Alla presentazione del libro “Quotìdome”di Giuseppe Possa, in concomitanza con l’antologica “Quinto Stato” di Giorgio da Valeggia a Vogogna (VB), era presente anche il poeta e scrittore Paolo Emilio Pilone, che dopo aver letto la raccolta ha scritto questa approfondita recensione, che pubblichiamo. <<Quotidome>> è stato stampato in proprio nel 1985 e da "ControCorrente" nel 1998; è ora edito da Mnàmon in e-book e si può scaricare gratuitamente da
http://www.mnamon.it/ebook-gratis/quotidome-ebook.html)
Dalla fusione di due aggettivi,
quotidiano e domestico, nasce il sostantivo «Quotìdome». Questo il titolo della silloge poetica di Giuseppe Possa, frutto di un'attenta
quanto felice cernita attuata all'interno di una produzione ventennale, che
copre un arco temporale che va dagli anni '60 alla metà degli anni '80 circa.
Di primo acchito, seppure parzialmente intuibile e suggestivo, il neologismo potrebbe risultare di non immediata accessibilità. Tuttavia, una volta "decrittato", si rivela invece essere un valido significante, vero e proprio scrigno ricco di altrettanto validi significati. Quotìdome è, seguendo le parole dell'autore: «l'uomo semplice, colui che vivendo dietro le quinte, nella disperazione sociale, non avrà mai diritto ad una comparsa sul palcoscenico della vita; umile e “qualunque”, conosciuto soltanto col generico nome di “popolo” o se si preferisce di “massa”».
Questa premessa non deve però trarre in inganno il lettore, poiché l'opera di Possa, pur radicando in un periodo storico e sociale ben definito, non si ferma alla mera trattazione di un preciso individuo (o massa) inserito in un preciso contesto (o società), ma giunge a delineare l'individuo in toto, la società in toto: ovvero l'essenza umana. Dal punto di vista semantico, infatti, sebbene la raccolta sia stata concepita e quindi partorita all'interno di una più o meno circoscritta cornice socio-politica (si ricordino a tale proposito la guerra del Vietnam, le lotte proletarie, gli anni di piombo, il consolidarsi del capitalismo e del consumismo negli anni '80), essa rivela non pochi tratti di universalità, che trascendono la contingenza del periodo storico stesso, travalicando il labile e sincronico confine tra individuo e società, per sfociare nel diacronico e più ampio concetto di Umanità. Questo conferisce all'opera di Possa quel carattere squisitamente attuale e in alcuni passi, invero consapevolmente, profetico («I profeti/padrini senza angeli custodi»), che contraddistingue la poesia trasversale, destinata a sortire dal tempo.
L'attualità della raccolta è talora
sorprendente se consideriamo che l'autore ha composto questi versi decenni fa,
nel milieu di una realtà sociale e culturale che dovremmo, secondo logica,
ritenere sensibilmente differente da quella in cui viviamo ora. Ciò può
apparirci meno magico, ma non per questo meno affascinante, utilizzando la
chiave di lettura dell'universalità, estrapolando i versi dal contesto d'epoca
e proiettandone le problematiche in un contesto non più individuale ma comune.
Vi è infatti in quest'opera una sorta di cammino della specie, un iter
collettivo che, più o meno coscientemente, a ognuno di noi è dato di
sperimentare nell'arco della nostra vita.
