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La scomparsa del pittore Franco Busca

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Franco Busca, pittore ossolano, artista bohémien  di talento, si è spento lunedì 9 giugno 2014 all’ospedale S. Biagio di Domodossola, città in cui era nato nel 1937, in cui visse e operò, raggiungendo fama e un notevole successo. Benvoluto da tutti, era ormai un’icona, un personaggio della città, un amico. Per ricordarlo riproponiamo di seguito l’articolo, la critica e la lettura di un quadro, che dopo un incontro fra Giuseppe Possa con Busca sul finire del 1989,  apparve sul settimanale ECO Risveglio Ossolano dell’8 febbraio 1990. In calce anche un ricordo degli amici Marcovinicio Giorgio Quaglia.

Franco Busca: bohemien per passione

<<Dipingo per restare muto, se fossi un chiacchierone farei politica – La pittura è silenzio: non si può far vedere un quadro alle orecchie>> - Vive a Domodossola di sola pittura

Bella, slanciata, in costume azzurro, emerge dal mare con la plasticità di Venere, ma lo sguardo è quello di una Valchiria. Il quadro è appeso alla parete. “Raffigura Cinzia, la sua musa ispiratrice”, mi sussurra piano Gianni Reami, che ha notato l’insistenza con cui la “guardo” e che per l’occasione mi accompagna a far la conoscenza di un pittore bohemien, suo amico. Siamo nell’appartamentino di Franco Busca (nella foto di Max Stringara). Pensavo di trovarvi una gran confusione (figurarsi un “single” e per di più artista!), invece la casa è accogliente e pulita: “Sono un casalingo” dice, quando manifesto la mia meraviglia per l’ordine che vi regna.

Solo sul tavolo ci sono fogli sparsi, tubetti di colori, alcuni disegni abbozzati, matite, scatole altre cianfrusaglie, ma stava dipingendo e noi siamo arrivati senza appuntamento.

“Sono venuto per un’intervista”, attacco tanto per toglierlo dall’imbarazzo “Gianni mi ha rimproverato di non aver parlato della sua mostra in occasione del Festjazz di Bognanco e allora... eccomi qui”.

Non gli dispiace che qualcuno parli di lui, che appaia un articolo sul giornale, che la gente lo conosca: <<Sa, io vivo soltanto di pittura e a costo di enormi sacrifici, quindi un po’ di pubblicità non fa male. Non sono, però allettato da un’intervista, non la gradisco. Faccio il pittore per stare muto, se fossi un chiacchierone terrei comizi>>.

Preferisce mostrarmi le sue opere, alcune fotografie di quadri acquistatigli da collezionisti tedeschi, inglesi, francesi, oltre che italiani, e insiste per farmi vedere un filmato sulla sua attività, girato da un amico fotografo: <<Guardi che belle riprese. Ha saputo cogliermi con intelligenza in diversi momenti della giornata. Mi piacerebbe fosse trasmesso da Vco. Lei che ne dice? Il finale è nato da una mia idea, le piace?>>.

In effetti è originale: lui sta leggendo sue poesie accanto al televisore acceso, su cui appare un Busca che inizia una litania di bla-bla. Allora spegne l’apparecchio e mimando un robot scende in garage; qui il vero Busca chiude la porta e se ne va lungo un viale, sfumando come in un film di Charlot.

Al Festjazz di Bognanco, Busca aveva esposto diverse opere che raffiguravano – colti in momenti particolari – alcuni grandi interpreti musicali, quali Duke Ellington, Billie Holiday, John Coltrane, Oscar Pettifort, Thelonius Monk. Ne aveva ritratti altri, ma i quadri sono già stati venduti.

Per soddisfare la nostra curiosità, ci spiega come gli è nato questa passione per il Jazz: <<Tanti anni fa, in fabbrica, avevo conosciuto Giulio Miserocchi, un batterista sfegatato, bravissimo. Lui mi ha fatto conoscere la musica e insieme abbiamo assistito a molti concerti. So suonare anche il pianoforte>>.

