanicistico) a vero e proprio paradigma culturale. Se lo sviluppo scientifico e tecnologico ha indubbiamente portato all’uomo grandi benefici, bisogna però intendersi bene sul concetto di “progresso”, che, per quanto mi riguarda, non coincide tout court con lo sviluppo della scienza e con la crescita economica. Come lo sviluppo tecnico-scientifico senza un parallelo sviluppo etico e culturale non è esente da rischi e pericoli, allo stesso modo, nell’ideologia della Crescita si nasconde forse la più pericolosa insidia per il bene del Pianeta e quindi per il progresso dell’uomo. Che cos’è, infatti, concretamente quella “Crescita”, di cui ogni giorno sentiamo celebrare le lodi e reclamarne la necessità? Essa, nel nostro sistema, ha un significato preciso, vuol dire: aumento, potenzialmente illimitato, della produzione e del consumo di merci. Il che, senza entrare nel merito di un dibattitto delicato e complesso, mi pare semplicemente folle. Come si può pensare ad una crescita infinita in un mondo finito? Insomma, per quanto mi riguarda, crescita economica (ossia aumento della produzione e del consumo di merci) e benessere non coincidono affatto.
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Giuseppe Possa e Salvo Iacopino
https://pqlascintilla.wordpress.com/2018/06/22/salvo-iacopino-frastorni-pegasus-edition/#more-2747
https://pqlascintilla.wordpress.com/2020/05/13/nel-mondo-poetico-di-salvo-iacopino
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