Così accade che noi si venga al mondo
avvolti da una patina di ingenuo candore e fiducia («Fate colorate/mi appaiono,/scaturite/da favole/in cui mi sembra/di
ricredere,/in un tenue tramonto./Ridivento fanciullo»), pronti ad
interpretare la realtà con stupore e poesia («Sul teleschermo gigante/appaiono immagini planetarie/stelle dorate
dentro/profonde scollature/hanno occhi di ragazza»), anelanti e leggeri («Mani (ali-farfalla/entro magici
lacci)/fendono gli spazi/come meteore/in cerca d'infinito»), riconoscenti
(«Il tempo e lo spazio/qui/sono il
mio/infinito»). Poi, col passare del tempo e l'inevitabile crescere in
statura e obblighi, cominciamo a fare conoscenza con la realtà umana («che fatica decollare la mattina:/gli occhi
appena aperti da sogni deragliati/e già ghianda tra denti roditori»), con i
subdoli quanto diffusi giochi di potere («ma
oggi quanti agnelli macchiati col segno/di Caino, la testa dentro sorgenti di
astuzia,/si dissetano alla violenza del lupo»), con le intricate e spesso
ingiustificate gerarchie («E quando i
posteri toglieranno il marmo/dal nostro loculo, si accorgeranno/che anche noi
siamo stati soltanto/le ombre dei nostri idoli»), con la paura e la
fragilità che fanno di noi un imprevedibile, quanto pericoloso campo minato («Intanto – tra il popolo sgomento –/ritornano
gli dei/e i nidi delle streghe»). Accade allora che, ormai infranto quel
velo di innocenza originale che ancora ci poteva preservare da un cinismo
difensivo («Nessuno è innocente:/vittime
e carnefici/siamo nel contempo»), subentri un senso di impotenza («Ho cercato cieli e arcobaleni/ma ho trovato
la strada nuova e antica/sbarrata da un obelisco levigato/con una scritta
scolpita da millenni:/hic sunt leones»), un tentativo di razionalizzare le
ingiustizie ed i soprusi («Qui: Dio, la
vita, gli uomini, le cose/sono parole senza senso./La parola stessa è senza
senso./E anche il senso./E anche l'anche»), una profonda e dilaniante
frustrazione («ho scritto le ansie
dell'uomo/(...) mi sono lavato/le mani alla fontana del parco:/dalle unghie
lacerate/spuntavano le ombre/di una strada senza uscita»), un
insopportabile e malinconico sentimento di spersonalizzazione («Se rincorro in solitudine/stelle ondeggianti
nella notte/mi sembra che sia stato tutto un sogno,/che tu neppure esista,/che
io sia stato solo un fantasma/alla ricerca di me stesso»), fino alla
paventata rassegnazione finale («La tua
vita vale forse più di un'altra?/Hai la voce ormai priva di sangue/e la
corrente già ti trascina lontano./Altri abiteranno la tua casa...»).
Infine, però, l'autore insinua il dubbio («Vogliono
da noi un impegno sociale,/ma da che parte: le chitarre/delle masse o i violini
del potere?») e ci conduce ad una presa di coscienza che va oltre la razionalizzazione,
lo spostamento, la proiezione e il lutto, e che, riconoscendo una
responsabilità al crogiolo di norme sociali («Halime terminò di affondare la vanga/nella terra, coi gesti di
sempre,/allo schiocco fantasma di una frusta/che ormai non vibrava più
nell'aria/ma che gli aveva lasciato il solco netto/negli anni della giovinezza»)
fa sì che ci si ricongiunga a quella purezza perduta, a quell'illusione irreale
ma pragmaticamente benefica («potremmo
sfondare reti/saltare muri/se solo scorgessimo/un bagliore di là dal buio»)
che ci permette di osservare le cose senza necessariamente ad esse soccombere,
e senza con questo smarrire l'ormai radicato rancore – non scevro di una certa
ironia – che, al pari di ogni altra emozione, ci lega l'un l'altro («con grido violento e barbarico/ho invocato
la paralisi, il delirio,/il cancro, per tutte le zanzare/che alle mie vene si
dissetavano./Eppure ancora oggi/non posso nascondere le fattezze/della mia
razza corrotta»).
La silloge (che è costituita dalle quattro raccolte poetiche: Sogni deragliati, Rifiuti solidi urbani, Vuoti a perdere e Frammenti e schizzi in ordine sparso, più il breve epilogo dialogato Quotìdome, che dà il titolo all'opera) dal punto di vista stilistico appare compatta, unitaria ed omogenea, tanto che sembrerebbe essere frutto di un singolo atto di scrittura ispirata, piuttosto che di un lavoro diluito e abilmente curato nel tempo. Il verso è libero, la rima sciolta, il linguaggio è diretto, le figure metriche sporadiche, quelle retoriche rare, molte le parole-chiave, assenti gli escamotage letterari, i voli pindarici, la verbosità. Proprio in queste apparentemente casuali "omissioni" risalta l'abilità dell'autore: ovvero nella capacità di rendere chiaro e immediato il messaggio, la cui urgenza preme (a ragione) senza mai degradarsi ad un grido prevaricatore che possa macchiarne l'autentico sdegno, la non mai perduta innocenza di uomo che osserva e denuncia, ma vibrando costante a frequenza sommessa e suadente. La frequenza, quotidiana e domestica, di chi la poesia non la scrive soltanto, ma vi attinge, ne soffre ed infine, con tutto il vigore di un “uomo qualunque”, ne vive.
Paolo Emilio Pilone