Si sentiva però, attratto dalla pittura, fin da ragazzo. Per il primo quadro a olio – me lo mostra con orgoglio, sebbene gli esiti siano logicamente incerti – aveva recuperato i tubetti vuoti buttati via da un pittore dilettante: <<Così ho iniziato la mia carriera. Allora pensavo di fare l’artista, ma erano tempi duri e la realtà ben diversa. Per guadagnarmi da vivere ho fatto il manovale, poi sono andato a lavorare in fabbrica e come tanti giovani ho dovuto archiviare i sogni>>.

È nato a Domodossola nel 1938 e la sua prima mostra collettiva risale al ’65. Solo agli inizi degli anni Settanta riesce a dedicarsi totalmente alla pittura e ad allestire, in Val Vigezzo, una personale.

Alla domanda “Senza la pittura cosa sarebbe la sua vita?”, non riesce ad immaginarsi fuori dal mondo artistico: <<Sì, certo, cercherei qualcos’altro per esprimermi, ma mi sentirei mutilato. La pittura è il mio modo di comunicare; mi piace perchè con essa si usa un linguaggio di silenzio  ed è fatta per gli occhi. Non si può fare vedere un quadro alle orecchie: non si dipinge con le chiacchiere. E poi, sarò presuntuoso, ma con essa mi mantengo>>.

È, infatti, uno dei pochi artisti ossolani che ha il coraggio di rischiare in proprio e di vivere unicamente con i proventi della pittura, in un ambiente che non solo è sordo all’arte, ma che acquista un quadro da appendere alle pareti soltanto con l’occhio del mercato (del sabato).

Busca non ritrae semplicemente la realtà, ma la trasfigura; se deve ritrarre un paesaggio gli piace un po’ sognato, anche se usa un segno iperrealista: <<Prendo ispirazioni dalle cose quotidiane, tipo una mela, un uovo, una scatola, cose che mi attorniano anche una matita. Mi attirano i grandi spazi per le invenzioni paesaggistiche; oppure prendo spunto da una forma della natura; mi piace soprattutto quello che riguarda l’uomo: i visi in particolare, il corpo umano, i nudi. Per esempio, quando dipingo una mela, mi lascio prendere da quella forma rotonda che ha qualcosa di sensuale, ricorda un seno>>.

Non ha mai frequentato una scuola d’arte; maestri non ne ha avuti e forse non ne ha mai desiderati; ha imparato da solo disegnando fin da ragazzino, fuori da ogni gruppo o corrente: <<Sì, ho sbirciato qua e là, ma mi ritengo un autodidatta. Se ho avuto maestri spirituali? Certo, che so: Morandi per le nature morte, Botticelli per certe bellezze plastiche e sensuali, Gaugin per il colore. Mi sono rifatto al Quattrocento, ho interrogato e fatto rivivere gli artisti di quel periodo e da lì sono risalito per mettere ordine nella mia pittura>>.

Preferisce i colori nordici, non si sente un pittore mediterraneo. Dipinge a qualsiasi ora, quando gli capita l’ispirazione. Per lui è una gioia: <<Ma solo quando riesce il quadro come voglio io, altrimenti è un arrovellamento>>.

Non venderebbe alcuna opera, ma è costretto a farlo per vivere. La scultura, quella no, non la vende. Me la mostra orgoglioso. È una testa in creta, con un viso tra l’africano e il mediterraneo, ma che possiede qualcosa di spirituale e di androgino nello stesso tempo: <<È la prima volta, ma ne voglio fare altre. Mi piace modellare la creta e mi ci voglio dedicare con più impegno>>.

Ha viaggiato molto, in diversi paesi del mondo e conserva anche qualche spiacevole ricordo, ma non ne vuole parlare, sebbene gli piacerebbe tornare a Katmandù: <<Ero andato in automobile e nel ritorno stavo attraversando l’Afghanistan, quando scoppia la rivoluzione. A un certo punto mi si rompe pure la macchina che è rimasta inutilizzabile. Ho passato veramente un brutto periodo>>.

Non vogliamo andare più a fondo nella vicenda, anche perché nel frattempo si è fatto tardi e dobbiamo congedarci.

