La parola ‘fine’ (in nero su schermo bianco) accompagnò un
silenzio glaciale sceso nella sala, rotto soltanto dal mio applauso liberatorio,
unico spettatore ad alzarsi in piedi e a marcare così il suo assenso e la sua
commozione. Era il primo dicembre 1975 e al Festival del Cinema di Locarno la
proiezione mondiale dell’ultimo film di Pier Paolo Pasolini “Salò o le 120 giornate di Sodoma” avveniva
ad un mese dal suo brutale omicidio e dopo il divieto di proiezione in Italia:
un’opera, quindi, definitiva, sia per la scomparsa improvvisa e brutale del suo
autore, sia per il suo messaggio
tragico (storico e attuale) di denuncia da essa rappresentato.
A quarant’anni di distanza, alcune scene di “Salò” fanno da esordio ad una pellicola
che nelle intenzioni dichiarate del regista – lo statunitense Abel Ferrara –
vorrebbero essere “un omaggio e una
meditazione su un grande artista”, considerato un genio e un suo ‘maestro’,
appunto Pasolini (che da il titolo),
“raccontandone” gli ultimi due giorni di vita. Siamo a Venezia, bella e costosa
come al solito, alla 71esima ‘Mostra del Cinema’, e nella sala grande una voce
suadente femminile annuncia la prima internazionale alla presenza di tutto il
cast (che poco prima aveva sfilato, insieme alla variopinta mondanità degli
invitati, sul famoso tappeto rosso del lido fra i flash dei fotografi e le luci
dei riflettori): è comunque un momento di particolare emozione (vissuto anche
da Nicol e dall’amica Federica che mi accompagnano) in cui ogni personaggio nominato (da Ferrara
medesimo a Willem Dafoe, da Adriana Asti a Riccardo Scamarcio, da Maria de
Medeiros a Giada Colagrande, fino a Ninetto Davoli, il quale mi aveva salutato
e dato la mano con calore, come se mi conoscesse da anni o avesse intuito il
significato simbolico che per me assumeva quel ‘contatto’ con lui), riceve la
sua dose di sinceri applausi da una platea che non nasconde anche in tal modo
una forte aspettativa.
Le immagini vere del film postumo di Pier Paolo, lasciano
però subito il posto alla ‘rappresentazione’ di un personaggio (Dafoe-Pasolini)
e degli altri che gli ruotano intorno (la madre, la cugina, gli amici, ecc.)
talmente fagocitata dalla finzione cinematografica (tipica dei reality TV), da
una regia didascalica priva di audacia e dello scarso e un po’ imposto livello
recitativo (insulso ad esempio quello di Scamarcio nel ruolo di Ninetto da
giovane), da annullare pregnanza e
contenuto agli episodi, ai gesti, alle parole. Già…le parole! Il terribile
miscuglio di inglese, italiano e dialetto (accompagnato dai sottotitoli in italiano e
francese, visto che il regolamento vieta il doppiaggio, previsto peraltro nella
successiva distribuzione), in particolare la voce profonda e impostata di Dafoe
(dirimente rispetto al suo complessivo sforzo fisico, del resto non riuscito se
non in qualche posa e nella minutezza del corpo, di imitazione e mimesis della
figura di Pasolini), lasciano così sconcertati fino al fastidio, lo stesso provato
nei caotici ‘richiami’ scenografici (e musicali) di alcune opere dello
scrittore scomparso (il romanzo “Petrolio” da una parte e il progetto filmico
“Porno-Teo-Kolossal” dall’altra), in pratica i due “argomenti” che compongono
quasi tutta la pellicola, appunto in modo confusionario e spesso
incomprensibile. In particolare per coloro che non conoscono né la biografia,
né le ‘creazioni’ del poeta, la cui figura agli stessi appare in tal senso come
una specie di Fonzie pederasta e bocchinaro (in letteratura e nelle sue
scorribande notturne), un bamboccione romantico nella vita quotidiana e
famigliare e, ogni tanto, un ‘pensatore’ (per giunta non molto ‘produttivo’).
Di riflesso, chi invece lo ha apprezzato e amato e continua a
farlo, è costretto a “consolarsi” (in un
‘prodotto’ confezionato senza poesia e nostalgia) con l’unico momento davvero
chiaro, intenso e convincente (pure di Dafoe), ossia la riproposizione in sunto
dell’ultima intervista rilasciata in casa a Furio Colombo della Stampa il
giorno prima di essere ucciso (quella del “siamo
tutti in pericolo”): anche le incongruenze linguistiche – in una sorta di
estraniazione intima – in quei dieci minuti scompaiono (o sono ininfluenti) di
fronte alle sole argomentazioni che dimostrano come la pensi e come fosse
davvero Pier Paolo Pasolini. Troppo poco per un’opera che intende esaltarne la ‘unicità’ e il valore intellettuali,
rifuggendo per giunta da un giudizio o
un parere sulla sua morte, ri
tenuto da Ferrara di poco interesse. Tanto poco, a
parole, quanto invece essenziale nella sceneggiatura, se è vero, come è vero,
che la pellicola si vuol chiudere e impressionare con enfasi e pathos drammatici
proprio con tutta la sequenza (sempre presunta) dell’omicidio (di gruppo) –
ormai trita e ritrita dalla cronaca e nei documentari – e con l’urlo di dolore
della madre/ Adriana Asti quando ne riceve la notizia.
Le scritte di 'coda' (bianche su schermo nero), di ciò che nella
sostanza appare dunque come un’occasione persa per il ‘ritorno’ ad una certa
salute fisica e mentale del regista Ferrara …forse riducendosi invece di fatto a
una specifica e penosa ‘operazione commerciale’ indirizzata al mercato
inglese-statunitense… questa volta scorrono fra numerosi applausi del
pubblico in piedi, certo magari molti di formalità e di circostanza, per le
presenze, per il contesto; io rimango seduto e in silenzio ripensando a quel
giorno lontano a Locarno e al senso inesorabile e impietoso di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”
(rapportabile all’evoluzione e all’epilogo della realtà e della situazione italiane
e non solo). Il fascino sempre rinnovato di una Venezia lunare che lasciamo attraversando in battello la laguna, non
mitigano la delusione e la rabbia: il Cinema e Pier Paolo Pasolini qui, oggi,
sono morti.