Siamo in periferia. Fuori c’è un tramonto incredibile. Le case sembrano scatoloni su cui si stampano i riflessi di questi intensi colori e diventano splendidi involucri per misurare gli effetti luminosi, quasi che la luce avesse il potere magico di solidificarli.

Per un attimo abbiamo avuto l’impressione di irrompere in un quadro di Busca.

Giuseppe Possa


Le opere di Franco Busca sono rivelatrici non solo della natura del suo mondo pittorico, insieme intriso di cultura figurativa e di una sensibilità al colore con sfumature nordiche piuttosto che mediterranee, e della progressiva elaborazione di uno “stile” espressivo che ha un’impronta, qui nell’Ossola, limpidamente sua, ma anche di una metodologia operativa e di un’idea dell’arte perseguita soprattutto negli ultimi anni.

È difficile dire da dove venga, a primo acchito, la sua opera: non si riesce a capire quali siano i suoi precedenti, se non si risale a quelle forme artistiche tradizionali del Quattrocento, in grado di generare un ordine geometrico calato entro rarefatte atmosfere metafisiche. Si può, osservando i suoi quadri, notare un’intonazione sospesa, ma sempre delicata per come descrive minuziosamente e realisticamente gli oggetti e la vita di tutti i giorni.

Spesso costruisce l’immagine con tagli precisi (anche mediante vedute dall’alto) attraverso una sapiente disposizione dei piani e dei volumi, in cui è evidente un notevole equilibrio della composizione.

Considerevole rilievo hanno i ritratti, non semplici istantanee di quotidianità, ma raffigurazioni accuratamente pensate e realizzate sfruttando al massimo la possibilità dei colori freddi e di una luce nettamente spartita dall’ombra e priva di sfumature.

Certi suoi volti (nella foto: ritratto di Mila Quaglia) esprimono, nello svanire dell’atmosfera, un dileguarsi dei rapporti umani: la condizione di una muta inquietudine che si consuma nella malinconia di una città o nel vuoto delle periferie. Non può sfuggire, inoltre, come la figura umana sia sempre colta in una dimensione di solitudine essenziale.

Persino i suoi nudi sembrano provenire da territori sigillati (forse paradisi improvvisamente inghiottiti?), chiusi in un isolamento che, nel silenzio dell’ascolto o trascinati in una danza senza freni, è più della solitudine.

Sicuramente nelle sue composizioni (dove spesso c’è il gusto per la citazione) riesce ad essere calibrato senza pedanterie, così il quadro non cade mai nel fotografico, anche quando si è spinti a toccare le superfici per accertarsi che il colore abbia spessore.

Sono proprio le immagini curiosamente accostate e associate con gelida precisione iperrealista a costruire il fascino di questa pittura. (Giuseppe Possa)

           

Appunti su di un viaggiatore

(a Franco Busca)

 

E' sul piano di una livida cucina che panneggi setosi si

fanno incarnato nella luce. Velluti rossi raccolti in forma

di frutti, specchiati nel cobalto metallico di altre nature.

Bianchi come i tasti di Thelonious Monk, i denti si

svelano nel volto verdastro di un piccolo quadro.

Eccole, le geometrie silenziose che Franco Busca sa

meglio ritmare, entrando attraverso il deserto in una

tavola del '400 su di un tappeto.

Forse è il viaggiare sui tetti di autobus nella sabbia, ad

illuminare i testimoni del tempo, che si incamminano

soli, con pochi colori scaldati nelle tasche vuote, nelle

irriverenti notti prefiguratrici all'apparecchiare le mille

nature morte, termine della pittura che non abbisogna

di epocalità, che è lì, immutata e immutabile nella

propria vertigine.

Piccole preziose tele, dove una palla attraversa più

finestre prima di fermarsi nell'angolo su in alto, ad

illuminare la scena.

Equilibrio mutuato dalla mano di Piero, dove in trono

sta l'oggetto.

Lo è nel cavallino, fermo di fronte ad una sfera colorata

che si ridimensiona a palla.

Nella credenza rossa come il mantello di San Carlo.

Nel peperone giallo come un sole di polenta, che sta

all'uovo in simmetria.

Nell'arcano vello di una “vergine” in slip bianchi che

con aura santa illumina la piccola icona.

Sono loro le maestà del nostro presente tortuoso.

Ecco, è l'occhio del viaggiatore che ci accompagna,

all'interno delle stanze di Babilonia, con ferma la mano

a trattenerci dal cadere.

 

Marcovinicio (Tratto da Rivista ossolana)

(nella foto: Franco Busca e Marco Vinicio)


E’ morto un pittore, l’ultimo beat-bohèmien ossolano

Secondo il filosofo Peter Sloterdijk, nella sua analisi sulla funzione del ‘cinismo’ nella storia (in “Critica della ragion cinica”), uno degli aspetti attraverso cui si è caratterizzato in modo marcato sotto forma di ‘sfrontatezza’, è stato anche quello della Bohème “fenomeno relativamente recente, che ha svolto un ruolo del tutto straordinario di tensioregolatore fra arte e società, rappresentando il luogo in cui si sperimentò il passaggio dall’arte all’arte di vivereoffrendo per oltre un secolo copertura sociale all’impulso neokinico”.  Pochi però furono i bohèmien vita natural durante, per la gran maggioranza la loro condizione rappresentò come una stazione di transito, un luogo in cui sperimentare modelli di vita al di fuori dei normali schemi, in pratica una libertà per sfogare il “no” alla società borghese, almeno fino a quando non sarebbe poi giunto un più maturo “si, ma”.

Di certo la figura di Franco Busca rientra in quello sparuto gruppo di persone che hanno cercato – in parte riuscendovi – di trasformare in arte la loro esistenza e in tutto di mantenere fino alla fine (in termini simbolici forse morte compresa, per consunzione, in seguito ad una polmonite trascurata) quella particolare condizione. Non sempre è stato così comunque, poiché la sua ‘personalità’ (meglio sarebbe dire il suo ‘personaggio’) è il “prodotto” finale o intermedio di un percorso iniziato con irrequiete e scomposte marcature personali di totale anarchia culturale e comportamentale dove i ‘richiami’ precipui e per un verso pretestuosi all’alcool avevano subito allargato il divario etico e sociale (nonché in parte politico) con il proprio habitat (a cui era ed è rimasto sempre abbastanza insofferente).

E’ stata la pittura a restituirgli una “strada”, un percorso originali (di fatto in ogni caso di estraniata 'opposizione') e, alla fine, predominanti su tutto e tutti (tranne che su pochi amici), mantenendo si l’iniziale accennato divario, ma per così dire ribaltando i ruoli e annullando quella specie di subalternità nei confronti di coloro che (non soltanto benpensanti o di destra) – pur con qualche ragione valida – non lo avevano capito, non lo accettavano e, anzi, lo avversavano: il suo modo di dipingere etereo, silenzioso e poetico ma non sdolcinato o romantico (così ben descritto da Giuseppe e Marco) si è così imposto negli anni, trascinando con sé e esaltandola anche la sua azzardata scelta umana, appunto la sua ‘arte di vivere’ (magari non scevra da disillusioni, in particolare rispetto al degrado generale nel Paese e nel territorio negli ultimi lustri) che si ispirava in effetti ai protagonisti famosi della beat generation, in primis Kerouac.

Ciò che cerco di raggiungere, il mio futuro di sviluppo…è di non fare più assolutamente nulla…ma consapevolmente, con circospezione e cautela. Cerco soltanto di essere. Sarò un pittore. Si dirà di me: è il pittore. E mi sentirò un pittore, proprio un vero pittore, perché non dipingerò…Il fatto di esistere come pittore sarà il lavoro pittorico più formidabile di tutti i tempi”. Più calzante di così non potrebbe essere questa asserzione di Marcel Duchamp, anche se usata dal medesimo per dimostrare che ‘era possibile andare al di là dell’atto fisico della pittura per riportare l’attività artistica al servizio dello spirito’: per definire l’opera, la visione e – con dolore – la scomparsa di un pittore come Franco Busca, l’ultimo beat/bohèmien ossolano.

Giorgio Quaglia



























































Lettura di un quadro di Franco Busca dedicato alla resistenza "Immagini per ricordare" (libro AMPI Domodossola, 1985)


Questa “composizione”, di una nettezza cristallina, preparata da Franco Busca per il quarantennale della resistenza dell’Ossola e che doveva far parte di una esposizione permanente, con altre 14 opere di pittori locali, non si sa più dov’è finita.

Gli “autori” di quella proposta dell’85, “Immagini per ricordare”, erano l’Anpi e la Comunità Montana, a cui ci rivolgiamo affinché i quadri, al di là degli esiti artistici e dei valori commerciali, vengano restituiti ai proprietari o almeno messi all’asta e il ricavato devoluto in beneficenza, per esempio ad “Alternativa a…”, una comunità diretta da persone che la “resistenza”, a costo di personali sacrifici, la portano avanti anche oggi.

Il tema “Resistenza” qui è avvertito da Busca in modo semplice e lineare; lo spazio è frazionato in spaccati illustrativi, dai colori tenui e sezionali, quasi si trattasse di tasselli cromatici, riquadri mandriani, per dare ampiezza concreta e visibile alla rappresentazione.

La torretta, sulla destra, ci dà immediatamente l’ambientazione domese e nel contempo quel senso di vigilanza, di guardiola per avvistare il nemico, rappresentato in questo caso dal nazi-fascismo.

Il partigiano (notare l’ovale purissimo del viso) sembra, infatti, di sentinella: ritto nel mezzo, impeccabile nella sua divisa, tirato a lucido, in posa frontale come di chi osservi un obiettivo per essere fotografato (vien quasi da pensare ad un pretesto per un’abile prova di ginnastica manieristica).

I calzoni corti ne rammentano la giovane età e nel contempo lo fanno pronto a correre per sentieri pericolosi ad avvertire i compagni di un eventuale pericolo (alle sue spalle si intravedono le montagne, quasi scenografia classica in un’illusoria profondità).

In quella calma del partigiano, Busca ci ha messo certezze, non cedimenti crepuscolari, non ironia: c’è soltanto il desiderio che quel poco di “autentico” avvenuto in Ossola possa resistere contro l’ingiuria del tempo e dei tempi.

Su questo palcoscenico è vietato il transito delle ombre e il giovane eroe è modellato nella sua severa monumentalità e compostezza in cui venivano raffigurati i crociati. In lui non c’è soldatesca spavalderia, ma tormentata plasticità, saldezza quasi lapidea, in cui è stampata una raccolta fierezza morale: le mani reggono il fucile come un santo lo strumento del suo martirio.

Egli sembra pronto con calma determinazione a difendere i diritti di libertà della sua gente, e con lui Busca ha dato volto ad un personaggio ormai leggendario, il partigiano appunto, al di fuori della retorica trionfalistica, avvolto in un’umanità così candidamente quotidiana, così disarmante da rischiare, per i meno attenti, di essere acritica, puro documento-cartolina.

Sulla sinistra la bambina, avvolta nella bandiera tricolore, rappresenta forse l’Italia che sta per crescere da quella esperienza luttuosa.

Il fiore che porta in mano simboleggia la speranza nel domani, ma anche l’atto di ossequio da posare sulla tomba del caduto.

Quest’ultimo giace sulla destra nelle sembianze del Cristo del Mantegna: rappresentato in quello schiacciamento che richiama il dolore. Non c’è liberazione senza sacrificio e l’eroe che cade rappresenta: <<il seme che muore / per rinascere domani / nella nostra libertà>>. Il passato qui rivive allora nella struttura plastica delle figure, sistemate (secondo un punto di vista compositivo) nell’esclusivo intento di creare un racconto suggestivo con valore storico ed ideologico. Questa “composizione”, infatti, mostra uomini che sono stati pronti a lottare e a morire per riaffermare il diritto alla libertà, per avviarsi su una strada di progresso e di giustizia.

Franco Busca, in questo quadro, ha quasi ripreso un angolo di museo per dirci che la “Resistenza” non deve essere mummificata, ma appartiene alla nostra vita e deve continuare oggi, con altri mezzi e sotto altre forme, come impegno civile di ognuno di noi.

Giuseppe Possa



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